«Questa lunga storia d'amore di un giovane povero, questa musica da camera in bianco e nero è un'opera a parte, un grande film oscuro, loquace, alcolico. Lì il tempo passa a una velocità diversa dalle altre. Lì si celebra l'ozio attraverso incontri, Jack Daniels, scene domestiche, aneddoti irrisori». Così è stato scritto, da Eric Neuhoff, su La maman et la putain, il film più famoso di Jean Eustache ora di nuovo nelle sale italiane a cura di I Wonder Classics. Di quest'opera è stato detto tutto e il contrario di tutto. Da parte sua, Olivier Assayas ne ha sottolineato l'ineffabilità: «In questo film Eustache ha i riassunto e realizzato un'idea che era quella della Nouvelle Vague, ha realizzato finalmente il film che era stato teorizzato dalla Nouvele Vague». Su La maman et la putain, «Cineforum» pubblicò, sul n. 376 di luglio/agosto 1998, uno speciale a tre voci a cura di Adriano Piccardi, Michele Fadda e Rinaldo Censi. Riproponiamo il primo articolo, raccomandando di recuperare anche gli altri due.
Alexandre vive un lutto, incapace di assorbirlo e metabolizzarlo. Questa incapacità lo isola. I suoi gesti, i suoi spostamenti, apparentemente analoghi a quelli delle persone che lo circondano, che lo incontrano o che semplicemente lo sfiorano nelle strade o sulle terrasses dei caffè, sono in realtà fuori sincrono, ora rallentati e ora troppo veloci per non porre problemi di relazione e di interpretazione (Véronika: «Mi piacciono molto i suoi occhi… e la sua bocca… e il suo sorriso»; Alexandre: «Non rido mai»). A un'amica di ieri, incontrata per caso al caffè (e di cui, qualche giorno dopo, leggerà sul giornale che è ricercata dalla polizia per aver ucciso un uomo) enuncia senza mezzi termini l'origine della sua orfanezza e della sua angoscia: «C'è stata la rivoluzione culturale… il maggio '68… i Rolling Stones… i capelli lunghi… le Black Panthers, i Palestinesi, l'underground, e da due o tre anni più niente! Niente nella moda… neanche un film… niente!». La chiusura di un decennio all'insegna del troppo pieno ha lasciato la generazione che è cresciuta con lui completamente indifesa, nell'orrore del vuoto che ne è seguito: il tempo, che prima sembrava scorrere nell'esaltazione, nell'eccitazione di continue novità (da ascoltare, da vedere, da agire), all'improvviso, senza più respiro, ha rallentato: chi lo cavalcava aderendovi senza riserve si è trovato proiettato idealmente in avanti, per effetto di inerzia, avendo perso punti di riferimento e appigli che lo sappiano rendere partecipe della nuova situazione. Alexandre vive al contrario: rifiuta un'occupazione, non ha casa, ma non per questo si sente in colpa o si ritiene inoperoso: «No, non faccio niente, ma gliel'ho detto: ho una vita molto piena», dice a Véronika. Qual è la sua occupazione? Affermare se stesso, la propria individualità. Più che “occupazione” forse sarebbe meglio definirla una performance a tempo pieno, in cui prenda corpo un'idea dell'esistenza che non arretri di fronte all'incalzare della mostruosa normalità. Attenzione: affermare se stesso non significa necessariamente comprendersi, e proprio questa sfasatura, questo equivoco, finiranno per consegnare Alexandre al silenzio, lui, l'irriducibile parlatore, dapprima alla mercé del discorso altrui, delle sue “creature”, Véronika e Marie, e infine messo a tacere (Alexandre: «Vuole sposarmi?»; Véronika: «Sì… Sto male… Mi viene da vomitare… Se vuole sposarmi si renda utile, mi prenda un catino… Non mi guardi! Non mi va che mi guardino quando vomito! Si giri!»; titoli di coda).
Il film racconta, a prima vista, la «storia più vecchia del mondo», quella di un uomo innamorato di due donne, che a loro volta sono innamorate di lui, e delle complicazioni che gli derivano da questa situazione, sulla quale finisce per non avere più controllo. Lo scacco a cui Alexandre va incontro è però, in realtà, di portata più ampia. In lui si evidenzia, a partire dalle prime immagini che ce lo presentano, non solo fisicamente ma anche in azione, il tipo dell'eroe romantico: contrapposto a un contesto storico in cui non riconosce se non perdita e mancanza di senso, egli cerca di riportare un ordine nel caos attraverso lo strumento della parola. La sua è, in ultima analisi, un'attitudine artistica che, invece di porsi come fine la produzione di opere destinate a una loro esistenza autonoma, si esercita e si mette alla prova sulla vita medesima del soggetto: Alexandre vuole essere l'opera di se stesso, la posta in gioco è dunque altjssima e di pari portata sarà dunque l'eventuale fallimento. È dunque lui, l'“antilope viola” che attraversa “il campo di tonni” di una celebre frase di Tristan Tzara ripresa durante il maggio '68, irridendo il campo con la sua leggerezza ma contemporaneamente mettendosi a rischio di scivolare irreparabilmente sulla sua consistenza ingannevole: una scelta premeditata, una corsa disperata affrontata in piena consapevolezza ancorché con una fiducia forse eccessiva nelle proprie risorse. La sua controparte, lo specchio in cui cerca una conferma di sé, senza accorgersi della distorsione decisiva dei propri tratti che invece ne viene rimandata, è Charles: l'apparente rapporto di amicizia e di complicità che sembra legarli non fa che sottolineare la differenza che li segna e li allontana. Se Alexandre è l'individuo che “non ci sta”, che cerca comunque lo scontro con una normalizzazione dilagante da cui si sente minacciato, Charles è già, in qualche modo, oltre: il suo è un prototipo di atteggiamento “post-moderno”, per il quale parole, immagini, oggetti si assemblano su un piano di “parità”, mettendo così al riparo dal dolore associato alla mancanza di senso (il senso sta proprio nella sua mancanza: non resta che il flusso della vita, con il suo accumulo continuo di oggetti, discorsi, persone, situazioni, da cui lasciarsi portare). Quando Charles ci appare per la prima volta a casa sua, è seduto su una sedia a dondolo, come una sorta di icona del “saggio” che sa trarre dall'instabilità del movimento oscillatorio il principio stesso del proprio equilibrio, della propria sicurezza. In occasione della visita successiva, si esibisce con nonchalance su una sedia a rotelle rubata (a suo dire) a un paralitico; l'ambiguità introdotta dall'associazione inevitabile tra lo strumento e l'infermità di chi normalmente è costretto ad usarlo (e dunque sull'effettiva portata della libertà di cui il personaggio di Charles sembra essere depositario) viene poi amplificata dall'esibizione di disinvoltura con cui, nella conversazione, volteggia dalla falsa Marlene Dietrich, inventata dai nazisti per sostituire quella vera trasferitasi in America, al giochino della “rana sul soffitto”, alle macchinazioni seduttive concordate in favore dell'amico Alexandre.
L'incontro tra i due amici si conclude con l'accordo di ritrovarsi al caffè l'indomani, come se fosse per caso, poiché Alexandre vi ha un appuntamento con Véronika. Le affermazioni di Charles a proposito dell'improvvisazione («Di improvvisare non se ne parla. Se vuoi che parli, dimmi cosa devo dire. Io dico quello che vuoi, quello che ti fa gioco. Recito. Non aspettarti altro da me») sono state lette in più occasioni come una sorta di dichiarazione di Eustache, per interposta persona, sul proprio modo di concepire il lavoro dell'attore; giusto, ma, se le inseriamo nel contesto del confronto Alexandre/Charles sopra accennato, risuonano facilmente come una conferma della disponibilità di Charles a lasciarsi plasmare dalle esigenze della situazione esterna, contrapposta al ruolo organizzatore, ordinatore, che, invece, è delegato a Alexandre.
La ricerca di libertà di cui Alexandre è protagonista non potrebbe essere più intima, né meno “originale” per quanto concerne il suo progetto relativo alla sfera sentimentale-amorosa; fa da corollario a questa propensione per la replica, la sua nostalgia appassionata per le canzoni d'amore che provengono da un passato che nell'esperienza gli è del tutto estraneo. Il personaggio è quindi portatore di un ripiegamento, rispetto alla portata globale del movimento sessantottesco, a cui seguita a fare riferimento nei suoi discorsi, che potrebbe facilmente dare lo spunto per interpretazioni sociologiche o politiche; mi sembra in realtà più produttivo riconoscere che Eustache decise di lavorare su un motivo narrativo (ancorché saldamente ancorato a un contesto storico, sociale, generazionale, e addirittura “di quartiere” potremmo dire), che gli permetteva prima di tutto di mettere in gioco, radicalmente, la parola: come strumento di espressione, di rivendicazione, confessione, (auto)inganno, seduzione, resa, complicità, apertura, memoria, dissimulazione, silenzio. Nella catena delle parole si articola il discorso; due anni prima della realizzazione di La maman et La putain, il 2 dicembre 1970, Michel Foucault notava nella sua lezione inaugurale al Collège de France che «il discorso, in apparenza, ha un bell'essere poca cosa, gli interdetti che lo colpiscono rivelano ben tosto, e assai rapidamente, il suo legame con il desiderio e col potere. Non vi è nulla di sorprendente in tutto questo: poiché il discorso - la psicanalisi ce l'ha mostrato - non è semplicemente ciò che manifesta (o nasconde) il desiderio; e poiché questo la storia non cessa di insegnarcelo il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi»; il discorso che il film ci sottopone è un discorso amoroso, che è fatto di desiderio sessuale e volontà di potere dissimulati dietro la gamma delle modulazioni possibili, in relazione alle circostanze o alle strategie che determinano il loro prodursi. Il soggetto che dà inizio a questo discorso finisce per perdervisi nella misura in cui non accetta (anche se lui non lo sa) che alla sua apertura possano rispondere uno o più punti di vista antagonistici alla sua idea di amore, riassunta magistralmente in queste poche righe di Giorgio Agamben, che peraltro nulla hanno a che vedere con il film di Eustache: «Vivere nell'intimità di un essere estraneo, e non per avvicinarlo, per renderlo noto, ma per mantenerlo estraneo, lontano, anzi: inapparente così inapparente che il suo nome lo contenga tutto. E, pur nel disagio, giorno dopo giorno non essere altro che il luogo sempre aperto, la luce intramontabile in cui quell'uno, quella cosa resta per sempre esposta e murata». Il motivo dell'interdetto ha a che vedere, evidentemente, con la differenza sessuale degli interlocutori; c'è in Alexandre la volontà di mantenere sotto il proprio esclusivo dominio una situazione, che invece gli sfuggirà clamorosamente di mano a partire dal momento in cui le due donne potranno dare voce comune alla loro versione; c'è in questo capovolgimento di prospettiva la nemesi per chi, non avendo saputo superare il proprio lutto, ha finito per ordire il proprio discorso (l'unico discorso di cui è portatore) di una nostalgia regressiva, per qualcosa di precedente il lutto medesimo (per l'indistinto dell'infanzia o ancor prima), costitutivamente incapace di entrare in relazione alla pari con la franchezza di chi non teme di usare parole che guardano avanti.
Non so se, come dice Olivier Assayas, La maman et la putain sia il film più bello della Nouvelle Vague realizzato da un autore che non ha fatto parte di quel movimento; si tratta di un paradosso che svela componenti affettive legate a motivi anche generazionali, ma è evidente che in questo film, per una di quelle “combinazioni” (non esistono combinazioni, a questo livello) che grazie a Dio si verificano solo raramente, si sono intrecciate una febbrile sensibilità per il momento storico e per l'ambiente in cui prendeva corpo con una acuta capacità intellettuale di anticipazione su motivi e conflitti che allora erano soltanto in embrione. Parlare di messa in scena di tutto ciò ha senso soltanto se non si dà a questa espressione il significato di una sovrapposizione dell'intenzione significante su una materia (documento e racconto) già di per sé carica di significazione. La scelta della luce e della definizione d'immagine, quella sì è importante da notare: «Sì, il film nuota in una luce un po' sporca, […] un grigiore lavorato, più difficile a ottenersi dell'asettico bianco e nero abituale»: è la luce di un risveglio incerto, di un mattino ancora prematuro dopo una notte in cui troppe cose sono successe perché possano avere un futuro; è la luce necessaria a dare immagine all'esperienza del dolore, da cui nessun personaggio del film rimane escluso e che, ancora oggi, sembra impregnare la memoria di quegli anni benché accompagnata da un'eccitazione che restituisce l'idea di sfida che vi era connaturata. Come è noto, le riprese si svolgevano in clima di improvvisazione per quanto riguarda la scelta delle inquadrature, angolazione, eccetera, sulla base di un rispetto pressoché integrale della sceneggiatura, che però rendeva conto soltanto dello sviluppo narrativo e dei dialoghi: anche da questo impasto tra uno sguardo non preordinato e il lavoro, precedentemente messo a punto, di precisa definizione degli avvenimenti e dei discorsi deriva il risultato straordinario che fa di La maman et la putain un film insostituibile, consegnato a un periodo e a un luogo circoscritti da dove è capace di restituire profondità e trasparenza alla complessità di una mutazione cruciale, che vi andava prendendo corpo e che ancora ci riguarda.