Goran Paskaljević è stato un autore importante, lucido, appassionato, ironico e spesso arrabbiato del cinema non solo jugoslavo ed ex, ma in generale di quel cinema europeo che, oggi forse più che in passato, rischia l'invisibilità. Cineforum ha sempre seguito il suo lavoro e Bergamo Film Meeting gli dedicò forse la prima retrospettiva completa nel 1988. È stato ricordato due settimane fa nel Focus di Cineforum.web, in occasione della sua morte, a Parigi, il 25 settembre, con un estratto di un articolo “di carriera” della serie 100 per il 2000 di Paolo Vecchi. Ecco la scheda di La polveriera, dello stesso Paolo Vecchi apparsa a maggio del 1999 sul n. 384 di Cineforum (disponibile in arretrato qui e in pdf qui).
Belgrado, viaggio al termine della notte
Mentre scriviamo - è la seconda metà di maggio - le “bombe intelligenti” della Nato stanno tuttora bersagliando la Serbia, anche se qualche spiraglio sembra aprirsi sulla strada della pace. Parte del contenuto di queste note potrebbe dunque essere superato dagli eventi, con i quali rischiano di impegnarsi in una rincorsa affannosa quanto insensata. Sarebbe più logico, forse, limitarsi a parlare di cinema, ma a volte non è proprio possibile. D’altronde è stato scritto da più parti che La polveriera, oltre a fotografare una situazione, vale anche come segno in qualche modo premonitore. Merito di Goran Paskaljević, con i suoi film e le sue dichiarazioni, è di offrire un punto di vista autorevole proprio perché interno, oltre che proveniente da un intellettuale rigoroso, coerente oppositore del regime. Cominciamo con le seconde, che, nella loro indignata lucidità, svolgono una funzione in qualche modo propedeutica ed esplicativa rispetto ai primi. Il regista, innanzitutto, giudica negativamente l’embargo, «che, insieme a Milosević, ha colpito anche la gente, creando una società in cui sopravvive il più forte. Il risultato di questo impoverimento è stato la scomparsa della classe media». Così, «si sono formate due Serbie: da un lato la classe politica, che fa la bella vita, dall’altro il resto della popolazione, che vive in condizioni miserabili». Quanto ai raid aerei, Paskaljević parla di clausole inaccettabili per i serbi negli incontri di Rambouillet, di bombe sganciate sulla democrazia, di un popolo in rivolta non contro il dittatore ma contro gli americani. Esprime poi forti dubbi sulla consistenza democratica dell’Uck, si chiede come mai i media occidentali siano prodighi di immagini sulla pulizia etnica nel Kosovo, ma abbiano taciuto su quella praticata dai croati nei confronti dei serbi. E afferma: «La Serbia appartiene all’Europa, sia geograficamente sia culturalmente. E la Serbia vuole far parte dell’Europa, non diventare un Irak dell’Occidente». Entrando poi nello specifico del film, conclude: «Si dice che i Balcani sono la polveriera dell’Europa, ma oggi, in Serbia, è ogni singola persona a essere una polveriera». Se dunque già Il tempo dei miracoli (1990) e Tango argentino (1992) con il loro impianto metaforico offrivano un’idea, rispettivamente storica e familiare, della disgregazione a venire, con questa sua ultima opera il regista entra più direttamente in medias res. Rimanendo fedele a un’idea di cinema tutto sommato proteso alla registrazione dei moti dell’animo, tende a far implodere la sua apocalisse. Ma, nemmeno tanto paradossalmente, è proprio questa interiorizzazione a restituire con maggiore efficacia la devastante sintomatologia del dramma.
Cabaret
La polveriera è incorniciato da un numero di cabaret (il nome del locale in cui un travestito introduce e commenta è quasi obbligato: «Balkan»). Si tratta di un procedimento non nuovo, che si giustifica certo con l’origine teatrale della sceneggiatura (tratta da una pièce del giovane macedone Dejan Dukovski), ma che qui assume una coloritura precisa. Il volto pesantemente truccato di Boris, i fasci di luce radenti, il linguaggio sentenzioso e provocatorio e la recitazione sopra le righe di Nikola Ristanoski rimandano a esperienze di tipo espressionista, e alle loro innumerevoli riletture successive. Tra queste, Paskaljević dice di essersi ispirato in particolare a Cabaret di Bob Fosse, perché l’atmosfera che si respira oggi a Belgrado è quella di un Paese in rapida evoluzione verso forme di fascismo o di nazionalcomunismo, quindi assimilabile alla Germania di Weimar. La cornice ha anche un’altra funzione, quella di creare un certo distacco ironico, per rendere meno insopportabile la tensione delle vicende che si dipanano sullo schermo. Come ha dichiarato ancora il regista, «nelle situazioni disperate, il riso è l’ultima difesa». Prendersi troppo sul serio, si sa, non è mai buona cosa. Possono forse permetterselo solo i popoli con grande territorio, storia, cultura e potere: i russi e non i balcanici, Tarkovskij e non Kusturica. Non ci pare comunque che di veri e propri “alleggerimenti” si possa parlare: il sense of humour vira a forme di sarcasmo cupo, La polveriera resta uno dei film più angosciosi e disperati che ci sia dato di ricordare. Ogni individuo, dunque, a Belgrado, è una carica pronta a esplodere ad ogni minima scintilla: un banalissimo incidente stradale, le reciproche confessioni di tradimenti incrociati, il dirottamento “simbolico” di un autobus (com’è lontana la leggerezza buñueliana dell’illusione che viaggia in tram!), il furto di qualche litro di benzina. Le ideologie si sono pervertite in sozze caricature, il sadismo è merce corrente, la biblica legge del taglione ha sostituito quella dei codici. In questa giungla buia e senza speranza, sono pochi i personaggi a conservare un barlume di umanità: Mané l’esule di ritorno, forse un alter ego dei regista, condannato a morte dal suo stesso sentimentalismo slavo, oltre che dallo spiazzamento in cui lo ha relegato la lontananza; il giovane che, sequestrando il mezzo pubblico, cerca di “svegliare” istericamente i pochi passeggeri, variamente rappresentativi di un “popolo” narcotizzato dal fatalismo; lo stesso autista, un professore serbo-bosniaco (tipo di profugo su cui i nostri media ci hanno dato scarse informazioni e versato poche lacrime) che rifiuta il proprio ruolo sociale per fierezza e moralità, salvo poi farsi coinvolgere dall’aura malefica, lasciandosi andare a un gesto di allucinata insensatezza («Figlio mio, figlio mio!», borbotta quasi in trance dopo aver fracassato il cranio al dirottatore). In questo tourbillon sordido, su cui la radio incombe martellante, presenza defilata ma avvertibile di una istituzione in lucido delirio, ciascuno è condannato di volta in volta al ruolo di carnefice e a quello di vittima, ma Paskaljevic si guarda bene dall’esprimere giudizi di tipo morale, siano essi di condanna o assolutori. «Sono colpevole?», ripete sino al parossismo la ragazza dell’autobus al fidanzato geloso. «Non sono colpevole!», afferma disperatamente il giovane arrampicato sulla rete metallica, mentre la canea lo sta lapidando. «La morte è bella, il mondo assurdo», recita una massima dell’attore del «Balkan». Il quale, in apertura, ci garantisce che ne vedremo delle belle, chiudendo poi con un sarcastico brindisi: «Alla nostra». Il regista sembra limitarsi a un’attonita contemplazione del baratro, ma il tipo di coinvolgimento va ben oltre il punto di equilibrio. La polveriera è infatti un viaggio al termine della notte in cui Paskaljević si chiama a correo della patologia di un popolo e della sua cultura. Per noi, che pure viviamo in una quotidianità di altre tensioni e devastazioni, questo paesaggio prima e dopo la battaglia funziona come cartina di tornasole di una falsa coscienza che gli eventi rendono ogni giorno più insostenibile.
Short Cuts
La struttura del film - ritratto di città, tutto in una notte, un pullulare di personaggi apparentemente isolati in un singolo nucleo narrativo dei quali via via si chiariscono i rapporti, una costruzione che lo stesso regista definisce sinfonica - autorizza di primo acchito un parallelo con l’Altman di America oggi, analogia che riguarda anche una generalizzata mancanza di senso nei comportamenti. Ma è lo stesso Paskaljević a sottolineare le differenze: «Volevo parlare del modo in cui i piccoli destini di ciascuno si incrociano. Il mio destino influenza il vostro, e così di seguito. E nessuno può sfuggire a questa spirale di violenza. Questa costruzione è molto desueta. In America oggi di Altman, i destini sono paralleli e non sono davvero riuniti che alla fine, dal terremoto». In questo film notturno, è la linea divisoria sull’asfalto, illuminata dai fari del taxi e ritmata dalla colonna sonora del solito, impeccabile Zoran Simjanović, a fungere da elemento di stacco e continuità, simbolo del percorso «from nothing into nowhere», se proprio si vogliono scomodare Sherwood Anderson e, sia pure parafrasticamente, Charlie Parker. Seguendone le scansioni, il racconto cresce di temperatura, con un giro di vite che ben presto lo survolta nel parossismo. Talvolta, però, si apre a intrusioni in cui lo humour nero trascorre in ironia garbata, quasi tenera. È il caso della magnifica sequenza in cui Mané, per convincere la ex fidanzata a tornare con lui, noleggia un’intera orchestra che, a un suo gesto commovente per sproporzione epica, compare quasi per incanto dal buio del lago intonando una struggente melodia sotto la direzione di un Ljuba Tadić umiliato e offeso al quale è concessa solo una battuta di dialogo, a testimoniare dell’afasia, quando non della derisione alla quale è costretto l’intellettuale nella Serbia di oggi (addirittura patetica risulta la morte dell’esule per mano dell’amante in carica, violenza imprevista ma conseguente dell’uomo comune e “civile” nella sua mediocrità). Oppure, i tempo si sospende, come nel crudele e tesissimo momento del suicidio del boxeur che trascina con sé nella morte la giovane vedova facendo esplodere la bomba a mano lasciatale come ricordo dal marito caduto in guerra. Altrove, viceversa, i toni vengono forzati fino all’insopportabile, come nella lunga sequenza dello stupro e della tortura della giovane, mentre il fidanzato è costretto a cantare una canzone d'amore macedone. Film di salutare sgradevolezza per le nostre coscienze narcotizzate, tour de force di inusuale coerenza linguistica, oltre che esibizione di un cast che non esitiamo a definire strepitoso, La polveriera non è tuttavia esente da difetti. Il parossismo, ancorchè giustificato dall’orrore degli eventi, prende talvolta la mano a Paskaljević, forzandolo a simbologie un po’ troppo sottolineate, quando non a scorciatoie esplicative (valga per entrambi gli aspetti la sequenza dell’autobus, urlata e didattica). Forse, però, non era possibile evitare queste impasse in un’opera così “difficile” da realizzare, per l’argomento, le circostanze in cui è stato affrontato e la preoccupazione di evitare nel pubblico serbo reazioni di tipo viscerale. Anche Underground, che costituisce un termine di paragone attendibile pur nella sua più esibita ambizione storico-metaforica, soffre di squilibri analoghi nella sua meravigliosa impurità. E un argomento di cui dovrà tener conto chiunque vorrà collocare questo film ammirevolmente “giusto” nell’ambito di uno dei percorsi d’autore più rigorosi e “morali” di questa fine di millennio.