Il 23 luglio scorso, Philip Seymour Hoffman avrebbe compiuto 55 anni. Caratterista di lusso, poi comprimario di classe, infine sensibile e maturo protagonista, ha sempre saputo dare ai suoi personaggi, fossero brave persone come gran figli di buonadonna, se non additittura grottesche marionette, un'umanità intrinseca, una personalità profonda e ben delineata che ne facevano degli esseri umani a tutto tondo, indipendentemente dalla durata della loro presenza sullo schermo. Il caritatevole infermiere di Magnolia, l'untuoso tirapiedi di Il grande Lebowski, il figlio cinico e degenere di Onora il padre e la madre, il sensibile lecarreiano agente d'intelligence di La spia – A Most Wanted Man, sono tutti ritratti che lasciano a bocca aperta per quanto Philip Seymour Hoffman abbia saputo incarnarne l'umanità, con un rigore recitativo più unico che raro. Di uno dei suoi vertici intepretativi, lo scrittore americano eponimo di Truman Capote – A sangue freddo, ne ha parlato Luca Malavasi su «Cineforum» n. 453, aprile 2006.
Così ho scritto il mio capolavoro
Dalla realtà alla fiction e ritorno: gira così, in una specie di loop che confonde un po’ le idee ma che è anche fonte di non poco fascino, il film d’esordio di Bennett Miller, Truman Capote – A sangue freddo. Vi si racconta infatti, con modi secchi e recitazione mimetica – alta scuola Stanislavskij premiata con l’Oscar –, la storia “vera” della composizione del capolavoro di Capote, A sangue freddo, iniziata con le ricerche sul campo nel 1959 e conclusa soltanto sei anni dopo, quando l’impiccagione dei due assassini Dick Hickock e Perry Smith, protagonisti del libro assieme alle loro quattro vittime, la famiglia Clutter, consente di mettere la parola fine. E, al tempo stesso, si racconta del tentativo dello scrittore di elaborare una nuova forma di narrazione, che mescoli in modo originale fiction e non-fiction: Capote, alla fine degli anni 50, ha dato alle stampe un reportage dalla Russia e Il duca nel suo dominio, una lunga intervista a Marlon Brando, in Giappone sul set di Sayonara (recentemente ristampata per Mondadori), ma entrambi i “generi” sembrano non soddisfarlo. Finché legge sul «New York Times» dell’assassinio dei Clutter. E l’idea del non-fiction novel, a poco a poco, prende finalmente corpo, negli stessi anni in cui Tom Wolfe scuote il mondo del giornalismo con le sue inchieste a metà tra cronaca e letteratura, e per cui si conia il termine di New Journalism.
Il film entra così nella “bottega” dello scrittore e documenta il progressivo definirsi di un nuovo approccio al racconto, in cui la letteratura funziona da specchio riflettente e forse deformante, ma in cui eventi ed esistenti, per dirla con Chatman, sono veri, prelevati con esattezza chirurgica dalla realtà, che Capote osserva, ascolta (ha una memoria infallibile per i dialoghi), fotografa (complice Richard Avedon), intervista, trascrive: l’orizzontalità del reportage incontra la verticalità della letteratura, amava ripetere a proposito del non-fiction novel, e l’autore si erge a principio di controllo e funzionamento del testo, manipolandone il racconto ma non la verità fattuale, come dimostra bene la prima delle quattro parti che compongono il libro, costruita su un sapiente montaggio alternato tra la quotidianità dei Clutter e quella degli assassini. Di qui l’affascinante circolazione tra vero e falso e realtà e racconto che caratterizza il film: che sembra applicare un’analoga strategia (non) fictional, poco invasiva nel dettaglio ma autoritaria quanto al governo generale degli eventi, per descrivere il farsi letteratura della cronaca dentro un progetto poetico in cui la prima non si sovrappone, per sublimazione o spostamento, alla seconda, ma la rimonta strategicamente per sottrarla al rumore dello scandalo e all’atonia dei fatti.
Truman Capote – A sangue freddo ha insomma la forma di un non-fiction novel al quadrato, che narra una doppia realtà, riportando in vita non il romanzo (che subito dopo la sua pubblicazione venne trasposto da Richard Brooks in un film bello e disperato) ma la sua composizione, che dalla cronaca prendeva le mosse, e documentando il confronto di Capote con la realtà, in attesa di diventare letteratura. E il film, inevitabilmente ma intelligentemente, si fa contagiare dalla tecnica di cui descrive la genesi e l’evoluzione, traendone una lezione preziosa per il genere biopic.
Guardando Capote, freddamente
Come il romanzo di cui segue la lavorazione, il film di Miller sta insomma in delicato equilibrio tra gli eventi e la loro manipolazione, accordando per esempio una decisa preferenza per la precisione del dettaglio e lo smontaggio sequenziale: quadri perfetti, descritti con cura maniacale e continuità temporale, separati da ellissi profonde o variamente alternati a eventi contemporanei. È, per l’appunto, una delle procedure privilegiate in A sangue freddo, che a certe tattiche cinematografiche – prima tra tutte il montaggio alternato, ma anche la successione di tempi “pieni” e “vuoti” – si rivolge espressamente nella ricerca di strategie sintattiche utili a liberare il potenziale semantico della cronaca. Capote, del resto, alla metà degli anni 50, ha già alle spalle un lungo elenco di esperienze di sceneggiatura, da Il tesoro dell’Africa di Huston allo zavattiniano Indiscrezioni di una moglie americana, da Colazione da Tiffany, di cui supervisiona la sceneggiatura, a Suspense, ispirato a Il giro di vite. E se è ancora tutta da indagare o precisare l’influenza del cinema – non soltanto del suo linguaggio, ma anche delle sue modalità “letterarie” – sulla letteratura di Capote così come sulla più generale tendenza che, alla fine degli anni 50, spinge altri scrittori americani (tra cui l’amico-rivale Norman Mailer) a sperimentare nuove relazioni tra verità e finzione, è indubbio che alcune specificità linguistiche del cinema, prima fra tutte la sua irriducibile attitudine a “raccontarsi da sé”, rappresentano un’eredità non secondaria nella formulazione del non-fiction novel.
Al tempo stesso, il film, aprendo sul “vero” privato di Capote all’altezza di A sangue freddo, compie un’operazione contraria a quella attuata dallo scrittore rispetto al proprio vissuto. Se Altre voci e altre stanze e L’arpa d’erba, ma parzialmente anche Colazione da Tiffany, denunciavano senza troppi giri di parole il loro radicamento autobiografico, prolungandosi idealmente nelle interviste (vissute e praticate come l’altra metà di un’autoconfessione) ma anche nelle cronache di viaggio e nei ritratti di amici e star, proprio con A sangue freddo Capote compie un passo indietro. Liquidati i “mostri” (rovinati) grazie ai due libri d’esordio e a una manciata di racconti con cui era tornato alla propria fanciullezza e giovinezza, elaborando narrativamente tutte le sue “doppiezze” (orfano con genitori, omosessuale, uomo del Sud con casa a New York), col romanzo non-fictional Capote sembra volersi ritirare rispetto alla propria biografia per lasciare spazio al suo doppio ormai più accreditato, lo scrittore “diverso” che non solo nei salotti italiani, come ricorda Arbasino, era per tutti, semplicemente, “Genius”. Ma, com’è noto, l’operazione, nella pratica, fallisce: perché Capote non è un giornalista, e a poco a poco, dalla realtà che va ricostruendo osservandola in prima persona, trascorrendo molti mesi nel paesino di Garden City e poi visitando regolarmente Dick e Perry in carcere, si fa travolgere, uscendo dall’esperienza di A sangue freddo – culminata con la partecipazione all’impiccagione degli assassini – con i nervi distrutti; e dopo quel libro non riuscirà a finirne nessun altro.
Il film guarda insomma Capote come Capote non si è guardato, almeno in quel libro; e reintroduce il vissuto faticosamente rimosso dalle pagine di A sangue freddo, cogliendo il personaggio nel difficile compito di partecipare agli eventi per poi farli diventare letteratura, separando l’uomo dallo scrittore e suggerendo la profonda crisi che il “resto” dell’esperienza biografica, questa volta non sublimata nella letteratura, o solo in piccola parte, ha lasciato in eredità al primo, cambiandolo per sempre. E lo fa alternando sapientemente il pubblico al privato: le stanze sempre un po’ claustrofobiche dei bar e dei ristoranti newyorkesi in cui lo scrittore gioca la parte dell’attrazione principale agli spazi aperti del Sud della tragedia, che rimandano a quelli dell’infanzia di Capote; l’isolamento della scrittura al coinvolgimento personale agli eventi, dalle indagini poliziesche alle conversazioni in carcere; la sobrietà che a un certo punto è costretto a sposare per vincere le resistenze degli abitanti di Garden City all’eccentricità modaiola che ne contraddistingue l’immagine nell’alta società.
Il segreto della scrittura
Ed è così che il film riesce a superare, come il romanzo di cui racconta, i limiti stretti della “fabula”: non semplicemente un film su Capote ma un piccolo, prezioso saggio sulle trasformazioni con cui la scrittura può appropriarsi della realtà nel momento in cui decide di alimentarsi del “vero” senza congelarsi nel documentaristico ma anzi coltivando il primato dell’arte (Capote considerava A sangue freddo una pietra miliare sulla strada che l’avrebbe condotto a diventare il Proust americano). In questo senso, Bennett Miller e lo sceneggiatore Dan Futterman sono stati abili a rielaborare i dati della biografia di Gerald Clarke, senza farsi sopraffare dal divo Capote, dai suoi tic, dalla sua invadenza spettacolare, dalla sua “stranezza”, privilegiando sempre lo scrittore sul personaggio, senza per questo eccedere nell’agiografia e anzi riuscendo a essere “freddi” come non riuscì fino in fondo a Capote di fronte alla tragedia dei Clutter. E del resto soltanto la scrittura e il suo perverso dominio possono spiegare fino in fondo Capote, la cui figura emerge a poco a poco – rimossi i dati di curiosità – come quella di un fedele e disperato servitore della parola, che dalla letteratura è stato salvato e nella letteratura ha cercato riscatto sociale, equilibrio passionale, misura. Seduto al tavolo di lavoro, nell’isolamento e nel silenzio e armato delle fedeli matite Blackwing, Capote riempie pagine di fogli bianchi che impila da una parte, con il rigore e l’ordine che sembrano mancare alla sua vita e alla realtà che lo circonda.
Philip Seymour Hoffman, giustamente premiato con l’Oscar dopo troppi anni di ruoli secondari e marginali, asseconda benissimo il progetto del film: entra nel personaggio con dedizione sfrenata, dando sempre la sensazione di non replicarne soltanto – e in modo impressionante – fisicità e gestualità (fino a far dimenticare le profonde differenze di stazza e statura tra i due), ma di sapere sempre che cosa gira nella testa dello scrittore, che cosa c’è nel suo passato e che cosa spera per il futuro. “Riprodotto” e non semplicemente interpretato, il Capote di Hoffman raccoglie in sé e rende evidente la complessa, tormentata psicologia dello scrittore, senza appiattirsi su un solo registro ma facendone emergere le profonde contraddizioni, l’instabilità, la doppiezza caratteriale e sentimentale, le miserie da uomo e le genialità da scrittore, l’opportunismo giustificato da una causa più grande (la letteratura) e le piccolezze del figlio del Sud che si muove senza pace nell’alta società newyorkese. E riesce così a fissare il momento esatto in cui le parole si sollevano dal documento reale per diventare scrittura, e il modo in cui gli eventi, senza chiedere permesso, si incidono sulla pelle e nella coscienza di Capote prima di diventare un insopprimibile peso da tradurre e allontanare sulla pagina. Ritratto spietato e senza consolazione, che già prevede l’abisso degli anni a venire, e che giustamente si chiude sull’impiccagione di Perry, usato e amato. In cui, per un attimo, si ha la sensazione che il cappio si stia definitivamente stringendo anche attorno al collo dello stesso Capote.