Il 9 settembre, alle 14.30, nello spazio della Regione Veneto dell'Hotel Excelsior di Venezia Lido, la redazione di Cineforum ha organizzato un piccolo evento Fic (Federazione Italiana Cineforum) e Cinit (Cineforum Italiano) hanno organizzato un piccolo evento su Carlo Mazzacurati e il cinema del Nordest. Emanuela Martini e la Redazione di Cineforum coordineranno l’incontro. Interverranno: Marina
Mazzacurati, Giuseppe Battiston, Alessandro Padovani (Cinit), Chiara Borroni, Roberto Manassero e Farbizio Tassi. In occasione dell'incontro, vi riproponiamo la scheda di Paolo Vecchi di Notte italiana, apparsa su Cineforum 269, novembre 1987 (acquistabile qui), e un estratto della lunga intervista di Chiara Borroni a Mazzacurati sul ruolo del paesaggio nei suoi film, pubblicata su Cineforum web il 23 gennaio del 2014 che potete leggere per intero qui.
Gente del Po (e di altri lidi)
La più immediata impressione è di piacevole anacronismo. Notte italiana, nella sua lineare narratività, richiama alla mente il cinema classico – il romanzo ottocentesco. È un film colto e complesso nel quale, sotto una superficie tersa, sedimenta con fluidità una serie di stratificazioni che fanno i conti con un immaginario di ampio respiro. lnnanzitutto, il paesaggio del delta padano (la provincia veneta, che pure è stata attraversata da tanta letteratura, cinematografica e non, conosce una sorta di azzeramento), per quanto riproposto in un'assoluta originalità di angolazioni, nella dimensione “straniera” che ad esso fa assumere la memoria, ha i suoi padri nobili in Gente del Po e Il grido, il primo per le barche e gli orizzonti, le geometrie di argini e canali e le brume in cui esse si perdono, il secondo per i distributori di benzina con l’insegna luminosa e i drammi che si consumano tra le esalazioni della canapa al macero (più in generale, il richiamo ad Antonioni consiste nella sospensione delle atmosfere, screziate di mistero, alle quali Mazzacurati, con un giro di vite nel senso della commedia, applica il correttivo dell’ironia). Qua e là, occhieggia anche il San Benedetto Po de La visita, come microcosmo anni Sessanta, dove abitava Adorf-Cucaracha, dove abita Adorf-Tornova, dopo una esemplare carriera da scemo del villaggio a piccolo pescecane.
In secondo luogo, l’adattamento ad un contesto “nazionale” di elementi (cinematografici, letterari, infine immaginari) mutuati altrove. È il caso del romanzo hard-boiled e del cinema che ad esso si ispira. Otello Morsiani è infatti una sorta di Marlowe padano, caricaturale e risentito, morale e dolcissimo, che abbandona cani fedeli per amici che tradiscono, si tuffa in vicende ingarbugliate e miserabili, lotta contro potenti piccoli e medi, con i loro intrighi di polli e riscaldamenti, di metano e acqua salata, attraversa insomma tutta una serie di tópoi che nascono dal noir classico e arrivano fino alle sue più recenti, gloriose incarnazioni, Bersaglio di notte e Chinatown (addirittura, fino al videogame del prologo e dell’epilogo – l’uccisione di Dillinger - sul quale Otello non riesce significativamente a scrivere il proprio nome come top scorer). È il caso del romanzo d’avventure di area anglosassone, di cui L’isola del tesoro rappresenta uno dei massimi capolavori, assunto da Mazzacurati non solo come ricordo commosso di una “educazione sentimentale” (tra l’altro, quella che legge il figlio di Daria è un’edizione illustrata dell’editore Boschi, molto diffusa nei primi anni Sessanta), ma anche come indicazione di una poetica, di una concezione del cinema come favola per grandi raccontata con lo sguardo e il candore di un bambino (quelli di Jim Hawkins che scopre l’ammutinamento stando dentro al barile: ma, anche, che non può dimenticare l’indimenticabile Long John Silver). È il caso di quell’aura wellesiana che intride il film (anche se lo schema-tipo viene parzialmente modificato: non più un grande del male e un piccolo del bene, la dimensione di commedia non tollera personalità titaniche, ad un male miserabile e generalizzato si contrappongono poche, modeste ma brave persone) e che sfocia nell’unica forzatura cinefila: la citazione testuale della storia dello scorpione e della rana di Mr. Arkadin, troppo “urlata”, anche se tutt’altro che avulsa dal contesto. È un sincretismo rischioso, attraverso il quale il regista deve tra l’altro fare i conti con un archetipo padano e nazionale del calibro di Ossessione, ma la scommessa è vinta con disinvoltura, privilegiando la ricchezza dell’inconscio rispetto alle scorciatoie della teoria.
Infine Notte italiana affronta il tema della memoria, del ritorno necessario al proprio passato, e insieme della bertolucciana impossibilità a “tornare indietro”, nel sospetto di una coazione a ripetere e nell’incubo dell’omertà. Gli anni Sessanta - e il cinema che essi hanno prodotto – rappresentano il dato costante del film, a partire dal bellissimo prologo in bianco e nero, passando attraverso le atmosfere, gli ambienti, i mobili, i personaggi, i comportamenti. Ma se Strategia del ragno risolveva il rapporto col presente in chiave metaforica, Notte italiana riesce a dotare la propria struttura narrativa di una serie consistente e mai pretestuosa di agganci all’oggi. Lo sfascio della nostra società, la corruzione, il «Fai quello che accade» («Se non ci fossi stato io ci sarebbe stato qualcun altro», recita Checco), le precise responsabilità di una classe politica, imprenditoriale, professionale, vengono affrontati con pudore ma anche con fermezza. Perfino la tragedia del terrorismo, adombrata in filigrana nella figura di Daria, riesce ad incombere, più cupa in quanto indeterminata. Ed è significativo che al dilagare del brago possano ancora contrapporsi - in quella che è ancora tutto sommato una visione ottimistica - piccoli individui con una loro deontologia, siano essi un avvocato che non si adegua o un assessore comunista che controlla di persona le esigenze dei propri amministrati. Agli antipodi linguistici rispetto a Nanni Moretti, il cinema di Carlo Mazzacurati condivide con quello del coproduttore una forma superiore - certo meno nevroticamente “romana” - di moralismo risentito che si riflette - ça va sans dire – nelle scelte stilistiche.
Raccontare ancora delle storie
Ma a nostro avviso il dato più confortante è che Notte italiana segna una netta inversione di tendenza nel cinema italiano della prima metà degli anni Ottanta, un cinema senza storie e senza personaggi». Alle sue spalle c’è infatti un puntiglioso lavoro di sceneggiatura, memore della grande lezione della commedia “nobile” anni Sessanta, ci sono gli insegnamenti di Age sulla umiltà del “guardarsi intorno”, sulla necessità di documentazione del lavoro artigianale, contro le fughe nella metafora, nelle fumisterie intellettualistiche. C’è un’attenzione minuta a “costruire” psicologicamente i personaggi senza fretta, per tratti successivi , circondandoli di caratteri la cui funzione non è solo puramente narrativa (si vedano le presenze, in qualche modo “simmetriche”, dello zingaro Gabor e del fisarmonicista punk, innocui e simpatici farabutti di provincia che esemplificano la diversificata scelta di valori di Otello così disponibile al patteggiamento nei loro confronti come è assolutamente impermeabile alle lusinghe dei potenti).
Stilisticamente, questa opzione si traduce in una serie di scelte saldamente ancorate a un cinema classico: inquadrature mai banali, movimenti di macchina precisi e suggestivi, rispetto dei “tempi”, con un montaggio che alterna senza sussulti le ragioni dell’azione a quelle del lirismo. Con momenti di grande suggestione, come nella sequenza dell’idillio tra Otello e Daria, quando la ragazza racconta la sua prima storia d’amore mentre sta nascendo l’ultima, una camicia da piegare diventa oggetto magico e tramite, l’amplesso in campo medio sul divano viene staccato morbidamente dal montaggio sull’asse con carrello indietro, a suggerire la discrezione ma anche l’intensità. Oppure, nel quadro mosso e calibratissimo della balera, che, su una struggente aria di fisarmonica, trascorre senza soluzione di continuità in un esterno liberatorio e fiabesco, su un prato in cui Otello, bambino tra i bambini, insegue un’oca con una goffaggine superiore a quella del pennuto, prima di ritrovarsi solo, come in un film jugoslavo, tra l’erba medica e l’orizzonte. Insomma, questo film ostentatamente “piccolo” e in sordina, fresco e toccante, crediamo rappresenti qualcosa di più di una promessa, del sintomo di un fermento in atto. Pur esorcizzando passate, molteplici delusioni, abbiamo tuttavia l’impressione fondata che quello di Carlo Mazzacurati sia un nome sul quale il cinema italiano possa investire con ragionevole fiducia.
Intervista a Carlo Mazzacurati: Con la giusta distanza
Nel tuo cinema domina l’ambiente della pianura veneta, del Delta del Po, un luogo fortemente antropizzato che riesce a esprimere però una sorta di forza primigenia, una forza che è appunto quella che serve ai personaggi per riscoprirsi, per compiere delle scelte.
Il problema, per noi che abitiamo in queste zone, è che negli ultimi anni si è creato un processo repentino di saturazione del paesaggio. Tutta la zona tra Vicenza, Verona, Treviso e Padova, per esempio, una volta si articolava in aree agricole molto ampie e organizzate che si sviluppavano intorno ai capoluoghi; in trent’anni queste terre si sono appunto saturate, diventando una specie di città diffusa... A questo processo si sono sottratte poche zone, le più difficilmente industrializzabili dalla piccola industria, quella che non ha una vera e propria strategia di sviluppo. È vero che è un processo che riguarda più o meno tutta la pianura padana ma qui, essendo una zona che partiva da una condizione di maggiore arretratezza - il cosiddetto meridione dell’Italia del Nord - tutto è stato più veloce, disordinato, anche più visibile e dunque più traumatico, più violento, un po’ come un pugno in un occhio. Non si è calcolato lo sviluppo della piccola industria, che si è espansa in modo incontrollato, e gli unici posti che si sono in qualche modo salvati, perché per loro natura indomabili, sono la montagna (ancora vastamente libera a eccezione di alcune zone colonizzate dalle attività turistiche), e la laguna che in senso più esteso comprende anche il Delta.
Questo di pianura è appunto il paesaggio che mi ha sempre affascinato di più, un po’ perché è una specie di zona senza tempo, in cui non c’è modo di far stratificare nulla, neppure gli abitati: il Delta è infatti troppo mobile per consentire un’espansione progressiva intorno a un insediamento antico, continuamente si aprono zone d’acqua e se ne interrano altre il che impedisce questo processo. Anche per questi motivi il Veneto del Delta, zona che conoscevo fin da adolescente, è diventato per me un fondamentale luogo di riferimento (tanto che ci ho ambientato tre film: Notte italiana, L’estate di Davide e La giusta distanza): perché si tratta di uno spazio che, benché abbia una personalità propria, mi si è sempre posto davanti come spazio mutevole, aperto, una specie di vuoto da riempire, un foglio bianco su cui scrivere liberamente.
Quando ho cominciato a studiare la zona in maniera più sistematica, per girare Notte italiana, mi sono convinto che questo paesaggio mi avrebbe anche aiutato a sviluppare una soluzione per il problema non secondario – soprattutto quando hai un budget molto contenuto – del controllo visivo dell’ambiente; avvertivo la necessità di individuare un paesaggio con una forza visuale propria. Credo infatti che, nella costruzione di un film, troppo spesso venga sottovalutato il problema della consapevolezza del luogo che si ha di fronte, la preoccupazione di interpretarne i segni, di imparare la lingua che quel luogo parla.
Non si può dire che, fatte le debite eccezioni, l’attenzione per il paesaggio sia stata una peculiarità del cinema italiano.
Nel dopoguerra, il paesaggio è stato molto importante nel cinema italiano, ma è un’attenzione che purtroppo poi si è persa, mentre per me rimane un aspetto fondamentale. In altri immaginari, come quello americano naturalmente, il ruolo del paesaggio è invece un elemento non solo più presente ma addirittura costitutivo e fondante dell’intera dimensione culturale.
Ci sono però alcuni esempi anche nel cinema italiano, soprattutto relativi a un momento particolare come quello del neorealismo, in cui si avverte la necessità di costruire il racconto partendo proprio dallo sguardo sul paesaggio; penso a un film come Paisà (1946), per esempio, in cui Roberto Rossellini va per sensibilità istintiva in questa direzione (basta metterlo a confronto con il paesaggio per contro totalmente letterario, molto più raffinato eppure meno urgente di Ossessione, 1943, di Luchino Visconti per notare la differenza di sguardo).
Da questo punto di vista un film italiano contemporaneo che ho trovato molto innovativo, molto attento al dialogo tra racconto e paesaggio, è L’imbalsamatore (2002) di Matteo Garrone; l’idea di far dialogare due luoghi come il litorale alto campano e Mantova l’uno con l’altro rendendoli spazi del disagio, è molto acuta, molto consapevole e testimonia una sensibilità per i luoghi che è del tutto inusuale nel cinema italiano.
Davanti ai tuoi film si ha spesso l’impressione che i personaggi siano costretti quasi loro malgrado a entrare in relazione con un territorio, talvolta estraneo talaltra familiare, che entra in scena subito per diventare mano a mano rivelatore dell’essenza profonda, umana, dell’individuo.
Molto spesso in effetti i miei film si aprono con l’arrivo del personaggio che porta un punto di vista soggettivo in un posto nuovo del quale si appropria, prima attraverso uno sguardo d’insieme e poi penetrandolo. Quando invece il paesaggio è familiare, come nella Lingua del santo (2000), si crea il discorso opposto: il paesaggio non è tanto una scoperta quanto piuttosto il teatro di una sorta di regressione. All’inizio i personaggi sono semplicemente calati in una città di cui non sono riusciti a interpretare il cambiamento e a vivere la trasformazione... Quando i due reagiscono al disagio finiscono per esplicitare, anche a se stessi, il loro essere fuori luogo e fuori tempo e si spaventano. E così, man mano che si spaventano, arretrano fino a rifugiarsi in una sorta di liquido amniotico: cominciano un percorso a ritroso nella loro storia che li porta dalla città sui colli che stanno dietro Padova, dove si trovano le seconde case, dove si andava quando finiva la scuola, luoghi di sospensione, dove non si incontrano persone e ci si sente protetti; poi procedono fino a raggiungere la laguna, il luogo estremo dove il personaggio interpretato da Fabrizio Bentivoglio finalmente può sentirsi in equilibrio psichico. Questi tre stadi del racconto (la città, i colli e la laguna) rappresentano un po’ il percorso complementare rispetto a quello che affrontano i personaggi che si trovano a misurarsi con luoghi sconosciuti di cui appropriarsi. È tutto capovolto.
Lo stato d’animo del luogo diventa funzionale all’orientamento e al riconoscimento del personaggio, sia che si tratti di qualcuno di radicato sia di qualcuno che cerca di appropriarsene, e il fattore culturale diventa la mediazione necessaria al rapporto con quello stesso luogo.
Credo di aver bisogno di passare sempre attraverso una forte interpretazione e questa non può non essere condizionata da un fattore culturale. Dato che la pittura è sempre fortemente legata all’atmosfera di un luogo, mi aiuta molto, per esempio, utilizzare una serie di interpretazioni pittoriche come filtro per elaborare uno sguardo mio sul paesaggio. Porto infatti sempre con me quaranta, cinquanta immagini di quadri che, come dimensioni visive risolte, mi aiutano a far capire anche a chi lavora con me a che tipo di atmosfera sto pensando. Ho bisogno di poggiare su degli elementi di realtà potenti ma ritengo che l’intervento interpretativo sia ovviamente imprescindibile. Penso per esempio a quello che sono stati i miei rapporti con gli stessi luoghi nel tempo e a come essi si siano evoluti. Come abbiamo detto sul Delta del Po ho girato tre film: Notte italiana, poi, a distanza di circa dieci anni, L’estate di Davide e infine, più o meno dieci anni dopo, La giusta distanza. Finito il primo film avevo un forte sentimento di riconoscenza nei confronti delle divinità che sovraintendono quei luoghi, quei pioppeti, quegli argini perché avevo la sensazione che mi avessero protetto. Mi ero un po’ appropriato di quei paesaggi, mi sentivo un po’ come se ne avessi rubato la forza senza davvero rispettarne l’essenza perché li avevo utilizzati come una sorta di teatro di posa all’aperto; siccome mi fa paura girare nei teatri veri, che mi spaventano proprio per l’impossibilità di far emergere il genius loci, ho preso il Delta, soprattutto quello notturno, come teatro. Lì, sentivo una forza e un silenzio simili allo spazio teatrale perché c’è un ordine, un vuoto che tu puoi fare tuo e interpretare, c’è una mancanza di elementi incontrollati che ti permette la più completa concentrazione. Dopo quell’esperienza mi sentivo insomma un po’ in colpa per aver rubato tutto questo e, dieci anni dopo, volevo in qualche modo saldare il mio debito.
Per L’estate di Davide sono quindi tornato negli stessi posti fisici del film precedente con l’intenzione, questa volta, di mostrare realmente che cosa c’era lì, dentro le case, intorno. So che è una cosa un po’ scaramantica ma ho avuto il bisogno di mostrare la vera anima di quei luoghi che prima mi sentivo di aver in qualche modo tradito. Pagato il tributo, dieci anni dopo, con La giusta distanza, ho fatto un’operazione ancora diversa: ho mescolato elementi di realtà ad altri di irrealtà trascinandoli come attraverso un solco che ho creato in quel territorio; il rapporto tra paesaggio, racconto e individui è infatti qui molto più artificioso, non è realmente legato alla vera anima del Delta ma, grazie alla conoscenza che ho di queste zone e al sentirmici a mio agio, ho potuto lavorare nella direzione che mi interessava.
Per me quel territorio è infatti ormai diventato una specie di tavolozza, mi so muovere, so riconoscere i suoi segni e lavorarci sopra anche depotenziando, come in questo caso, la sua cifra di riconoscibilità specifica. Così, nel film, il Delta è diventato una specie di superprovincia del mondo; non avrei potuto, come ho detto prima, ambientare il film in una periferia, forse piuttosto in una provincia del Nord della Francia o degli Stati Uniti... Tant’è che quando mi è capitato di portare il film all’estero hanno capito perfettamente quello che volevo raccontare: il senso di vuoto o le difficoltà di relazione tra i personaggi sono elementi trasportabili in una specie di provincia generale sensibile agli stessi pesi e alle stesse misure.
Ti voglio leggere una riflessione di Gianni Volpi a proposito del territorio: “Invece di andare a caccia dei luoghi di un nuovo sentire dolente e però sublime, nel territorio si ritrova un vero corpo di immagini, immagini nuove perché necessarie. Il territorio è scelta di una scala, definizione di un campo e dei suoi limiti; è mistero della lingua, della comunicazione; ha un senso, quello di una cultura sepolta nel tempo; ha la consistenza, esso stesso, di un vero personaggio che interessa altrimenti, a volte quella dell’allegoria.”
È molto bello ed è un po’ la sintesi della mia necessità primaria, quella cioè di pormi con attenzione di fronte a ciò che ho davanti. La scappatoia di cancellare e ricostruire non funziona, bisogna starci davanti anche per trasfigurare. È necessario bagnare i propri panni nella materia territoriale che uno ha di fronte, intorno. Non deve essere uno sforzo, ma un processo istintivo, centrale, necessario; la dimensione del luogo d’altra parte è un sostrato psichico dal quale non puoi prescindere, è anche la dimensione fisica del tempo che tu vivi. È evidente anche nel cinema, nei film storici o ambientati nel passato che sono figli dell’epoca in cui vengono realizzati. Lo stato psichico del tempo e dei luoghi, indipendentemente dall’epoca o dalla dimensione che racconta, è completamente imbevuto dell’idea di luogo che si ha nella contemporaneità.