L'uso della motosega come una delle belle arti

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«C'era una folla immensa, ero frustrato. Quando mi sono ritrovato vicino a un espositore di motoseghe, ho pensato che se ne avessi presa una e l’avessi usata sulla folla avrei potuto farmi strada subito». Con queste parole, assai condivisibili (se siete sopravvissuti a certe corse in autobus, saprete cosa intendiamo), Tobe Hooper raccontò l'ispirazione dell'arma preferita dal personaggio di Leatherface di Non aprite quella porta. Passato poi alla storia per la sua efferatezza e per essere considerato il più terrificate horror di tutti i tempi nonché un pamphlet a favore del vegetarismo (ipotesi non del tutto campata in aria), The Texas Chainsaw Massacre ha compiuto lo scorso 11 ottobre i cinquant'anni dalla sua prima statunitense. «Cineforum» (sul n. 431, maggio 2014) parlò del film, in occasione dell'uscita del remake di trent'anni dopo, con un saggio di Alessandro Bertani e Alberto Soncini, che qui riproponiamo.

 

«Cineforum» n. 431, maggio 2014

 

Texani brava gente

Non aprite quella porta 1974-2003

 

Alessandro Bertani

Alberto Soncini

 

Nel corso della prima metà degli anni 70 – in concomitanza con lo scandalo Watergate e l’ignominiosa conclusione del conflitto vietnamita – sarebbe iniziato il declino del sogno americano, cui il cinema offrì consistenti modelli interpretativi: dal western revisionista al film di guerra crepuscolare, senza dimenticare il cinema espressamente “politico” e l’horror, per l’appunto. Il film di Hooper, per citare uno dei casi più eclatanti, fece epoca soprattutto per la furia esasperata e per la truculenta visione di orrori che offriva allo spettatore: prima di tutto, segnò un ulteriore spostamento in avanti della soglia di violenza e sangue “mostrabile” al pubblico pagante. Non pochi videro allora – in quello che appariva un low-budget horror efferato e “maledetto” (il film è stato bandito dalla Gran Bretagna fino al 1999) – una rilettura metaforica del mito che sanciva la fine dell’epopea western. Ciò avveniva in modo non molto dissimile dalla vicenda descritta in Un tranquillo week-end di paura (1972) di John Boorman dove si recuperava una tematica fondativa della cultura americana: l’opposizione tra civilization e wilderness. Con Hooper, tuttavia, tale opposizione sembra giungere a un definitivo e feroce epilogo: nel profondo dell’America continua a pulsare un cuore nero estraneo a qualsiasi forma di civilizzazione. Il mito del West appare, così, svuotato di senso e, per questa via, definitivamente annullato. Non v’è più alcuna frontiera da esplorare, nessun territorio da conquistare: l’orrore si trova quasi sotto casa, basta uscire dalle mefitiche e assordanti città metropolitane per scoprire sacche di resistenza (in)umana alla ricerca di qualche giovane corpo da maciullare: il mattatoio il nostro mondo.

E a ben vedere, non è casuale che nel Taxi Driver (1976) di Scorsese il reduce Travis Bickle/Robert De Niro incroci, nei suoi solitari pellegrinaggi notturni, una sala cinematografica in cui si proietta proprio The Texas Chain Saw Massacre. Nei fatti, la strage finale in cui Travis (trasformatosi per l’occasione in indiano Mohawk) massacra i protettori di Iris/Jodie Foster, rimanda intertestualmente alla frenesia omicida di “Faccia-di-cuoio”: la violenza nasce e si rigenera senza alcun referente ed assurge così a dato ontologico e permanente della società americana. In tal senso Non aprite quella porta partecipa sia teoricamente che fattivamente alle “poetiche della violenza” di cui parla La Polla a proposito del “nuovo” cinema americano tra la fine dei 60 e la prima metà dei 70. Ma il dato più rilevante è che nel film di Hooper ciò avveniva propriamente a livello di messinscena: l’intero plot era il mero pretesto per l’esibizione del mostruoso “Faccia-di-cuoio” e delle folli gesta della compagnia texana.

Un massacro o forse due - Il raffronto con l’originale obbliga a valutare il rifacimento firmato da Markus Nispel secondo la logica della differenza. Come si dirà di seguito, infatti, questo remake si propone su di un piano completamente differente e, per certi versi, opposto. L’organizzazione degli elementi originari proposta da Nispel – nonostante la sceneggiatura di Scott Kosar recuperi l’originale firmata da Hooper e Kim Henkel – segue logiche e propositi diversissimi, operando una riscrittura “spettacolare”. La storicizzazione della vicenda, ad esempio, si fa molto più raffinata. Essa è affidata alle immagini sgranate di un filmato in b/n a bassa definizione posto a cornice del racconto (in luogo della ben più essenziale introduzione fatta di semplici istantanee intervallate al nero). Una voce over ricostruisce l’antefatto ricordando come il film sia il resoconto di un fatto di cronaca e, così facendo, immette un ulteriore surplus di terrore: è l’espediente necessario a rendere autentico e a connotare drammaticamente il prosieguo del racconto. Il brevissimo incipit, peraltro, suggerisce la presenza di una condizione edenica: i corpi nudi che si gettano in acqua, la droga come fuga dalla realtà. Ciò avviene addensando in rapida successione riferimenti alla controcultura degli anni 70: difatti, il film si apre come un convenzionale film on the road in cui un gruppo di giovani hippies viaggiano su di un furgone per assistere a un concerto rock. La breve scena è scandita dal riff inconfondibile e gaudente di Sweet Home Alabama dei Lynyrd Skynyrd, che funge da grottesco contraltare e, insieme, anticipazione del massacro.

Il sarto e i suoi strumenti - D’altra parte, allo spostamento della soglia di visibilità si accompagna l’annullamento della componente romantico-sentimentale che in tanti horror muoveva il fanatico. Siamo al fondo della catena umana, il trauma irrisolto del volto sfigurato non produce un fantasma dell’opera o un fumettistico Darkman. Piuttosto, crea una forma impazzita che smembra senza un perché: dunque “Faccia-di-cuoio” è un assassino le cui motivazioni si perdono, sono trascurabili. Altra componente decisiva: egli agisce senza il metodo e le astuzie dei delinquenti seriali. Semplicemente imbraccia la motosega per fare a pezzi le vittime. È un corpo-terminator ante litteram, il suo scopo – uccidere – è iscritto nel suo codice genetico, egli è un puro corpo intontito che azzanna, come lo squalo di Spielberg o i piranha di Joe Dante. L’arma del delitto, devastante, non lascia dubbi di sorta. Non è reperto, o prova da cercare o desumere, è invece un elemento saldamente centrale in ogni aspetto della vicenda. Si può dire che l’arma e il suo uso siano stati decisivi nel rendere memorabile l’originale, tanto che non si ricordano altri casi altrettanto evidenti di legami tra l’omicida e il suo strumento. I coltelli da cucina di Argento non giungono mai a tali estremi, forse solo gli artigli di Freddy Krueger dei Nightmare ne rasentano l’efficacia. La “chainsaw” si configura in certi momenti quale appendice corporea, che fa tutt’uno con l’assassino. Lo strumento è un terzo braccio, un segmento che si innerva a questo operatore scervellato, come la rivoltella rinsaldata nella mano di Max Renn/James Woods in Videodrome (1983) di David Cronenberg, alla stregua di un nuovo organo.

Non siamo di fronte a un assassino che in solitudine uccide, bensì ci imbattiamo in un nucleo famigliare complottante, forse un’intera comunità dedita ai massacri. Questo per dire che il countryside texano è come un ascesso, una combriccola di deviati. A giudicare dai luoghi, la vita sembra averli abbandonati, è come se un cataclisma avesse smobilitato la civiltà per lasciare residui che odorano di morto. È vero dunque che si è punita la liceità di comportamenti off, quali il vagare senza meta e il fumare oppiacei; ma la mano feroce che colpisce questi figli scriteriati appartiene a un padre e una madre pure minati, sfigurati, orrendi. Persino i tutori dell’ordine sono parte in causa, nell’immonda gestione dei massacri (con ciò ribadendo il consueto abbinamento “violazione delle regole-punizione” presente in larga parte del cinema horror). I genitori di questa genia libertaria sono reietti, squalificati dal mondo civile, lontani dalle città, quale contrappasso più fetido al fiacco ribellismo dei ragazzi.

[…] La serializzazione degli squartamenti ripropone la tematica, ampiamente esplorata nel genere, dell’incisione e dell’oltraggio al corpo quale contraltare ideologico alla levigatezza estetica imposta dai mezzi di comunicazione di massa. Ciò è ribadito dall’ossessione di “Faccia-di-cuoio” per la pelle umana, che chiama necessariamente in causa la pratica dello scalpo e, per altri versi, il personaggio di Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti (1991) di Jonathan Demme, anch’egli occupato a fabbricarsi una “seconda pelle” con le sezioni delle inconsapevoli vittime. Ambedue sono, letteralmente, dei re-make: rifacimenti che utilizzano brandelli e parti di singoli ma che anelano a una normalità negata e denunciano parimenti una terrificante volontà di omologazione. Lo smembramento e la mutilazione dei corpi – che qui assume un valore esemplare e programmatico – divenne l’emblema e il marchio di fabbrica del New Horror nel corso degli anni 70 e 80. Il film di Hooper, dunque, si pone come punto terminale e conclusivo di una riflessione sugli incubi di una società che in quel periodo iniziava una mutazione antropologica e sociale senza precedenti. E qui il riferimento al cannibalismo, fuor di metafora, diviene il richiamo allo spietato darwinismo sociale che contraddistingue e pervade la cultura americana.

Del prêt-à-porter politico - Capire in che modo questa vomitevole farsa possa colpire politicamente al cuore dell’ordine costituito pare arduo, oggigiorno – se ci limitiamo alla rilettura di Nispel. Non siamo certo al cospetto di una regia ribelle, ma filologicamente attenta. Siamo però sicuri che dopo una serie di “new age ghost stories” degli anni recenti, un mostro armato di motosega abbia ancora da spopolare, come si è visto ai botteghini negli Stati Uniti d’America. L’accortezza del ricondurre la vicenda al passato, gli ha perlomeno consentito di non affaticarsi tanto nell’escogitare un aggiornamento temporale. Il piccolo siparietto col poliziotto che esplora l’antro dei delitti, con chiusura a sorpresa, serve a giustificare la sporcizia del setting, la desolazione degli scenari naturali; serve altresì a scansare il rischio di connotare troppo politicamente il senso del racconto. L’America putrida di allora aveva una cornice ben definita, l’escamotage del ritrovamento di un filmato rende conto della lontananza temporale degli eventi, come se ci riguardassero solo per amore dell’archeologia, come souvenir di un paese schizofrenico.

Oggi parrebbe ridicolo sconfinare per un po’ di marijuana; il Messico per decenni aveva rappresentato il confine tra repressione e libertà, reclusione e immunità. Andare oltre frontiera significava porsi al sicuro. All’opposto il Texas si irrigidiva su posizioni più punitive, finendo per tramutarsi in una terra di autentici mostri. Gli stessi yankee destrorsi che accopparono Fonda in Easy Rider (1969), qui trasformano i villaggi in mattatoi. La battaglia in difesa della famiglia unita e del neighbourhood pacioso sfocia in orrenda mattanza, come se la famiglia, per continuare a vivere, dovesse per forza consumare corpi, in preda a un vampirismo senza lirismi né vergogne.

I membri non fanno che congiurare: sono esemplari, a modo loro, nel concerto delle operazioni, tutte finalizzate ad assecondare il ragazzo e le sue insanie, per estinguere nel sangue i traumi irrisolti. L'estremizzazione del senso di solidarietà ci consegna un’improvvida, insopportabile caricatura di famiglia. Vi si riconoscono ancora gli elementi di amore filiale, di unità, di desiderio di rivalsa su coloro che possono rompere la catena dei sentimenti, se così possiamo chiamarli. Il frastuono della motosega rompe però ogni diversione, si impone come risata sferragliante sul consesso di parenti e congiuranti, sui cordoni ombelicali ancora penzolanti, sulle macerie di quel focolare già di per sé grottesco.

A conti fatti il riciclaggio di un film-chiave del cinema horror consente al capitale – anche grazie alle accuratissime politiche di marketing messe in atto dalle compagnie di produzione – di risfruttare commercialmente territori cinematografici già esplorati. Come ha giustamente rimarcato Mark Kermode il remake di Nispel si rivolge esplicitamente a una nuova leva di pubblico giovanile, ignaro o al più vagamente memore dell’omonima pellicola del 1974. La mutazione che consente questo aggiornamento è impressa dal regista attraverso una ricercatezza e una pulizia della messinscena sconosciuta al film precedente, allora girato in 16mm: non stupisce che i movimenti di macchina si facciano fluidi, privi della rozzezza primordiale e semidocumentaristica di Hooper. Per questo il film è tutto fuorché un B-movie: i colpi in arrivo sono studiati a tavolino, la cura dell’immagine è altissima (curioso peraltro che il direttore della fotografia sia rimasto lo stesso Daniel Pearl), il casting seleziona accuratamente gli attori secondo canoni di bellezza stereotipata. La levigatezza delle superfici finisce così per anestetizzare la paura a vantaggio di un’esposizione manierata dell’orrore (si veda, a titolo di esempio, il movimento di macchina all’indietro che passa attraverso il foro di pallottola creatosi nel cranio della suicida). È il trionfo del sangue in diretta e della perizia produttiva, ma anche – parallelamente – la negazione dell’anarchia visiva, dell’orrore necrofilo e “malato” cui aveva fatto ampiamente ricorso Hooper nel 1974 e che, in fondo, ne costituiva il fascino maggiore.