Il 28 febbraio 1962 è una data cardine per il cinema tedesco ed europeo. Oggi celebriamo la ricorrenza dei sessant’anni da quel Manifesto di Oberhausen (il riferimento – come sappiamo – è a una cittadina situata nel Land della Renania settentrionale-Vestfalia, 30 km a nord di Düsseldorf, che ospita dal 1954 l’Internationale Kurzfilmtage Oberhausen, uno tra i più antichi e prestigiosi festival di cortometraggi internazionale) che con lo slogan «Papas Kino ist tot!» («Il cinema di papà è morto!») ratifica ufficialmente la nascita dello Junger Deutscher Film.
E al Nuovo Cinema Tedesco Mario Verdone su «Cineforum» n. 86, giugno 1969, dedicava un articolo, che per l'occasione riproponiamo qui.
In occasione dei sessant'anni del Manifesto di Oberhausen leggi anche Oberhausen Manifesto 60, il saggio scritto per la ricorrenza da Barbara Rossi
Il nuovo cinema tedesco non ha nulla a che vedere col cinema tedesco di ieri: nè con quello espressionista, nè col Kammerspielfilm, nè con le ricerche di avanguardia degli anni venti (dadaiste, costruttiviste, surrealiste) , nè con la “nuova oggettività” del 1930-1933, nè col cinema hitleriano, nè col cinema di rovine del secondo dopoguerra. È vero che qualche giovane realizzatore, nel quadro della “nuova ondata”, ha asserito di voler esprimersi (nel Giovane Törless ad esempio) «alla maniera dei nostri padri»: ma non è questo un motivo sufficiente per legare le esperienze nuove a quelle precedenti.
Già dal 1962 i giovani cortometraggisti tedeschi, completamente staccati dalla Germania del passato, si riunivano a Oberhausen, nel quadro del Festival documentaristico, per discutere sulle possibilità della nuova cinematografia tedesca e per formulare programmi per il futuro. Un manifesto fu sottoscritto da ventisei autori di cortometraggi. Si esprimeva così: «La grave crisi in cui si dibatte il film tedesco convenzionale distrugge finalmente il supporto economico di una mentalità che noi respingiamo. Il film tedesco acquista oggi la possibiltà di cominciare a vivere… Anche in Germania, come in altri paesi, il cortometraggio è diventato la scuola e il campo di sperimentazione per il film di produzione. Noi formuliamo qui la nostra esigenza di creare il nuovo film tedesco. Il vecchio è morto. Noi crediamo in quello nuovo».
Circa metà dei firmatari del Manifesto hanno girato film di lungo metraggio partecipando attivamente alla auspicata rinascita, la quale è stata facilitata anche dalla apparizione di qualche casa, comprensiva delle esperienze dei giovani realizzatori, come la Atlas; di organismi creati per appoggiare lo sviluppo e la interazione culturale in tutti i campi, compreso quello cinematografico, come il “Literarisches Colloquium”; di provvidenze finaziarie per lo “Junger Deutsches Film”, in base alle quali lo Stato copre parte dei rischi di investimento del regista e del produttore.
Il primo risultato positivo di questa accorta politica si ebbe al Festival di Cannes 1966 dove la Germania fu rappresentata da Der Junge Törless (I turbamenti del giovane Törless, dal racconto di Musil) di Volker Schlöndorff, da Nicht versohnt (Non riconciliati) di Jean-Marie Straub e da Es di Ulrich Shamoni: film che ricevettero lusinghieri consensi da parte della critica internazionale. Nello stesso anno, al Festival di Berlino, Schonzeit für Füchse (Caccia chiusa per le volpi) di Peter Shamoni ottenne l'Orso d'argento; e Venezia salutava con un Leone d'argento Abschied von Gestern (La ragazza senza storia) di Alexander Kluge.
È quindi a partire dal 1966 che si può parlare di una nuova ondata di registi giovani nella cinematografia germanica. Ondata che, come in tutti i fenomeni similari, registra lavori sicuri ed altri meno probanti, ma nel quadro, tuttavia, di un movimento a volte già consistente e vitale, che depone su un fatto nuovo da prendersi nella più seria considerazione.
Alexander Kluge, fra i nomi già ricordati, è quello da tenere nel più vivo risalto. Ragazza senza storia, che nasce dal suo libro Biografie, è una giovane sbandata incapace di reinserirsi nella società, al tempo stesso inadattabile e ribelle. È costretta a rubare, mente per salvarsi e poi per abitudine, non ha potuto finire gli studi perchè ebrea, e si è trovata in difficoltà nella Germania occidentale come in quella orientale. È un simbolo della gioventù tedesca del dopoguerra, che non riesce ad adattarsi in nessun ambiente. Fa pensare anche all'Edmund di Germania anno zero di Roberto Rossellini, nel quale è l'unico esempio con cui i film dei giovani tedeschi contemporanei possono avere qualcosa in comune: si pensi anche a Der Findling (Il trovatello) di George Moorse e a Tätowierug (Tatuaggio) di Johannes Schaaf dove la frattura tra vecchia e nuova generazione è netta, in più, accentuata da una precisa accusa contro il paternalismo, l'autoritarismo, la irregimentazione.
Nella critica sociale che Kluge imposta in Ragazza senza storia, l'accusata, è chiaro, non è Alexandra che passa da una prigione all'altra, che imbocca sempre strade sbagliate, bensì la società che, come dice Kluge, «non sa adoperare le qualità buone degli individui».
A Ragazza senza storia Kluge ha fatto seguire un film anche più complesso: Artisten in der Zirkuskuppel: ratlos (Artisti sotto la tenda del circo: perplessi). È la riprova che la strada intrapresa dal giovane cinema tedesco è giusta, e che anzi può fargli meritare anche i maggiori onori, come quando, nell'agosto 1968, la seconda opera di Kluge ha ottenuto a Venezia il Leone d'oro.
Artisten è l'opera più impegnativa che ha dato il cinema tedesco odierno, e merita quindi un discorso meno frettoloso. È una immagine della società di oggi, raffigurata in un circo, che va interpretato quindi come la vita contemporanea, l'arte e il ruolo che essa vi svolge, e lo stesso cinema, che è vita. Kluge si domanda quali sono i compiti dell'artista nella società attuale. La “circosofia” di Leni è quindi, in senso più generale, concezione e filosofia della vita.
Leni Peikert eredita dal padre un circo – e la passione per l'arte – e vuole trasformarlo con una concezione assolutamente nuova: renderlo più razionale e alla portata di tutti, tanto che gli artisti ad esempio non si limitano soltanto ad eseguire il “numero”, ma ne spiegano anche al pubblico le leggi fisiche. Le sue intenzioni nascono da lungimiranza e generosità, da sincero e disinteressato amore dell'arte: compito dell'artista, infatti, è anzitutto elevare il grado di difficoltà della propria arte, per andare al di là di chi l'ha preceduto. Si avanza per esperienze parziali, per frammenti, come Socrate. Il mosaico verrà più tardi: e da esso la possibile armonia.
Per realizzare le sue intenzioni, Leni rinuncia alla propria attività artistica e diventa capitalista imprenditrice. Compra elefanti ed altri animali ed assume alle sue dipendenze nuovo personale, fra cui un coadiutore, von Lüptow. Ma si indebita sempre di più. Vengono anche gli altri direttori di circo, e nasce un congresso (che somiglia vagamente a un covegno di scrittori, quelli del gruppo '47, o ad un convegno di documentaristi, quello di Oberhausen); ma non succede niente.
A Leni non resta che meditare sulla soggettività della azione di ognuno: ciò che tu fai non è intersoggettivo; lo ami tu, ma non è detto che lo amino anche gli altri. Forse le riforme sono possibili in un sol modo: dialogando con gli spettatori. Il monologo nell'arte non è utile.
L'eredità lasciatale dall'amica Gitti permette a Leni – dopo i primi disastri finanziari – di riprendere l'esperienza: mescola letteratura ed arte al circo, che può essere anche il convivere nella polis, la politica, e cerca di dare un senso al proprio lavoro, ponendo in atto il suo programma di riforme. E purtuttavia le sue intenzioni restano sempre tali: tutto rimane nell'astratto. La tradizione circense ne soffre, l'avvenire è sempre più oscuro, l'ideale irraggiungibile. Preferisce rinunciare. Tanto più che i propri collaboratori, i quali conoscono il pubblico, sanno che le masse non amano le riforme. Ogni artista si porta con sé la sua utopia.
E poichè Leni ama il circo, non lo trasformerà. Cambiato come aveva progettato, perderebbe le attrattive che le facevano amare quello spettacolo, come lo aveva concepito suo padre, senza peraltro raggiungere gli ideali del futuro. Non vuole più un circo di riforma e si rifugia nella tecnica. La televisione, mettiamo, può fare al caso suo. Tutto è più semplice e più facile. Ed è anche più probabile far carriera.
Amica dell'utopia, Leni ha voluto rinnovare, nel circo, la società e la vita, l'arte e lo stesso cinema, dando via libera alla immaginazione creatrice. Ma se la sua riforma fosse accettata, si domanda maliziosamente Kluge, non sarebbe forse perchè troppo facile, evidente, persino ovvia?
No, i grandi passi rendono ridicoli; meglio compierne piccoli: v'è più probabilità di successo. “Perplessa”, ma in maniera feconda, Leni tuttavia è convinta di poter ugualmente contribuire al miglioramento dello spettacolo, senza partire mai più dai grandi programmi ambiziosi.
L'allegoria è “cifrata” e non valutabile appieno, come tutte le allegorie: del tutto originale però nei mezzi che sceglie per discutere sulle finalità dell'arte. Kluge utilizza inserti filmati, strofette brechtiane, commenti fuori campo, interviste col metodo del cinéma-verité. Usa come strumento maieutico la “contraddizione”: azioni e controazioni, idee ed opinioni contrarie, mantengono l'opera in un discorso contradditorio che costituisce anche la sua stessa forza e originalità, perchè sollecita nello spettatore le reazioni cui l'autore deliberatamente mira.
Questo film, infatti, nella intenzione di Kluge, non può esistere nella sua pienezza che nel cervello dello spettatore. Si presenta come un irrazionale e diventa razionale allorchè il pubblico se ne impadronisce e lo fa proprio. L'obbiettivo cui Kluge tende, a nostro avviso, è soprattutto l'evidenziamento di una azione altruista – quella di Leni – per il bene comune e per il miglioramento dell'arte; la sua riforma cioè, il suo sviluppo, onde mantenerla al passo dei tempi.
Nella nostra società, nell'ansia di rinnovamento che investe tutto il mondo, si dà importanza a tutto fuorché all'amore dell'uomo. Leni agisce per il bene dell'uomo, e per questo è considerata una utopista. Tutti lavorano per produrre, ottenere, lucrare. Leni rimane ferma al suo gusto di fare, di inventare, di creare, come è proprio dell'artista. Ma lavorare per un piacere personale è oggi un concetto del tutto sbagliato. È il concetto stesso dell'artista: ed è per questo Kluge conclude, non senza amarezza che è più facile essere tecnico, esecutore. Vi sono più probabilità per il futuro… E così chiudendo ci ha dato la visione ideale e quella pratica, ci ha spiegato l'ideale e il possibile, cioè la politica… Un discorso, come si vede, che non si ferma all'immagine, alla battuta, al senso attuale o al paradosso; ma che va assai più lontano.
Nello studiare problemi paralleli del mondo e dell'arte attuali Kluge, facendo compiere ulteriormente un passo avanti alle ricerche del “nuovo cinema” in Germania, riesce ad esprimere in chiave simbolica, ma non astratta, le difficoltà che incontrano gli artisti di oggi per portare innovazioni nella loro ricerca espressiva: i compromessi cui sono costretti, l'utopia che mantengono nel loro spirito, e che li salvaguarda dalla volgarità, anche se non possono vantarsi di aver vinto.
Mentre ancora non sappiamo quali influenze determinerà Artisten nei giovani registi tedeschi, possiamo rilevare quelle, fertilissime, suscitate dal primo film di Kluge. Sulla strada di Abschied von Gestern è anche Gustav Ehmck di Spur eines Mädchens (Traccia di una ragazza) che però non vuoi dare giudizi di carattere sociale. La ragazza che qui agisce ai limiti della follia è soltanto un caso clinico: sia pure erede, anch'essa, di disastri che in massima parte nascono dalla guerra.
Un'altra giovane donna, vista criticamente, anche ironicamente, è la prolifica madre di Mahlzeiten (L'insaziabile) di Edgar Reitz che vede morire suicida il marito ed emigra in America, nella speranza di un mondo diverso, dove un'abitudinaria come lei, esuberante ed ottimista, può avere migliori possibilità di ambientazione.
Sono film, tutti quelli sin qui ricordati, che denunciano uno stacco talvolta violento tra l'ieri e l'oggi, tra una generazione e l'altra. C'è anche un desiderio di sincerità, di chiarimento, di liberazione da un passato oscuro, che arriva a forme estreme di rivolta, come in Tatuaggio e Il trovatello.
I fratelli Shamoni, che abbiamo già ricordato, preferiscono forme di discussione più pacate, meno perentorie. Es di Ulrich è basato su un caso di aborto, e denuncia una rottura d'ordine spirituale tra due giovani sposi che sono stati gai, esuberanti di vita, ma che sono portati improvvisamente di fronte ai loro problemi, in un abisso che non è colmabile, anche se il mondo d'oggi riduce tutto a sentenza cinica, spregiudicata .
In Alle Jahre wieder (Ogni anno di nuovo) Ulrich dopo aver cercato di definire sociologicamente i giovani, si rivolge agli adulti di mezza età. Ecco un coniuge che vive separato dalla moglie e ad ogni Capodanno rientra in famiglia credendo di fare, così, il proprio dovere di padre. Ma risalta la sua meschinità e il suo egoismo, la sua incapacità di risolvere un problema fondamentale alla radice.
Schonzeit für Füchse (Caccia chiusa per le volpi) di Peter Shamoni, tratta problemi attuali presentando un appartenente alla aristocrazia tedesca, il quale, stanco di continuare una vita senza aperture, con gente il cui problema principale è la caccia e non già la realtà quotidiana, preferisce allontanarsi da un mondo tradizionalista, di idee chiuse, per una esistenza di più puro sacrificio ma di più sicuro significato.
La carriera è il tema anche dell'ironico Wilde Reiter GmbH (Cavallo Selvaggio Società Anonima) di Franz Josef Spieker: ma il giovane e apparentemente scriteriato protagonista non vuole ottenere il successo a prezzo del delitto ed anche è il tema di Mit Eichenlaub und Feigenblatt (Con fronda di quercia e foglie di fico) dello stesso Spieker, dove, stavolta, è presa di mira la vita militare: Jurgen vuol diventare un eroe e viene riformato. Quando verrà accettato non penserà che a riconquistare la libertà.
Der junge Törless (I turbamenti del giovane Törless) di Volker Schlöndorff è una delle opere tedesche recenti che hanno destato maggiore interesse, anche per le parentele formali con la nouvelle vague francese, cui Schlöndorff ha appartenuto in qualità di assistente di Louis Malle, Alain Resnais e Jean-Pierre Melville. L'opera è strettamente legata al testo letterario: i valori formali non possono renderla come la più rappresentativa di un movimento che cerca, a volte spietatamente, di individuare i propri problemi: che non sono, evidentemente, quelli stessi della gioventù dell'epoca asburgica descritta da Musil.
Più significativo è piuttosto Nicht versöhnt oder es hilft nur gewalt, wo gewalt herrscht (Non riconciliati, ovvero solo la violenza aiuta dove la violenza regna) di Jean-Marie Straub, tratto da un romanzo di Heinrich Boli, vivacemente critico verso il recente passato tedesco ed anche se lo stile moderno e anticonformista non è corretto. Straub ha poi realizzato un disorientante film concerto, Cronaca di Anna Magdalena Bach: documentazione e biografia, film in costume ed esercitazione culturale.
Jean-Marie Straub, francese come George Moorse, americano autore anche di cortometraggi d'avanguardia; come Vlado Kristl, jugoslavo, autore del film sperimentale, stilisticamente audace, Der Brief (La lettera) appartiene a un significativo gruppo cosmopolita che è attivo in seno al cinema tedesco. Vi si è aggiunto di recente anche il bulgaro Marran Gosov, che ha diretto un'altra storia di una giovane donna: La ragazza di Bamberg.
Ma Gosov ha già preso la via della commedia con Mit Zuckerbrot und Peitsche (Con lo zuccherino e la frusta) e con Bengelchen liebt Kreuz und quer (Bengelchen fa l'amore a destra e a sinistra): film che citiamo per non nascondere che il successo può minare il lavoro dei giovani registi del cinema tedesco di oggi, come è avvenuto per tanti rappresentanti della nouvelle vague.
Al dramma, al film di discussione, molti già mostrano di preferire la commedia, il prodotto televisivo di consumo e magari il giallo sexy: confermando le conclusioni che Kluge aveva progettato in Artisten.