In occasione dell'uscita di A proposito di niente, l'autobiografia di Woody Allen, pubblichiamo la recensione del film Zelig, che Emanuela Martini scrisse all'uscita del film, sul n. 229 di «Cineforum», novembre 1983.
«Zelig è stato più un hobby che un lavoro per me», ha detto Woody Allen. «L'ho cominciato nel 1980... Mentre ero impegnato alla lavorazione di Una commedia sexy in una notte di mezza estate e di Broadway Danny Rose, dedicavo parte della mia giornata a Zelig, nello stesso modo in cui uno finisce il proprio lavoro e poi va a casa per occuparsi del proprio hobby. Molta gente si è data da fare intorno a Zelig per tanto tempo e cosi dettagliatamente che è difficile immaginare viverne senza... Posso solo dire che se Leonard Zelig fosse stato un personaggio reale anziché frutto dell'immaginazione, sarebbe stato lusingato dall’amore e dall’attenzione che ha ricevuto durante gli scorsi due anni e mezzo».
Probabilmente, di Zelig non si dovrebbe scrivere altro. In poche frasi del suo autore/inventore sono racchiusi tutti gli elementi che danno respiro e tenerezza a questo piccolo film da 80 minuti: fantasia, tecnica, amore. Per un film così breve, un lunghissimo cast di tecnici, attori e testimoni e un elenco di canzoni in colonna sonora da fare invidia a un musical; per un film così esile, due anni e mezzo di lavoro e un dispiego di effetti ottici (discreti, sottotono, impercettibili, e proprio per questo tanto pregevoli) degni di una superproduzione. Il risultato giustifica lo sforzo e la dedizione: Zelig è uno dei soggetti più acutamente attuali degli ultimi anni, ma anche la dimostrazione, in piena età evolutiva del cinema, delle variegate potenzialità espressive dei più disparati materiali cinematografici ed è esemplare della raggiunta totale scioltezza di Allen nell’organizzazione di questi materiali. Non avrebbe potuto essere pensato e diretto da un esordiente né da un regista alle prime armi, non solo per l’indispensabile maturità nella sistematizzazione degli effetti stilistici, ma soprattutto per il coraggio che ci vuole nel dirigere un film che sembri un banale reportage.
1. Fantasia
La fantasia non è altro che la sofferenza sottile dello scrittore di trasformare il whisky di ieri notte nei capelli ramati della ragazza di dieci anni fa.(Francis Scott Fitzgerald)
Dunque, Leonard Zelig non è mai esistito.
Ma è talmente plausibile (al di là della totale implausibilità delle sue mutazioni fisiche), come personaggio corrisponde talmente allo spirito e alle angosce dei nostri tempi, da poter essere facilmente scambiato o assunto per un concreto rappresentante del nostro secolo. Leonard Zelig è tutti noi, è tutte le persone che incontriamo, disperatamente perse dietro all’impresa impossibile di essere gradite, riconosciute, accettate da quelli con cui lavorano, si imbattono e vivono. Woody Allen ha ancora una volta centrato un tasto delicatissimo: l'identità di ognuno, irriconoscibile perché ormai sganciata da qualsiasi preciso referente culturale, la ricerca di una dimensione individuale che consenta un’accettabile vita di gruppo, il costante senso di sopraffazione da parte di elementi estranei, la disponibilità che, frustrata, si trasforma in mascheratura ridicola.
Allora, Leonard Zelig è esistito, esiste, ce lo portiamo appresso, certamente è lo stesso Allen. Evidentemente, dai tempi di Sam Felix è cresciuto. Allora (ventinove anni diceva nel film, probabilmente qualcuno di più nella realtà), “eroicamente”, si travestiva da Bogart, in una parodia delle insoddisfazioni e degli equivoci indotti da referenti mitici esasperati e immutabili. Gli anni e il successo non gli hanno fatto perdere di vista le maschere successivamente indossate. Ebreo, basso e bruttino, in questo film, molto quietamente, fa i conti con l’irrazionalità che induce il diverso all'inutile impresa di amalgamarsi con l'universo dominante.
Leonard si trasforma in un brillante conversatore della generazione perduta, in un gangster aggressivo, in uno psicanalista di origine germanica, in un nazista, tirando fuori di volta in volta quella parte minima di ognuno di questi personaggi che ha in sé. Nella parte dello psicanalista, dice la dottoressa Fletcher, avrebbe ingannato chiunque non fosse del mestiere. La tenerezza, e la tragedia, nascono dall’incapacità di Zelig di dominare, servendosene, questa attitudine. Nella sua instancabile voglia di essere accettato, diventa anche un suonatore nero di jazz e un disgraziato sottoproletario cinese. È clinicamente malato perché non ha il controllo della malattia del secolo.
L'attore Allen, evidentemente, sul trasformismo la sa lunga. Anche se ha sempre interpretato ruoli tutto sommato univoci e decisamente autobiografici, nel suo stesso mestiere e nel mezzo scelto (teatrale, ma soprattutto cinematografico) è implicita un'instancabile tendenza a riprodurre sé stessi con facce sempre nuove e diversamente appropriate. Zelig dunque compendia due aspetti diversi di una parola (trasformismo, appunto) che oscilla da un'accezione morale decisamente negativa a una professionale decisamente positiva. Un malcostume sociale e una predisposizione alla genialità generano la nevrosi di un personaggio sensibile.
2. Tecnica
Non esiste contenuto etico che non possa essere riscattato dallo stile.
(Oscar Wilde)
Ovviamente l'elemento (oltre allo spunto di partenza) che conferisce a Zelig un'attualità cosi inquietante è lo stile. La tecnica del montaggio e del fotomontaggio, applicata con pignoleria perfezionista, non solo apre una nuova vecchia strada del cinema, (una strada, spesso, malamente utilizzata), ma soprattutto non consente mai a chi guarda di perdere di vista la storia occasionale e il proprio stato di spettatore cinematografico. Volendo rispolverare antichi discorsi di corrispondenza contenuto/forma, si dovrebbe riconoscere a Zelig una coerenza perfetta. Storia di un imbroglione suo malgrado, Zelig è costruito (sembra quasi fotogramma dopo fotogramma) come un gigantesco mosaico truccato: autentici spezzoni di cinegiornali e repertori d'epoca, materiali appena girati e coscienziosamente invecchiati, false testimonianze. l confini tra storia e cinema, volutamente, si rompono. C'è persino un film dell'epoca (girato oggi da Allen, naturalmente) che contribuisce, con la sua pellicola pulita e i suoi effetti tradizionali, a far apparire vita vera tutta la montatura che lo circonda. Le fotografie truccate e il parere “scientifico” di qualche divertito istrione della cultura americana contemporanea completano l'effetto verosimiglianza (peraltro, costantemente contraddetto dal registro verbale, che è, allenianamente, surreale, inverosimile, eccessivo). Ma, al cinema, la vista può più dell'udito, sul quale tra l'altro domina incontrastata la voce dello speaker.
Fin dai primi minuti, il film richiama alla memoria dello spettatore qualcosa, qualcosa di diverso, ma di andamento o di intenzioni sostanzialmente simili. Poi ci se ne accorge: l'indagine, le tracce, la ricostruzione del personaggio, l'effetto mosaico. Siamo alla ricerca di un piccolo cittadino Kane, o forse all’esplicita decodifica di un Kane dei poveri. Verso la metà del film, lo stesso Allen palesa il suo modello, riproponendoci Zelig e Eudora Fletcher montati nei filmini delle celebrità del castello Hearst (autentici). Ma anche prima di arrivare a questo momento l'aria che si respirava era decisamente wellesiana, a metà tra Kane (quanto a percorso cinematografico) e mister Arkadin (quanto a trasformismo del personaggio). Sembra un po' una contraddizione in termini: gli imponenti mostri di Orson Welles e i complessi del piccolo Allen. In realtà, c'è solo da stupirsi che Woody Allen sia arrivato a Welles soltanto adesso. La sua sensibilità, modellata sui cari Bergman e Fellini e sulle sottili nevrosi anni ’70, è certamente distante da quella eccessiva e dolorosa di Welles; ma le dinamiche narrative, il discorso abbozzato sulla figura dell’autore cinematografico e sulle apparenze ingannevoli del mezzo non sono poi così diversi. Viene in mente che
Allen, nella sua costante ricerca della pulizia dell'immagine, nel costante puntiglio a non strafare hollywoodianamente, abbia esitato, davanti a Welles, per paura, paura di un regista che si è sempre buttato a capofitto negli eccessi e nelle invenzioni visive più ardite. La maturità e la progressiva acquisizione di sicurezza consentono finalmente a Woody Allen di accostarsi all'anima nera di tutti i registi americani che si propongono come “autori”; e questo film, che è un omaggio alle infinite potenzialità del cinema, è anche un omaggio a Orson Welles (passando, rapidamente, per Chaplin, Groucho e altri).
Naturalmente, avendo citato la tecnica, non ci si può limitare alla struttura del racconto. La quale, tra l'altro, non avrebbe tanta forza e originalità se non fosse supportata dal lavoro straordinario di Gordon Willis. A ogni articolo su Allen, si cita Willis, la sua cura del l'immagine, l'efficacia del suo bianco e nero, il rigore dell'impostazione fotografica. Questa volta, va bene al di là della perfezione stilistica; è un vero genio del trucco. Illusionista tra gli illusionisti, contribuisce in percentuale altissima all'efficacia sostanziale del film, con la patina vecchia che riesce a conferire al materiale girato e con l'assoluta impercettibilità dei fotomontaggi. In seconda battuta, Dick Hyman, arrangiatore di musiche d'epoca e compositore di canzoni nuove che sembrano vecchie, con un'eleganza e una grazia che non hanno nulla da spartire con il kitsch.
3. Amore
In tutti i personaggi che ho interpretato c'era sempre un po' di me stesso. Non posso non amare i peggiori grossi barbagianni che mi guardano dallo schermo con la mia faccia.
(Orson Welles).
Naturalmente, tutto questo virtuosismo tecnico riconduce ai due anni e mezzo di lavoro amorevolmente accudito part-time, all'investimento affettivo che tutti hanno messo in Zelig. Gran parte del suo fascino risiede proprio nella vaga aria artigianale, amatoriale (nell'accezione inglese del termine, molto più complessa e lusinghiera della nostra), che vi si respira. Nonostante la professionalità ineccepibile, sembra un po' un film fatto tra amici e a pochi amici/complici destinato. A quelli che si identificano istantaneamente con Leonard Zelig; che apprezzano la recitazione in sottotono di Woody Allen e i lieti fini improbabili, pudicamente nascosti oltre gli angoli; e che soprattutto (ormai un po' rétro) amano dissolvere la propria realtà in quella di una sala cinematografica. È tornato Sam Felix.