Santiago, Italia di Nanni Moretti

I cinquant'anni del golpe cileno

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L'altra settimana cadeva il cinquantesimo anniversario di un altro 11 settembre, quello del golpe del generale Pinochet, dell'assassinio del presidente Salvador Allende e del rovesciamento del governo democraticamente eletto. All'ultima edizione del Festival di Venezia, il regista cileno Pablo Larraín è tornato (dopo Tony Manero, 2008, Post Mortem, 2010 e No – I giorni dell'arcobaleno, 2012) sulla storia del suo paese con El Conde, una intelligente satira del militare golpista. Nanni Moretti, cinque anni fa, affrontò l'argomento con il documentario Santiago, Italia, in cui con attenzione, discrezione e imparzialità (tranne che in un sacrosanto momento), narra i giorni del golpe, l'attività dell'Ambasciata d'Italia nel dare rifugio ai ricercati dal nuovo regime, e infine incontra gli esuli cileni presenti da allora in Italia, che fanno un confronto fra il nostro paese come era allora e come è diventato adesso… «Cineforum» (nel n. 580, dicembre 2018) ha recensito il documentario morettiano con uno speciale a due voci a firma Roberto Chiesi e Fabrizio Tassi. Riproponiamo qui il primo articolo.

 

«Cineforum» 580, dicembre 2018

Speciale Santiago, Italia

Il controcampo del degrado civile

Roberto Chiesi

 

Nel settembre del 1973, quando il generale Pinochet e i suoi militari stroncarono con un golpe il governo di Allende – che era stato democraticamente eletto tre anni prima – Nanni Moretti aveva vent’anni. Come tanti della sua generazione, militava in un gruppo extraparlamentare di sinistra, «ma “moderato”… Era un gruppo trotzkista libertario, meno dogmatico degli altri». Come tanti ventenni di allora, partecipò alle manifestazioni di solidarietà con il popolo cileno, anche se oggi riconosce di averlo fatto non senza disincanto, perché deluso dalle prime esperienze di politica attiva. Oltre quarant’anni più tardi, nel 2016, durante un viaggio a Santiago per una conferenza, l’ambasciatore Marco Ricci gli ricordò un episodio che aveva dimenticato: la salvezza offerta a centinaia di cileni da parte di due trentenni diplomatici italiani, Piero De Masi e Roberto Toscano, che li ospitarono nel palazzo e negli altri luoghi dell’ambasciata – spazi che godevano dell’immunità diplomatica – e così li sottrassero alle spietata persecuzione dei boia di Pinochet. In quei giorni, infatti, chi era sospettato di simpatie per Unidad Popular (il partito di Allende), veniva imprigionato senza perché, torturato nella tristemente nota Villa Grimaldi e spesso trucidato. I morti (tremila su trentamila vittime di torture) vennero fatti sparire nel nulla (i “desaparecidos”).

Moretti aveva probabilmente dimenticato l’episodio dell’intervento della nostra ambasciata perché all’epoca non era così insolito che gli italiani si impegnassero spontaneamente in una causa umanitaria: nel 1973 la penisola era governata dalla Democrazia Cristiana (Presidente del Consiglio era Mariano Rumor e Ministro degli Esteri Aldo Moro), un partito che non simpatizzava certo per la marxista Unidad Popular ma questo non impedì che i seicento rifugiati nell’ambasciata venissero trasportati da un aereo ministeriale in Italia (grazie anche all’intervento del Partito Comunista di Berlinguer).

Santiago, Italia, il quattordicesimo lungometraggio del regista di Habemus Papam e il suo terzo documentario (dopo La cosa e Il diario del Caimano) è nato sull’onda dell’emozione provocata nel regista dal ricordo di questa storia e dall’esigenza di tesaurizzarla in un film. Moretti ha deciso di intervistare i testimoni che avevano vissuto sulla loro pelle quella storia e così ha composto un mosaico sociale volutamente eterogeneo di voci e volti: i due diplomatici De Masi e Toscano, registi come Patricio Guzmán e Miguel Littín, professori come Leonardo Barceló Lizana, giornalisti come Paolo Hutter, Patricia Mayorga e Marcia Scantlebury, artigiani come Arturo Acosta e Victoria Sáez, operai come David Muñoz, avvocati come Carmen Hertz, medici come María Luz García, traduttori come Rodrigo Vergara, imprenditori come Erik Merino. Ha voluto anche ascoltare le voci di due militari complici delle stragi “silenziose” di Pinochet, il primo mai incriminato e il secondo (Eduardo Iturriaga), condannato per omicidio e sequestro di persona, che ha interrogato nel carcere di Punta Peuco.

Moretti ha raccolto quaranta ore di girato che ha limato per cercare di ottenere un’asciutta e rigorosa chiarezza. Diviso in quattro parti, Santiago, Italia inizia descrivendo il clima di entusiasmo di molti giovani cileni nei confronti di Unidad Popular (che vinse con il trentasei percento dei voti) e del governo di Allende, l’unico leader comunista che conquistò il potere democraticamente anziché con una rivoluzione o con la forza. Come già Claude Lanzmann in Shoah, anche Moretti riesce a raccontare la storia, passando quasi esclusivamente attraverso i volti e le voci di testimoni che, grazie alla fisicità emozionale ed espressiva delle loro presenze, permettono allo spettatore di “vedere” anche ciò che non viene visualizzato. A differenza di Lanzmann, Moretti ricorre anche a sequenze d’archivio: mostra per esempio un brano di Allende che parla, i momenti allucinanti in cui gli aerei dell’esercito bombardano la Moneda, il palazzo del governo dove il presidente si era arroccato e dove sarebbe morto, forse suicida o forse assassinato (una voce ricorda che da alcune finestre qualcuno si affacciò ad applaudire le bombe…), le rappresaglie della polizia, i sospetti dissidenti imprigionati nello stadio. Ma il peso più determinante lo hanno appunto le parole dei testimoni che vissero direttamente gli eventi di quella storia nella loro drammatica quotidianità e il regista ha evitato di coinvolgere storici o studiosi perché voleva che il racconto orale di questa storia fosse narrato soltanto da chi l’aveva sofferta.

Un’opera di memoria e coscienza

La scelta delle testimonianze svolge un’esemplare funzione di divulgazione storica degli eventi e al tempo stesso ha una forza emotiva di grande intensità, non solo quando alcuni testimoni si interrompono per la commozione (come accadeva anche per alcuni intervistati di Shoah) ma soprattutto per il nitore e l’assenza di qualsiasi retorica. Si pensi a Victoria Sáez quando dichiara di comprendere le ragioni di chi può averla denunciata sotto tortura perché per qualcuno poteva essere impossibile resistere alle sofferenze atroci che venivano inflitte e una delazione gliene può avere risparmiata qualcuna, o Marcia Scantlebury, che racconta l’episodio grottesco di una sua torturatrice che, incinta, le chiese di insegnarle a lavorare a maglia per approntare un golfino per il proprio futuro neonato. Altri, come María Luz García, descrivono lucidamente le soluzioni adottate da Allende per affrontare le piaghe del Cile, come l’alfabetizzazione obbligatoria, la nazionalizzazione del rame (che suscitò le ire degli speculatori nordamericani), il blocco dei prezzi degli alimentari, boicottato dalle aziende che fecero scomparire i generi di prima necessità, obbligando la gente a ricorrere al mercato nero dove veniva venduto a prezzi maggiorati.

Viene descritto l’isolamento e la relativa vulnerabilità in cui Allende si trovò ad operare, assediato da più lati e soprattutto – come ricorda Carmen Hertz che menziona i documenti desecretati della Cia – bersaglio della cospirazione ordita dagli Stati Uniti di Nixon e Kissinger che, temendo l’avvento di un governo comunista in Cile, prima tentarono in tutti i modi di sabotare le elezioni, poi finanziarono gli organizzatori del golpe. Con un breve filmato d’archivio, viene ricordato anche l’impegno di alcuni uomini della Chiesa cattolica, come il cardinale Raúl Silva Henríquez, che si espose di persona contro i crimini del governo e che fu poi emarginato da papa Woytila, il pontefice che non esitò a rendere visita a Pinochet alla Moneda e ad affacciarsi con il generale dal balcone di Santiago, legittimando così la sua dittatura criminale.

Il film ricorda anche la tragedia di una ragazza, Lumi Videla, che fu sequestrata e torturata dalla polizia fino alla morte e il cui cadavere fu gettato dagli agenti nel giardino dell’Ambasciata per diffondere poi la menzogna che fosse morta durante un’orgia nei locali della diplomazia italiana. Come Lanzmann, anche Moretti ha voluto filmare i carnefici e sentire come si giustificano: il primo è un connivente, un ufficiale dell’esercito convinto che il golpe fosse necessario, dato il caos in cui si trovava il Paese e che torture e omicidi fossero solo eccezioni; il secondo è uno dei torturatori che nega l’evidenza delle colpe. Di fronte a loro l’autore, del resto quasi sempre invisibile e silenzioso, interviene: se si limita a contrapporre qualche ragione al primo, nel caso del secondo, si fa filmare in campo mentre dichiara la sua non imparzialità. In una storia del genere, non essere imparziali è una questione di dignità.

Si arriva quindi al cuore del film: il momento in cui, sotto l’imperversare degli arresti notturni, delle feroci rappresaglie del regime, alcuni cileni saltarono il muro dell’ambasciata italiana e trovarono l’aiuto dei diplomatici del nostro Paese. Nel 1973 cominciavano gli anni di Piombo ma c’era anche questa Italia, il Paese che più aiutò i dissidenti cileni e che confermò la propria umanità, la propria cultura civile e sociale, quando accolse quei seicento profughi cileni sul territorio della penisola. I testimoni ricordano la domanda che veniva rivolta loro dagli italiani: «Cosa possiamo fare?» e l’aiuto concreto che ricevettero, in particolare nell’Emilia “rossa”, per un’integrazione professionale e sociale che dura tutt’ora. I racconti di questa solidarietà così spontanea, immediata e generosa appartengono ad un’altra epoca, quando la massificazione era appena iniziata. Dalla storia di ieri, dal Cile, si passa, con un movimento vertiginoso, di inesorabile necessità, al dramma apparentemente invisibile e opaco di oggi: la condizione attuale dell’Italia. Per effetto di un violento contrasto, le voci e i racconti di ieri illuminano il controcampo di oggi, lo stato di degrado sociale, culturale e civile dell’Italia grillo-leghista del 2018, dominata dalla neo barbarie del razzismo, dei linciaggi fuori e dentro la rete, dell’indifferenza civica, dei porti chiusi e della caccia al migrante. Un Paese che si riflette in un governo aberrante, denunciato da Amnesty International per la gestione repressiva dei migranti e la violazione dei diritti umani.

Oggi, come ha ricordato Leonardo Barcelò, gli italiani non vogliono nemmeno chiedersi perché qualcuno fugga dal proprio Paese e le ultime parole del film, sottolineate anche dal fermo immagine, appartengono a Erik Merino che ricorda come l’Italia fosse per lui «nuova sotto tanti aspetti, un Paese che aveva fatto la guerra partigiana, un Paese che aveva difeso uno statuto dei lavoratori. Sono arrivato in un Paese che era molto simile a quello che sognava Allende in quel momento lì. Oggi viaggio per l’Italia e vedo che l’Italia assomiglia sempre di più al Cile, alle cose peggiori del Cile». Merino cita la violenza del consumismo, dove della persona «che hai al fianco non te ne frega niente, se la puoi calpestare la calpesti. Questa è la corsa: l’individualismo».

Santiago, Italia si arresta prima di intraprendere un’analisi su quali cause possano avere determinato questa degradazione del Paese: non era questo lo scopo di Moretti che affida la riflessione allo spettatore.