«Ti fanno un sacco di fotografie, vero? L'unica mia fotografia che conta davvero è quella che hanno messo sulla banconota da dieci sterline». Così, in Spencer di Pablo Larraín, dice Elisabetta II alla nuora Diana (come dire “tu che ti lamenti, non hai idea di quel che ho dovuto sopportare io negli ultimi quarant'anni”). In effetti, sarebbe sembrato strano non avere più le banconote con l'effige della Regina, se anche il Regno Unito avesse aderito all’Euro. Ma Danny Boyle – che con la stessa Elisabetta girerà il più riuscito dei Bond cinematografici, il corto per la cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi di Londra del 2012 –, l'aveva pensato otto anni prima, con la delicata, arguta fiaba Millions (del film, ne parlò Michele Marangi sul numero 444, maggio 2005, di «Cineforum», recensione che qui riproponiamo). Poi, sciaguratamente, il più cretino dei referendum ha fatto uscire il Regno Unito dall'Unione Europea (vi era entrato nel 1973, giusto giusto cinquant'anni fa). Mais c’est une autre histoire…
Non è facile provare a catalogare l’ultimo film di Boyle, poiché ogni possibile definizione sembra coglierne una parte e deluderne un’altra. Film per ragazzi a sfondo pedagogico, fantascienza dissimulata, grottesco visionario, apologo sociale, pastiche di citazioni proprie e altrui, semplice divertissement? Oltre ogni tentativo di definizione, alcuni fatti sembrano parlare chiaro. In fase di ideazione, a sentire il regista, questo è un semplice film girato per essere mostrato ai suoi figli, o comunque con quello spirito, senza troppe complicazioni e schiettamente semplicistico nel suo tentativo di essere godibile per un bambino delle elementari contemporaneo. Ecco una chiave possibile per confrontarsi con la linearità della trama, la tipizzazione estrema dei personaggi, le invenzioni visive in bilico tra illustrazione fantastica e clip di Mtv, il tono dominante sempre molto giocoso e talvolta rischiosamente zuccherino.
L’altro dato certo riguarda invece la fase della fruizione: va registrata l’accoglienza del film negli Stati Uniti – qui assunti come riferimento significativo – che è partito in sordina con sole cinque copie e dopo breve tempo è diventato un vero e proprio caso, moltiplicando spettatori e incassi e suscitando ottime accoglienze critiche, al punto da essere definito il miglior film per famiglie dell’anno. Se è vero che uno più uno fa due, i conti sembrano tornare perfettamente: un film di papà che piace alle famiglie, abbastanza classico nell’assunto e furbamente di tendenza nello stile, che mescola buoni sentimenti e fantasia, azione e ironia. Il cinema non è però matematica, anche se il conto degli incassi è sempre una voce che produttori e registi tengono in buona considerazione, e Millions si presta ad alcune riflessioni un po’ più sfaccettate.
La sua discontinuità, gli squilibri narrativi, le contaminazioni di genere, i differenti registri visivi e narrativi appaiono non tanto un limite quanto la vera essenza del film, che esprimono quello che forse è il vero marchio di questo regista, da sempre affascinato dall’idea di patchwork, sia a livello narrativo, che nelle scelte stilistiche visive e sonore. Da Piccoli omicidi tra amici a Trainspotting, da The Beach a 28 giorni dopo – e pure Una vita esagerata, forse l’opera più irrisolta – tutti i suoi film iniziano in un modo e finiscono in un altro, hanno forme scanzonatamente alla moda, ma affrontano temi mai completamente banali o autoreferenziali, invitano ad entrare in universi narrativi fortemente tipizzati secondo gli stilemi di genere, ma hanno sempre l’ambizione (o la presunzione) di far riflettere lo spettatore sulle contraddizioni della realtà in cui si è immersi, sia in riferimento a dimensioni personali ed esistenziali, sia in chiave socio-epocale. Alcuni elementi si richiamano poi di film in film: protagonisti che aspirano a vivere meglio e si ritrovano ad affrontare problemi impensati; la dialettica tra le scelte personali e la dimensione del gruppo, sia esso amicale, familiare o comunitario; un universo sociale e culturale che non è mai semplice sfondo, ma diventa simbolo delle contraddizioni di un’epoca e di un luogo, fisico e culturale; la scelta di finali volutamente ambigui, in cui l’happy end ha un retrogusto amaro, con un senso di incompiutezza e di ambiguità.
In questa prospettiva, Millions è in perfetta continuità con i precedenti film e sembra confermare la tipicità autoriale di Boyle, che predilige scarti narrativi, molteplici livelli di racconto e fruizione uniti a un mix audiovisivo di forte impatto estetico, anche se sempre a rischio di calligrafismo un po’ estetizzante. Favola contemporanea sulla ricchezza dei sentimenti e sulla purezza dello sguardo infantile, il film elegge il piccolo Damian come simbolo di una trasparenza che presto sarà perduta, come sembra dimostrare il fratello maggiore Anthony già attento a monetizzare ogni cosa, interessato all’andamento della borsa e ormai abituato a dissimulare i suoi veri sentimenti a seconda delle situazioni e delle attese che gli adulti hanno nei suoi confronti. È emblematica la scena della presentazione nella nuova classe, in cui Damian esprime schiettamente la sua passione per i santi, di fronte a un insegnante sempre più perplesso, per poi ricevere all’uscita anche i rimproveri del fratello maggiore, che per il futuro gli consiglia di parlare di calcio e automobili, come tutti i bambini “normali”, onde evitare di attirare l’attenzione e di essere considerato strano.
Ma è proprio la “stranezza” l’elemento che caratterizza maggiormente Damian in quanto bambino: i suoi giochi particolari, le sue domande schiette, le sue risposte disarmanti e, soprattutto, il suo differente sguardo sul mondo non appaiono solo elementi che caratterizzano il personaggio, ma si tramutano nelle marche stilistiche che strutturano l’intero film. In Trainspotting l’esagerazione grottesca di molte sequenze e situazioni narrative non faceva altro che tradurre un particolare paradigma di significazione della realtà, basato sulla visione del mondo dei dropout di Edimburgo che sceglievano di non scegliere, preferendo “una sana e onesta tossicodipendenza” alla deprimente routine dei “normali”, fatta di mutui ed elettrodomestici, crisi di coppia e delusioni sportive. In Millions, la weltanschauung dominante è quella di Damian, che vede colori più vivaci della norma, trasforma l’irritazione o le preoccupazioni altrui in dolcezza e serenità, non coglie la depressione del vivere vicino a una ferrovia, ma al contrario trasforma un limite in una risorsa, organizzando un rifugio di cartone in cui provare sensazioni di “sballo” fisico quando passano i treni. In sintesi, Damian è un personaggio positivo, che rielabora le proprie incertezze e paure con una immediatezza e una serenità a tutto tondo. In questa dimensione va letta la sua particolare fede, che gli permette di avere le visioni dei santi e di dialogare amabilmente con loro in diverse situazioni, traendone spesso utili insegnamenti o addirittura aiuti materiali. La fede e la coerenza dottrinale di Damian, premiate con le visioni e con una ricchezza e profondità di sguardo sconosciute agli altri personaggi, non sembrano attestare tanto un omaggio alla religione da parte di Boyle. Piuttosto, appare un significativo omaggio alla purezza e al tempo stesso alla creatività dello sguardo infantile, che rielabora continuamente il mondo conosciuto (e non) attraverso una pienezza di colori, forme, sensazioni, che gli adulti tendono a non avere più.
Senza voler necessariamente far quadrare il cerchio, forse è però ora più comprensibile il desiderio di Boyle, in quanto padre e non solo regista, di tarare il proprio sguardo su quello di un bambino, cercando di reinterpretare il mondo e non affidandosi solo alla memoria della propria infanzia, ma preferendo un riadattamento contemporaneo, secondo nuovi canoni estetici sociali e culturali. In questo senso la galleria dei santi rappresenta una perfetta ibridazione non solo tra la simbologia dell’icona religiosa e la fisicità del corpo quotidiano, ma anche tra la fantasia fanciullesca e la consapevolezza adulta. Santa Chiara che umanizza e relativizza il Paradiso mentre si accende serenamente un corposo spinello o San Pietro che ha un’aura operaia e si illumina di fronte ai ferri del mestiere, le chiavi e le serrature, esemplificano bene un registro di rappresentazione in bilico tra il divertimento e la riflessione laica, più orientata sulla capacità di meravigliarsi dei bambini che su disquisizioni di ordine teologico. In questo senso Damian sarebbe stato perfetto come comparsa in un film come Il cielo sopra Berlino, altro film laico che riservava ai bambini il potere di percepire gli angeli.
A partire dalla centralità di Damian e della sua peculiare visione del mondo, il film organizza tutti gli altri temi, ora in modo più efficace, ora più retorico. Traspare chiaramente che a Boyle interessa poco la pista del film d’azione, visto come riduce e schematizza la parte in cui il cattivo cerca di recuperare la sua valigia con i soldi. Un po’ è un peccato, perché sarebbe stato interessante verificare il grado di adattabilità ai ritmi postmoderni di un classico cult quale La morte corre sul fiume, cui già si ispirava, tanto per rimanere ai registi inglesi, Riflessi sulla pelle di Ridley. Maggiore attenzione è invece posta ai rapporti tra i personaggi della famiglia e in questo caso gli esiti sono discontinui. I personaggi adulti in particolare, il padre e la sua nuova compagna, appaiono spesso eccessivamente tipizzati e di maniera, non aiutati peraltro da una recitazione che sottolinea pose e gesti in maniera davvero eccessiva.
Funziona invece il rapporto tra Damian e il fratello maggiore Anthony, sia per la capacità di raccontarlo con pochi ed efficaci tocchi visivi – si pensi alla folgorante corsa in bicicletta che apre il film – sia nell’articolazione narrativa di un legame ora complementare ora asimmetrico. La caratterizzazione di Anthony come piccolo capitalista, pragmatico e attento al centesimo, tendenzialmente un po’ egoista e con i piedi ben piantati per terra, rende bene la sensazione che l’infanzia duri sempre meno, per cui già la svolta dei dieci anni sembra rappresentare l’anticamera verso il mondo dei grandi, decisamente più prosaico e autoreferenziale. Piccoli “new labour” crescono, sembra suggerire il film, visto che la famiglia dei protagonisti non naviga certo nell’oro e, pur non essendo proletaria in senso canonico, ben rappresenta quella fascia media, tendente al basso, di una città post industriale quale Manchester, che dovrebbe costituire l’elettorato blairiano che spera di non dovere sacrificare tutto e di ricominciare ad avere prospettive di crescita senza dimenticare alcuni valori ideali di riferimento. In questa direzione, Millions rielabora con arguzia e disincanto i paradossi dell’Inghilterra contemporanea, utilizzando il fantastico come strumento per esercitare uno sguardo che non cade nelle secche del mélo semi realista di altri recenti film britannici: dal filone sull’intercultura in stile East Is East e Sognando Beckham alle favolette operaistiche come Full Monty o Billy Elliot.
Pur senza voler essere un film sociologico né tantomeno politico, Millions si permette di fotografare le contraddizioni di un paese. La più evidente, ma forse anche quella che si rischia di non cogliere al di fuori dell’Isola, ha a che fare con il titolo stesso, in cui i milioni questa volta non sono solo quelli rubati, ma anche quelli cambiati, con gli inglesi in coda per abbandonare la sterlina per convertirsi all’euro. Ecco la vera fantascienza, sembra dire Boyle, ricordandoci che così come lo splendido isolamento monetario è a tutt’oggi la realtà oltremanica, forse anche l’insieme dei buoni sentimenti e delle speranze colorate del film funzionano solo come pura proiezione di desiderio, in una favola dei nostri tempi. È paradigmatico il lieto fine reiterato: non solo la famiglia si rinnova – la madre viene sostituita – ma si ritrova unita laddove tutto è iniziato, nella scatola di cartone in cui la sensibilità di Damian sa ora insegnare a tutti la capacità di sentire nuove “vibrazioni”. Quelle del treno, ma anche quelle della solidarietà, che proiettano dritti dritti in Africa, ad aiutare altri bambini e altre famiglie. Segnalata la meritoria sottolineatura dello sponsor umanitario che partecipa al film, per la promozione di pozzi di acqua potabile in Africa, è auspicabile che in questo epilogo Boyle non abbia del tutto perso la sua ambiguità di fondo, invitando lo spettatore a problematizzare il livello “fantastico” di un lieto fine troppo lieto.