Il 20 luglio aprirà Il Cinema Ritrovato di Bologna: fino al 27 luglio un’immersione totale in capolavori, bizzarrie, generi, stili, epoche, film ritenuti perduti o mai restaurati prima. I titoli del programma appaiono sempre più numerosi sul sito del festival, dove si è anche aperta la vendita degli accrediti. Agli abbonati a «Cineforum» verrà riconosciuto uno sconto del 50% (60 euro invece che 120) sul prezzo dell’accredito, mentre per gli accreditati al Festival l’abbonamento annuale a «Cineforum» costerà 36 euro invece di 40. Uno dei prestigiosi restauri del festival sarà quello di Il servo di Joseph Losey, del quale vi proponiamo l’analisi di Tullio Masoni, apparsa sul n. 470 di «Cineforum», dicembre 2007.
«… And disorder feeds on the belly of order
And order requires the blood of disorder
And “freedom” and ordure and other disordures
Need the odour of order to sweeten their murders…»
(Harold Pinter, Ordine, in Poesie d’amore, di silenzio, di guerra,
a cura di Edy Quaggio, Einaudi, Torino 2006)
Strano, ancorché non rarissimo, il destino di Joseph Losey. Esaltato dalla critica d’impegno fra gli anni 60 e 70, poi dimenticato. Le sue opere tarde, certo non all’altezza di quelle che con la “trilogia” hanno toccato l’apice, avrebbero in qualche modo consolato chi già si preparava, più o meno consciamente, alla revisione. La stessa “trilogia”, così, ha cominciato a traballare: chi restringeva l’elogio a Messaggero d’amore per la buona ascendenza letteraria, nonchè per il conforto “romantico” della distanza d’epoca, chi andava ancor più per le spicce affermando che Losey doveva tutto ai suoi sceneggiatori. Il motivo comune, a ogni modo, restava la messa in mora dell’ispirazione politica e del legame con Bertolt Brecht, un autore “subìto” nel periodo caldo fra gli anni 60 e 70, del quale finalmente ci si poteva liberare. Così è andata. A quelli che come me attribuiscono valore non solo alla “trilogia” ma anche a film che l’hanno preceduta o intrecciata e, dopo, a Mr. Klein e addirittura, in parte, ai lavori ultimi, resta una sommessa ma convinta polemica.
Per il re e per la patria, intanto, non fu solo un esercizio brechtiano, cioè teatrale, tutto esauribile nella categoria del pacifismo di Milestone o Pabst (Kubrick no! neanche nominarlo), ma un esito coerente e inventivo di regia dove la guerra, oltre che oggetto di denuncia, diventa materia drammaturgica nel chiuso coatto dei rapporti di potere. Vale a dire un’evocazione con ampio pregio di universalità (le guerre non sono davvero sparite, né, tantomeno, i meccanismi gerarchici e mediatico-linguistici che la tecnologia moderna ha messo a disposizione e affinato man mano) e una forma – penso all’incipit sul monumento poi nel fango, alla lentezza squarciata dallo scoppio; penso alla partitura che alterna celebrazione claustrale a flash luminosi (siparietti) di pacifica e parodistica “convivenza” – ancora parlante e invidiabile. Un brechtismo fortunatamente superato al quale contrapporre, se proprio si vuole e Pinter aiutando, l’imperitura autenticità dell’inclinazione decadente spiegata in Accident e Messaggero d’amore? Non so; ma credo che riposare sui ritorni immancabili della decadenza come troppi fanno abbia talvolta, e a dispetto di ogni pur apprezzabile raffinatezza, la “classicità dell’abitudine”. Come credo, per chiudere la premessa, che a tali saggi sentimenti vada attribuito, in buona parte, l’oblio dell’opera loseyana.
Il servo è del 1963, ma il romanzo breve di Robin Maugham era stato pubblicato nel 1948 – di qui la derivazione “militare” che Pinter e Losey avrebbero poi eliminato – e, dieci anni dopo, lo stesso Maugham aveva scritto un adattamento per il teatro. La messa in scena del nuovo testo, a Londra, doveva toccare proprio a Losey, che però dovette attendere alcuni anni e la collaborazione di Pinter per metterci mano e, invece che sul palco, portarlo sullo schermo.
Nel film è stata soppressa la figura di Richard, il narratore, e il legame col racconto, in ultima istanza rispettato, torna spesso per vie indirette o digressive. Pinter e Losey si staccano più sensibilmente da Maugham nel concepire l’immagine e il personaggio di Barrett, il maggiordomo, che lo scrittore aveva creato secondo certa tradizione espressionistico-grottesca: «Parlava in leggero falsetto, impostando la voce e insistendo sulle vocali: così “signore”, nella sua pronuncia diventava “signooore”. […] Era alto più di un metro e ottanta e si muoveva con una grazia incredibile data la statura. Aveva le spalle e le dita delle mani affusolate e nodose. Ci si sarebbe aspettati una bocca “adeguata” alla sua figura. Invece, nel mezzo della sua faccia giallastra, stava piantata una boccuccia di rosa che gli dava un’aria da cherubino vizioso. Ricordo che le sue ciglia mi sembrarono unte. Il contrasto tra la testa e il corpo erano sconcertanti, era come se avessero messo la testa di un angelo barocco sulla cima di una guglia gotica» (Robin Maugham, Il servo, E/O, Roma 2000, pag. 20; da notare, poi, mi sembra un richiamo di Lorenzo Pavolini in appendice:«Se ascoltiamo la lettura che del Tartufo di Molière fa Cesare Garboli, potremmo riconoscervi un vago antenato di Barrett. Tartufo deriva il suo potere dal nulla, viene dal basso, dal fango. In questa sete di potere, nella spinta che esercita, c’è qualcosa di luciferino. Il sesso e la libido decretano chi alla fine sarà a comandare», pag. 109). Tali caratteri, affidati da Maugham alla descrizione del narratore, fanno presagire un crescendo maligno: Barrett apparirà poco a poco come una sorta di vampiro, un essere sinistramente fantastico che, in quanto tale, si stacca dall’insieme ordinario.
Nel film la parola “vampiro” viene effettivamente pronunciata da Tony, una volta solo per scherzo, per esorcizzare i timori della fidanzata. Ma Barrett, in apparenza, non ha niente di demoniaco; la maschera che gli presta il formidabile Dirk Bogarde è infatti quella di una sfaccettata e torbida usualità; la faccia della menzogna e del raggiro, o, anche, della simulazione drammatica intesa come tecnica e verifica in corso d’opera. Con la profondità del personaggio e le sue sfumature, infatti, Bogarde entra in un ruolo assegnato e, al tempo stesso, racconta angosciosamente il proprio. Attore per mestiere nella storia (cos’altro è un maggiordomo, la cui regola di comportamento si fonda sulla disciplina, il controllo e l’intonazione?), e attore al servizio del regista, che lo stringe in un rinvio soffocante di contrari: l’esercizio di uno stile levigato e la volgarità.
Giustamente Goffredo Fofi, riferendosi al Servo nell’insieme, parla di preveggenza: «Era un film perfettamente dei suoi anni e preludeva ai nostri, all’equiparazione culturale odierna tra padroni e servi, perfettamente “democratica”» (Goffredo Fofi, Dal romanzo al film. Passaggi verso l’omologazione, in appendice a Robin Maugham, cit. pag. 112). Ciò vale, a mio avviso, anche per la modernità dell’attore e, con esso, della regia; perchè alle due (tre?) facce dell’uno corrisponde il racconto alternato che, solo temporaneamente, separa l’azione delle due coppie: Tony e Susan, Barrett e Vera. L’ordine e il disordine dei versi posti in epigrafe, insomma, la reciprocità asfissiante.
Cinema? Teatro? Cinema e teatro sinteticamente raccolti nel valore “terzo” della regia? Una risposta in merito viene da Emanuela Martini la quale, concordando con Fofi sull’appartenenza del film al proprio tempo – tra Free Cinema e Swinging London – osserva: «La casa è viva e muta col mutare dei loro rapporti [di Barrett e Tony, ndr], con l’apparizione e la scomparsa di altri personaggi che vengono a interferire con loro. E questo è teatro»; mentre: «Fa impressione, rivedendo oggi Il servo, quante poche parole ci siano, quanto queste siano di secondo piano […] quanto quotidiane e banali siano le battute che si scambiano i protagonisti e quanto scaturiscano da un atto precedente. “Rimettili giù”, sibila Susan a Barrett, senza neppure guardarlo, quando lui fa per spostare il vaso da fiori che lei ha appena disposto nella camera del fidanzato, in un momento del loro silenzioso e feroce scontro di caratteri e di dominio. E questo è cinema» (Emanuela Martini, Il tempo ritrovato, in Cristina Jandelli, Beatrice Manetti, Giovanni Maria Rossi, a cura di, Harold Pinter. Dal teatro della minaccia al cinema delle ceneri, Aida, Firenze 2001, pagg. 45 e 46).
Con “deviante” realismo, e con una crudeltà che lo stacca man mano dallo spirito di Maugham – lo scrittore è assai preso, crepuscolarmente, dal tema dell’amicizia: «Sapevo che tornare a casa», conclude Richard dopo la separazione da Tony «sarebbe stato un lungo viaggio» – Il servo rappresenta uno scambio di potere tanto brutale quanto sterile; come il disordine si nutre in grembo all’ordine, così il comando passa nelle mani di Barrett poco alla volta, quasi impercettibilmente; il luogo che lui stesso aveva arredato (messo in ordine) va in rovina (nel più squallido disordine) quasi ubbidendo a una perversa naturalezza.
Così il servo prende il posto del padrone e vince, alla fine, ma è lontanissimo dall’aver conquistato la propria libertà. Ecco perchè, dopo aver ricevuto lo schiaffo da Susan, Barrett resta sconvolto, accompagna la ragazza alla porta e sistema il soprabito sulla sua spalla come avrebbe fatto, da bravo maggiordomo, in qualunque altro momento. Solo quando ha sbarrato la porta può tornare dal padrone nello spazio ormai fetido della casa e riatteggiare un ghigno di trionfo; ma fuori dal tempo, un tempo già inutilmente scandito da gocciolii e squilli di telefono e ora simboleggiato da una pendola immobile.
Nello spazio unico di una casa vieppiù opprimente per il “trompe-l’œil” creato dagli specchi (come nel pensiero unico di oggi, oserei) trasgressione e impotenza hanno il medesimo segno, si tengono una all’altra e mutano forma solo per marcire; lo avrebbe spiegato anni dopo e con stile assai diverso Fassbinder, il cui intento fu sempre affermare la differenza omosessuale, ma disilludere su una sua funzione liberatrice quando è in gioco la differenza di classe.