Pietro l'Oscuro in quel di Locarno

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Sessant'anni fa, nel corso dell'edizione 1964 del Festival di Locarno, veniva assegnata a Cerny Petr (L'asso di picche) di Miloš Forman la Vela d'oro (il Pardo sarebbe arrivato quattro anni dopo). Tra i film più rappresentativi della nova vlna (la “nouvelle vague” cecoslovacca – anche se in quanto a ironia e sense of humour è abbinabile, più che a quella francese, al Free Cinema britannico), Cerny Petr era l'opera prima di un regista che di lì ad altri tre film si sarebbe trasferito negli Stati Uniti, dove avrebbe continuato a distinguersi per il suo spirito sempre causticamente indipendente. Della freschezza e dell'originalità di Cerny Petr ne scrisse da Venezia (dove il film passò un mese dopo Locarno) il futuro direttore di «Cineforum» Sandro Zambetti (sul n. 38-39, ottobre-novembre 1964). Riproponiamo qui anche un profilo di Forman a cura di Paolo Vecchi per la rubrica “125 per il 2000”, uscito sul n. 396, luglio 2000.

 

«Cineforum» n. 38-39, ottobre-novembre 1964

 

Festival di Venezia

Cerny Petr (L'asso di picche)

 

Sandro Zambetti

 

[…] Per certi aspetti meno impegnativo, ma di non minor interesse e anzi superiore per compiutezza di doti stilistiche, l'altro film cecoslovacco, Cerny Petr (L'Asso di picche) di Miloš Forman. Non arriviamo a condividere gli entusiasmi di quei colleghi che sembravano portati a giudicarlo un capolavoro in assoluto o quasi, così come non riusciremmo a vedere grandissimi valori pittorici nel più grazioso acquarello. Entro i limiti di un approccio alla realtà che non pretende di andare molto oltre l'immediatezza delle impressioni, però, siamo perfettamente d'accordo nel considerarlo un film di straordinaria freschezza e di notevole originalità.

La scioltezza narrativa, libera da ogni soggezione ai moduli tradizionali, lo pone senz'altro sul piano dei più avanzati tentativi di rinnovamento del linguaggio cinematografico, a fianco di certi film francesi, svedesi e indipendenti americani. Da questi, in linea generale, lo distinguono un maggior calore di partecipazione umana e una più schietta semplicità, che lo immunizzano dai rischi dell'intellettualismo. Il che non significa che sia un film ingenuo, tutt'altro. Diremmo anzi che in Miloš Forman c'è un'astuzia di mestiere, una specie di sornioneria di fondo che gli consente di accattivarsi i gusti del pubblico nel momento stesso in cui rifiuta le più consuete regole spettacolari.

La storia è fatta di niente – un ragazzo al suo primo impiego, le difficoltà a intendersi con gli anziani genitori, gli incontri con i coetanei, la prima “cotta” –, ma è talmente ricca di osservazioni d'ambiente, di pennellate d'atmosfera e di notazioni psicologiche da fornire un vivacissimo quadro del mondo giovanile. Dove sembra nutrire maggiori ambizioni, nel contrasto fra due generazioni, il film mostra un po' la corda: le figure dei “vecchi” risentono di un certo schematismo, anche se non mancano a loro riguardo spunti gustosissimi, raccolti con sostanziale bonarietà.

Ma, fintanto che si occupa dei giovani, non perde un colpo – per dirla col gergo dei diretti interessati – stornando ritrattini deliziosi e situazioni estremamente godibili. Il tutto, però, senza esaurirsi nel puro e semplice divertimento – anche questo, va comunque notato, mantenuto su un piano di freschezza inventiva del tutto aliena da qualsiasi volgarità, cosa che induce ad amari confronti con le commedie di casa nostra – ma accompagnandosi a una costante vena di riflessione sui problemi dell'“età ingrata” e sulla loro localizzazione nel quadro di una data società. Pur senza spingersi molto a fondo in questo senso, anche Cerny Petr resta dunque come una valida testimonianza di quella più aperta problematica che fa tutt'uno con una ricerca di linguaggio che non scivoli nel formalismo. Quanto basta per riconfermare la particolare vitalità del cinema cecoslovacco in questo momento e le prospettive nuove che esso sembra aprire alla “cinematografia del disgelo”.

 

«Cineforum» n. 396, luglio 2000

 

125 per il 2000 – Miloš Forman

Vitalità di un enfant terrible

 

Paolo Vecchi

 

Nonostante una carriera onusta di gloria e Oscar, al di qua e al di là dell’Oceano, e l’impennata di Larry Flynt dopo un periodo magari non entusiasmante ma comunque più che rispettabile, il severo gruppo redazionale di questa rivista aveva deciso di lasciar fuori Miloš Forman dall’elenco degli autori che si presume possano avere qualcosa da dire nel terzo millennio. Ci voleva l’exploit di Man on the Moon per un recupero in extremis, sul quale ha certamente pesato il fatto che il regista sia diventato padre di due gemelli – chiamati ovviamente Andy per Kaufman e Jim per Carrey – durante le riprese. Come negare, infatti, il persistere della creatività e della vitalità di un artista che si riproduce alla rispettabile età di sessantotto anni? Ci sono, nel film sul trasgressivo, lunare e sfortunato comico americano, alcuni momenti in cui Forman mostra addirittura la stessa innocenza dello sguardo che ne caratterizzò gli inizi, ai tempi eroici della novà vlna. In particolare, colpisce l’attenzione riservata agli spettatori degli show di Kaufman, che fa venire in mente un aneddoto raccontato da Antonin J. Liehm nel suo datato ma per certi versi ancora fondamentale The Miloš Forman Stories. Dunque, all’Expo di Bruxelles del 1958, alla quale partecipa come coautore dello spettacolo multimediale Lanterna Magica, il futuro regista ha comperato un piccolo visore che contiene una serie di immagini di donne nude. Nel suo appartamento a Praga lo fa vedere agli amici e, mentre questi a ogni scatto fanno smorfie di accesa libidine o di curiosità impacciata, li fotografa non visto e costruisce delle vere e proprie sequenze, con effetti esilaranti. È un po’ la spia della poetica che accomuna Concurs (1963), L’asso di picche (1963) e Gli amori di una bionda (1965): una personalissima ottica fenomenologica, uno sguardo tenero e divertito, nonchalant e crudele, che, in forme libere ma rigorosamente costruite, provoca il reale con intrusioni indiscrete le quali inducono alla gaffe, al gag che non è strutturalmente tale, ma deriva la sua comicità dall’osservazione di un occhio che è dove non dovrebbe. La stessa che, pur nella sua metaforica polifonìa, caratterizza Al fuoco, pompieri! (1967), prefigurazione di quello che avrebbe potuto essere un cinema libero in un paese libero e oggi leggibile retrospettivamente come monumento funebre alla “primavera di Praga”. L’atterraggio, tutt’altro che morbido, nel Nuovo Mondo (Taking Off, 1971; Il decathlon, 1972), innesta da un lato una regressione protettiva, dall’altro si traduce nella messa in scena di mondi incomunicanti, nei quali gli uomini si agitano come insetti alla deriva, incapaci di dare un senso e una direzione al loro cieco zampettare.

Mitteleuropeo senza la ridondanza di uno Stroheim, il cinismo di un Lubitsch, la cattiveria di un Wilder o la moralità romantica di un Ophuls, Forman riesce poi a “farsi americano” occultando la propria identità in una specie di autobiografia dissimulata, che è possibile leggere in filigrana sia in Qualcuno volò sul nido del cùculo (1975) che in Hair (1979), dove discreti «Bromden-Bukowski c’est moi» si collocano al riparo delle maschere brillanti dei vari McMurphy e Berger. Padroneggiando felicemente, astutamente, la grande macchina produttiva hollywoodiana, Forman non rinuncia tuttavia a sviluppare una originale concezione dello spettacolo cinematografico. Il suo trauma del distacco, le ambizioni di caposcuola della novà vlna, sembrano sfumare dietro una levità piacevole, un’ironia sempre accattivante. Ma, sotto questa superficie levigata, l’angoscia assume la rilevanza strisciante del sintomo nevrotico.

Non è dunque casuale che il film successivo, il diseguale Ragtime (1981), sia una composita saga sulla “vecchia America” che mette in primo piano il tema dell’immigrazione, che il personaggio di Tate, alias barone von Ashkenazy, uno slavo di fede ebraica, ritagliatore di silhouettes che diventa regista e approda infine tra le braccia della Mamma, wasp medioborghese, si colori, in maniera più esplicita, di tonalità autobiografico-metaforiche. Costanti d’autore ampiamente riconoscibili, dalle “vite parallele” di due personaggi emblematici alla contrapposizione tra spontaneità giovanile sciamannata e irriflessiva e maturità esperta e amorale, si gonfiano poi nella dismisura di un grande successo, sul quale pure, come già era accaduto per il Cùculo, la critica non si esprime in modo unanime. Amadeus (1984), otto Oscar e incassi da blockbuster, rappresenta comunque il “ritorno a casa” dell’esule che ha fatto fortuna e dunque può girare nei luoghi deputati, a partire dal teatro Tyl. Lui che fu Mozart a Praga e oggi si sente forse un po’ Salieri a Hollywood, al di là di stratificazioni culturali, contaminazioni linguistiche e rinnovate ossessioni “nazionali”, realizza un film profondamente americano, sia per l’adattabilità dei personaggi messi in scena a un contesto statunitense (l’Impero come melting pot, Vienna come New York, Salisburgo come provincia middle western, Costanza come ragazza di Brooklyn che si trova improvvisamente a vivere a Manhattan, la stessa caratterizzazione un po’ punk del grande compositore), sia perché il discorso sull’establishment musicale viennese della fine del 700 sembra calzare a pennello alla Hollywood di oggi.

Quasi per inerzia, Forman rimane nel Secolo dei Lumi con Valmont (1989), schiacciato dall’altra versione cinematografica delle Liaisons dangereuses firmata da Stephen Frears l’anno prima e di conseguenza rifiutato dal pubblico, nonostante sia «un film elegante, sinuoso, persino romantico, che guadagna in grazia e finezza quel che perde in crudeltà e dissolutezza» (Morandini). L’insuccesso lo condanna a una lunga pausa, riempita da un paio di progetti rimasti nel cassetto (l’adattamento del romanzo Disclosure di Michael Crichton e uno script sul parlamentare Sickles, steso a sei mani con Norman Mailer e signora), oltre che dalla pubblicazione dell’autobiografia. Dopo un’iniziale perplessità (non gli piace il personaggio), si butta infine sulla sceneggiatura di Scott Alexander e Larry Karaszewsky offertagli da Oliver Stone, qui in veste di produttore. Quasi fosse un’opera testamentaria, in Larry Flynt (1996) sedimentano un po’ tutti i temi del cinema del suo autore. Se la celestiale musica di Mozart maschera i comportamenti di un moccioso, la volgarità e il cattivo gusto del pornografo rischiano di oscurare la sostanziale nobiltà del suo agire. Flynt, inoltre, è un martire nel senso etimologico di testimone, un anarchico campione della libertà almeno quanto lo sono, per altri versi e consapevolezza, McMurphy e Coalhouse Walker; come quest’ultimo, è un eroe kleistiano che con furore autodistruttivo si erge a giudice e boia del conformismo. Il film è anche l’ennesimo “libro delle caricature” di un compatriota di Jaroslav Hašek e fa i conti, venticinque anni dopo, con la generazione dei “figli dei fiori”, sulla cui generosa e un po’ facile utopia aveva fatto scendere il sudario funebre il pur comprensivo Hair.

Strettamente connesso all’opera che lo ha preceduto, Man on the Moon (1999) propone un’altra figura “contro”, un irregolare che, seppure con diverse modalità, è una specie di alieno rispetto al suo contesto. La sua comicità, basata sui tempi morti, le pause, il disagio esibito e ben presto condiviso dagli spettatori, fa infatti leva sulla disarticolazione dei meccanismi tradizionali di rapporto col pubblico. In questo straordinario film dell’angoscia e della tenerezza, che nel “cinema della distanza” di Forman, insieme classico e percorso da brividi e fratture, segna un punto di equilibrio tra nonchalance fenomenica e sgradevolezza del dato sociologico, Andy Kaufman è un falso tutto e un vero nulla, un elfo nichilista, un guerrigliero zen, un attore dadaista, un “Reine Tor” wagneriano la cui vocazione all’ambiguità non scende a patti neppure con la morte. Come e più ancora di Larry Flynt, funziona da miccia, da detonatore capace di provocare reazioni a catena, nella macchina televisiva e nei suoi pigri spettatori. Come già ai tempi della oggi scissa Cecoslovacchia, del rudimentale visore con le donne nude, il regista è di nuovo lì, a fotografare i moti del volto e dell’animo di ciascuno. Il campo d’osservazione si sposta dunque dall’eroe al suo pubblico, cioè a ognuno di noi. L’innocenza dello sguardo si sposa alla coscienza mediologica, il fruitore diventa oggetto imprescindibile della messa in scena. È forse in questa direzione, con questa prospettiva, che avrà qualcosa da dire, magari riservandoci più di una sorpresa, la maturità – ancora curiosa, ancora adolescenziale – dell’ex bright young man venuto a Hollywood da Praga, agitato cuore d’Europa.