Parola di Peter. Peter Bogdanovich, 1939-2022

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Uomo di cinema a tutto tondo, Peter Bogdanovich, che purtroppo ci ha lasciati lo scorso 6 gennaio. Autore di alcuni dei più bei saggi e interviste sul cinema classico americano (raccolti in tre imprescindibili volumi, tutti reperibili anche in Italia e tutti di rigore nella biblioteca di ogni cinefilo che si rispetti: Il cinema secondo Orson Welles, Chi ha fatto quel film? e Chi c'è in quel film?), studioso appassionato e per nulla accademico, regista dal polso sicuro, dal raro gusto per la narrazione e dalla capacità di destreggiarsi fra diversi generi (ma con una predilezione particolare per la commedia), Bogdanovich è stato intervistato da Cineforum due volte, la prima in occasione dell'uscita di Dietro la maschera (n. 245, giugno 1985), la seconda sul numero 534, maggio 2014, a cura di Stefano Guerini Rocco. Pubblichiamo qui un ampio stralcio di quest'ultima intervista.


Amo il pubblico più delle persone. Intervista a Peter Bogdanovich

Negli anni 70 era restio a definirsi un critico cinematografico, preferendo la definizione di “divulgatore”. Perché? La pensa ancora così, oggi?
– C’è un equivoco di fondo nato già all’inizio della mia carriera. Negli anni 60, date le mie abituali collaborazioni con «Esquire» e anche con il MoMA, mi sono certamente guadagnato una reputazione come critico o storico del cinema. Ma questa reputazione trascurava il mio passato teatrale: infatti ho cominciato a lavorare, prima come attore e poi come regista, nei teatri di New York. All’età di ventitre o ventiquattro anni, avevo già preso parte a più di quaranta produzioni. Per questo non ho mai gradito essere apparentato alla categoria dei critici diventati registi, come Truffaut o Susan Sontag per esempio. Io mi sono sempre sentito più un teatrante che si è trasformato in un critico o un “divulgatore”, termine in cui mi rispecchio molto, con la prospettiva eventuale di diventare regista cinematografico a mia volta. Il vero motivo per cui hanno sempre parlato di me come di un critico, è perché i miei scritti sul cinema hanno avuto un successo più vasto delle mie prove teatrali. Questo pregiudizio, che non reputo totalmente corretto, mi ha accompagnato per tutto il corso della mia carriera, finché non ho recitato nella serie tv I Soprano. E allora la gente ha iniziato a dire «Oh, è un attore».

Pensa che, oltre ai suoi scritti, anche le sue regie abbiano un valore critico?
– Non l’ho mai pensata in questo senso. Quando giro un film non penso nemmeno a quale impatto potrebbe avere sulla critica, bensì mi preoccupo della reazione del pubblico. Secondo me un regista deve fare film per se stesso e, se è fortunato, sperare che piacciano anche agli altri. Ci sono registi, specialmente tra i più contemporanei, che non si preoccupano affatto del pubblico, anzi cercano di confonderlo o infastidirlo con le loro opere. Disapprovo totalmente questo comportamento. Io amo il pubblico e l’ho sempre amato. Effettivamente, amo il pubblico più di quanto ami le persone.

In che misura ritiene che la sua attività critica abbia influito sulle sue scelte registiche?
– Questa è una buona domanda. Come ho detto, non ho mai pensato a me stesso come a un vero critico. Ho scritto molto sul cinema, ma senza mai fare davvero della critica. Ho sempre scritto interviste e recensioni positive riguardo a certi film, o certi attori e registi che ammiro. Molto probabilmente, attraverso questi scritti, ho cercato di costruire un percorso per rendere migliori i miei stessi film. Ma quando giro, non tengo mai troppo conto della critica cinematografica in generale.

Lei ha avuto modo di conoscere da vicino i più grandi Maestri del cinema hollywoodiano: Ford, Hawks, Welles, Dwan, Hitchcock sono gli esempi più lampanti. Tra i molti incontri, quale ha segnato di più la sua carriera?
– È difficile dirlo. In un certo senso, probabilmente Howard Hawks, perché, come me, ha sempre spaziato tra i più diversi generi cinematografici: ha firmato musical, commedie, detective story, revenge story. Anch’io ho provato a fare lo stesso. È un atteggiamento che preferisco all’appiattirsi sullo stesso genere, come Hitchcock ha spesso fatto nella sua carriera. A ogni modo, penso di essere stato influenzato da molti altri registi: Hitchcock, Ford, Welles, anche se in misura minore, e Renoir.

Qual era il suo rapporto con gli altri registi della New Hollywood? Si sentiva parte di quel movimento?
– Non mi sono mai sentito parte di alcun movimento. Non mi sono mai sentito davvero vicino a nessuno dei miei contemporanei, per ragioni che non so spiegare.

Nel 1976 lei ha detto che tutti i suoi film parlano dei miti americani: la morale borghese, la frontiera, l’amicizia virile, le virtù del vecchio West eccetera. In che modo? Penso in particolare a L’ultimo spettacolo, in cui questi miti vengono demoliti dalla rappresentazione che sceglie di farne.
– Si tratta di un film molto triste, che deve trasmettere il senso della fine di un’era. L’immaginario mitologico legato al West è presentato come irrimediabilmente passato, come se non esistesse più. Questo è il motivo per cui ho inserito la sequenza tratta da Il fiume rosso che mostra lo spirito d’avventura tipico della mitologia del vecchio Texas (e della vecchia America), ormai perso per sempre ad Archer City. Il film è un’elegia, nel senso che celebra un tempo ormai finito.

Che peso crede abbiano avuto i miti di allora nell’immaginario collettivo occidentale, non solo statunitense? E com’è cambiata la sua visione di quei miti dagli anni Settanta a oggi?
– Oh... è una domanda troppo intellettuale, non sono sicuro di avere una risposta.

I suoi film, specialmente quelli realizzati negli anni 70, sembrano costituire una sorta di “omaggio critico” ai miti e ai generi del cinema classico americano. Era consapevole fin dall’inizio della coerenza di questo progetto registico? Quando e perché ha scelto di interromperlo?
– In effetti non ero conscio che stessi tracciando un percorso coerente, quindi non mi sono nemmeno reso conto di averlo interrotto. Ho fatto Bersagli, il mio primo film, perché c’era Boris Karloff e perché ero attratto da un tipo di violenza moderna, inquietante perché apparentemente immotivata. Ma ho costruito l’intero film attorno all’attore principale, secondo i meccanismo dello star system: non l’ho scelto, mi è capitato. Di L’ultimo spettacolo, invece, mi interessava il romanzo da cui è tratto perché pensavo che avrei potuto farne un buon film. Sai, non sono così intellettualoide come la gente pensa: non intellettualizzo troppo quello che sto facendo, non sono un accademico, infatti non amo nemmeno insegnare. Anche per quanto riguarda Ma papà ti manda sola?, si è trattato più che altro di una sfida. Mi hanno chiesto «Se dovessi fare un film con Barbra Streisand, che tipo di film faresti?», e io ho risposto «Facciamo una screwball comedy» e così ho fatto. I titoli che rappresentano meglio il tipo di film che preferisco girare sono ... e tutti risero! e il musical Finalmente arrivò l’amore, di cui tra l’altro sta per uscire una versione totalmente diversa in Blu-ray.

La versione Director’s cut?
– Non è proprio la Director’s cut, ma mi piace chiamarla la “versione definitiva” perché è quella che si avvicina di più alla sceneggiatura originale. Alla sua uscita, molti hanno pensato che Finalmente arrivò l’amore fosse un omaggio ai musical di Fred Astaire e Ginger Rogers, ma non è mai stato una mia esplicita intenzione. Semmai sono stato influenzato da Lubitsch e dai suoi musical dei primi anni 30. In realtà, con Finalmente arrivò l’amore volevo raccontare una storia di persone assolutamente superficiali che trovavano impossibile comunicare tra loro se non cantando delle canzoni. Come quelle persone che per esprimere affetto nei confronti di qualcuno, si affidano ai biglietti d’auguri prestampati perché non sanno scrivere delle parole originali.

Pensa che, in futuro, sarà ricordato più come critico o come regista?
– Spero come regista. Penso che i miei libri sul cinema possano aver influenzato molti giovani cinefili, ma di sicuro mi auguro che i miei film vengano ricordati prima dei miei libri.

– L’ultimo spettacolo è sicuramente il suo capolavoro più celebrato e il film per cui è ricordato. Le pesa o ne è soddisfatto? È proprio il film per cui vorrebbe essere ricordato?
– Dunque, se a qualcuno piace un film che ho fatto, io ne sono assolutamente felice. Non discuto sui gusti degli spettatori. Personalmente non penso che L’ultimo spettacolo sia il mio film migliore, ma penso che sia comunque un ottimo film e non mi dispiace affatto essere ricordato per questo. Non ho nulla contro il film: gli attori sono straordinari, i dialoghi sono davvero ben scritti, le scene sono girate con stile. Penso che ... e tutti risero! e Finalmente arrivò l’amore rispecchino meglio me e la mia personalità. Tuttavia, non ho nulla da rimproverare a chi mi dice di amare un mio film... nemmeno quelli brutti.

E il suo film da riscoprire?
– Grazie al Blu-ray di prossima uscita, Finalmente arrivò l’amore potrà essere finalmente rivalutato. ... e tutti risero! ha guadagnato invece un pubblico underground da quando Quentin Tarantino l’ha inserito nella sua classifica dei migliori film di tutti i tempi, riconoscimento che comunque reputo troppo lusinghiero. Wes Anderson preferisce su tutti Saint Jack. Ci sono persone a cui piace di più Texasville, ad altre Bersagli: i miei film raccolgono un sacco di pareri contrastanti. La mia opera più popolare è stata sicuramente Ma papà ti manda sola?, probabilmente non il mio miglior lavoro, anche se ci siamo molto divertiti a farlo. Penso che molti miei film non abbiano avuto una degna distribuzione, come Rumori fuori scena, che tuttavia resta un film divertente, ben scritto e ben realizzato. Lo stesso vale per Quella cosa chiamata amore e per Hollywood Confidential. In definitiva, credo che ogni film che non è stato sostenuto da un’adeguata distribuzione meriti di essere riscoperto e rivalutato.

Sta per tornare al cinema con Tutto può accadere a Brodway, una commedia con Owen Wilson, Jennifer Aniston e Cybill Shepherd. La sceneggiatura, firmata da lei e Louise Stratten, è tratta da Squirrels to the Nuts, un progetto che cercò di girare già alla fine degli anni 90. Che cosa è cambiato da allora?
– Abbiamo cambiato solo piccoli particolari. Per esempio, quando il protagonista maschile cerca di contattare una escort, la trova su Internet e non più tra gli annunci di un giornale. Io e Louise abbiamo ideato lo script a fine anni 90 per John Ritter e Cybill, ma poi John è morto e abbiamo deciso di mettere il progetto in un cassetto. Recentemente, dopo aver deciso di affidare la parte a Owen Wilson, io e Louise abbiamo cominciato a rimettere mano allo script: adesso sta finalmente prendendo forma e dovremmo riuscire a girare tra luglio e agosto. Si tratta di una specie di screwball comedy, ma non parodistica come Ma papà ti manda sola? perché parla di sesso in maniera piuttosto esplicita.

Nel 1999 lei dichiarò: «Io amo il pubblico. Prendiamo un centinaio di persone, e, magari, prendendoli uno per uno. Non c’è nessuno che mi piaccia, ma se vengono messi tutti insieme per costituire un pubblico, ecco che diventano qualcosa d’altro». Pensa che questo concetto di pubblico inteso come collettività, insieme di persone, sia destinato a cambiare a causa dei nuovi mezzi di fruizione del cinema? Che ruolo avranno le sale cinematografiche nella fruizione dei film?
– Non sono un veggente, non posso prevedere il futuro. L’esperienza comunitaria di vedere un film insieme ad altre persone penso che rimarrà sempre e che piacerà sempre al pubblico. E fa la differenza. Quando ho creato Ma papà ti manda sola?, per esempio, non avrei potuto immaginare di farlo per un’unica persona e non per un folto pubblico. Quello che sto cercando di spiegare è che un’audience è un concetto diverso da un gruppo di singoli individui.Tra un centinaio di persone, ci può essere chi mi piace e chi no, ma se un pubblico, nel suo insieme, reagisce positivamente a qualcosa che ho creato io, non posso non amarli tutti.

Ma è sempre convinto della vocazione popolare del cinema o pensa che i nuovi mezzi di fruizione dei film cambieranno definitivamente il concetto di pubblico?
– Sono convinto che il miglior modo di vedere un film sia con un pubblico, soprattutto se si tratta di una commedia.

La sua posizione nei confronti della tv si è molto ammorbidita dagli anni 70 («È orribile. Non si può sognare in un soggiorno») agli anni 90 («Ho girato diversi film per la tv [...] è un esercizio che mi piace»). In che rapporti è con il mezzo televisivo oggi? E con il web?
– La tv è diventata molto stimolante per me con I Soprano. Negli anni 90 ho diretto alcuni film per la tv, a partire dal 1994. Sono stato fortunato perché ho avuto l’opportunità di lavorare in ottime condizioni: buoni script e attori sorprendenti, tra cui alcuni veri talenti come Sidney Poitier e Cicely Tyson. Non ho mai avuto un atteggiamento snob nei confronti della tv, anzi mi piace lavorare velocemente, preoccupandomi di girare solo il materiale essenziale. Poi la serie I Soprano, in cui ho avuto la fortuna di recitare, ha raggiunto il successo: penso che abbia davvero cambiato il modo di fare televisione, alzando la posta in gioco o, come si dice in America,“raise the bar”. Da allora sono nati diversi prodotti di assoluto valore come Breaking Bad, Downtown Abbey o The Wire.

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