Tambores en Venecia

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«In parecchi villaggi dell'Aragona esiste una consuetudine forse unica al modo, quella dei tamburi del Venerdì santo. I tamburi di Calanda battono in continuazione, o quasi, dal mezzogiorno del Venerdì santo fino al giorno dopo, alla stessa ora. Fenomeno straordinario, potente, cosmico, riguardante il nostro inconscio collettivo, i tamburi fanno tremare la terra sotto i piedi». Luis Buñuel, ateo per grazia divina, così ricordava nelle sue memorie una tradizione tipica del suo paese natale, i tambores la cui sonorità catartica e ancestrale utilizzò spesso nelle colonne sonore dei suoi film, da L'âge d'or a Nazarín, da El a Simón del desierto e Tristana. Quando morì nel 1984, una delegazione di tambores si recò al Festival di Venezia, per omaggiarne la memoria. Di Simón del desierto, premiato a Venezia con il Leone d'argento nel 1965, ne scrisse Jos Burnevich su «Cineforum» n. 51, gennaio 1966, con un articolo che qui riproponiamo. Vade retro? Vade ultra!

 

 

«Cineforum» n. 51, gennaio 1966

 

Simón del desierto

 

Jos Burnevich

 

A prima vista le opere cinematografiche di Buñuel sconcertano, tanto sembrano diverse e disuguali. Un insieme di lavori modesti dai quali emergono, talvolta folgoranti, talvolta insidiosi, dei capolavori, che avvincono ed inquietano. Spesso la critica si esalta o si scandalizza dei temi trattati nei film di Buñuel per ragioni puramente esteriori: nel tentativo di accettare o di respingere il “pensatore”, essa finisce per dimenticare l'artista. Questo atteggiamento è tanto più evidente perchè Buñuel, e i suoi critici più irriducibili, appartengono a paesi dove la religione suscita d'istinto degli atteggiamenti assolutisti, troppo spesso settari, che non possiamo trattare in queste brevi righe.

Se gran parte degli appassionati di cinema aspettano sempre Buñuel con impaziente curiosità, troppi altri l'aspettano al varco come un cavallo da battaglia da montare senza riguardo. Così è sempre stato, ma specialmente dopo Viridiana, opera superba e mal compresa che seguiva all'attenzione suscitata da Nazarin, di cui atei e cristiani avevano cercato di impadronirsi con una ingenuità spesso sconcertante. Se è evidente che tali opere possono scandalizzare e turbare il grosso pubblico così mal preparato dai tecnici del professionismo – e questo spiega molte reticenze da parte di coloro che si sentono responsabili della sua salute morale – ciò non toglie che molti critici dovrebbero mostrare più saggezza. Cercare prima di tutto di rispettare per meglio comprendere, prima di giudicare e di prendere posizione.

Una visione attenta dell'opera, la più completa possibile, di questo affascinante cineasta, la cui irregolarità artistica trova spiegazione in molte circostanze esterne: come il bisogno di creare e la necessità di guadagnarsi, talvolta duramente, il pane quotidiano, aiuta a comprendere il perché di molte costanti. Da Un chien andalou a Simón del desierto si sprigiona il suo profondo bisogno di esprimersi attraverso le immagini. E questa sua forza espressiva si ritrova, anche nelle opere minori, quelle fatte per vivere, fondamentalmente fedele a quello che si suole chiamare surrealismo. In Buñuel questo surrealismo è autentico; sfugge alla gratuità e al manierismo, e solo raramente cerca di sbalordire. È la visione personalissima della realtà, di una realtà che sfugge alla logica razionale e rigorosa e che, sempre, dà l'impressione inquietante, nello stesso tempo appassionante, di essere stata vissuta intensamente, e non solo pensata, prima d'essere stata captata dalla macchina da presa e proiettata in giochi d'ombre e di luce. L'immagine chiama l'immagine, la forma chiama la forma, ma il legame che esiste fra loro appartiene a una logica implacabile, non spiegabile a parole, violentemente impostata nel gioco visivo.

Quando a proposito di Buñuel si parla di idee, si cade spesso nella confusione, mentre nulla è più chiaro delle sue immagini. Simón del desierto, nell'espressione visiva, è un meraviglioso passo avanti, (come lo è Gertrud nell'opera di Dreyer). Prima delle cose, prima degli uomini, c'è la luce. Questa luce implacabile, calcinata, che rivela violentemente le forme. Non dissolve i contorni, ma li accentua. Simone sulla sua colonna acquista una verità di presenza talvolta insopportabile. I monaci che lo circondano diventano pesanti, il demonio tentatore, sotto le sembianze femminili di donne allettanti, ne è avviluppato senza essere illuminato e acquista una curiosa volgarità. Tutte queste forme sono incongruenti, irreali, ritagliate come delle statue in una scenografia di colonne e di deserto. Esse potrebbero facilmente cadere in una continua ridicola caricatura, ma la visione e l'istinto espressivo del cineasta le mantengono in equilibrio. E la stessa impressione d'irrealtà che inquieta e obbliga a guardare, si trasforma in una sensazione di realtà tanto più intensa. Gli stessi suoni, le voci, la canzone della ragazzina, partecipano a questo isolamento. Invece di perdersi nel vuoto risonante della scenografia, vi acquistano una strana autonomia che raggiunge il diapason della bellezza delle forme. Ma i suoni e le forme sono fusi fra loro e con la scenografia all'intreccio, per l'implacabile rigore del sognatore.

L'immagine visiva e sonora è di prima grandezza. L'artista è di primo piano. Non ci sbagliamo. Qualsiasi cosa dica o faccia, questo artista è sempre completo. E non è soltanto un esteta. Egli si è fatto dalle sue origini, dalla sua vita difficile, spesso sradicata dagli eventi. Ed è tutto questo che egli esprime e rivela in un'arte che va più lontano del suo pensiero, ma che porta in sé questo pensiero che si è formato attraverso tante vicissitudini.

A rischio di troppo semplificare – il lettore può apportare qui le sue cognizioni e soprattutto i suggerimenti della sua esperienza –, diremo che Buñuel nutre la sua visione artistica di realtà che si oppongono in una violenta antitesi: una realtà cristiana, e un mondo senza Dio. In seno alla sua stessa personalissima visione, e perciò limitata, del cristianesimo, emerge un primo dissidio: la purezza del Vangelo, e la contaminazione di un cristianesimo troppo influenzato dai compromessi del mondo. Al centro della sua visione così personale del mondo, nasce a sua volta l'orrore per il vuoto e l'impossibilità di non restare affascinato fin nelle profondità del suo essere dalle sue promesse, che egli sa essere fallaci.

Così nella visione di Buñuel si fronteggiano anzitutto, frutto di una esperienza necessariamente limitata nel tempo e nello spazio – due amare delusioni: un cristianesimo impossibile in questo mondo e un mondo di natura irrimediabilmente tarata. Nazarín, Viridiana, El, Simón, solo per citare le opere più decisive sotto questo aspetto, ne sono profondamente segnate. In esse appare chiaramente la fusione totale tra l'espressione surrealista e il contenuto: ambiguità inquietante della forma, continuamente sul punto dì cadere nell'irreale o in un realismo insostenibile; ambiguità del concetto della vita, del mondo, sempre vacillante sul muro che Buñuel crede di poter costruire tra la “carne” e lo “spirito”. Ma questa disillusione, come sua espressione artistica, è presente anche negli altri film. La jeune fille è sorella di Viridiana: una impossibile innocenza la cui ingenuità diventa tentazione e l'innocenza un invito inconsciamente complice della colpa. La bimba violentata del Journal d'une femme de chambre apre la stessa piaga. E i simboli, così detti freudiani, ne cospargono tutta l'opera, prorompendo improvvisamente in piani crudeli come funghi malefici sul terreno fresco.

In Simón del desierto si affina l'unione tra la forma e il contenuto. Scenografia naturale, nudità di forme, riduzione degli aspetti barocchi e curiosi a ascetiche proporzioni. Simone è il torturato. Tanto più impressionante in quanto Buñuel, pure evitando il racconto esatto, afferma la storicità del fenomeno religioso degli stiliti. La sua colonna dovrebbe essere un trampolino verso il cielo, la sua figura emaciata sale, dritta dritta. La sua preghiera, il suo sguardo sono rivolti al cielo abbagliante di purezza. Ma il suo corpo pesa: è sporco, e ha ferite disgustanti. Vi è sua madre, richiamo della sua carne, che, muta, lo veglia da lontano e, con una mano avvizzita, nasconde nella sabbia i suoi poveri escrementi. I monaci suoi fratelli sono lì, lo spiano, estasiati davanti alla sua prodezza o scandalizzati da questa provocazione alla loro mediocrità. Sotto di lui brulicano gli uomini, deformi, poveri, schiamazzanti. Vi è un ladro al quale egli ridà le mani tagliate e che subito le adopera per picchiare il suo piccolo accompagnatore; miracolo che diventa segno di amara contraddizione.

C'è anche Satana che cerca dì trattenerlo. Ma Simone, l'atleta di Dio, conosce il maligno, ed è armato contro di lui. Egli vincerà la triplice tentazione: la ragazzina ingenua, impossibile purezza che lo intenerisce per la sua innocenza e che si trasforma improvvisamente in una giovane donna dal fascino opulento, e che a sua volta egli, con una parola, trasformerà in una vecchia schifosa la quale, completamente nuda, fuggirà nel deserto gridando che ritornerà. Il Buon Pastore quale crudele accostamento della sensualità di tante immagini devote fa piegare le ginocchia al santo sfinito. Ma ben presto verrà smascherato il tentatore che, con una barba falsa e sotto un falso aspetto nasconde la stessa donna, lo stesso Satana. Così pure sarà smascherata la morta, giovane donna chiusa in una bara, che al principio attira Simone con la meditazione austera sulla morte, e che poi ancora una volta si rivela l'eterna tentatrice, sotto le vesti dell'eterno tentatore. E infine Simone vincerà anche la prova più insidiosa provocata dalle accuse infamanti di un monaco invasato da Satana.

Ma ormai la formula sacra «Indietro Satana» ha perduto la sua forza. Il demonio non retrocede più. Egli ha dimostrato di conoscere il nemico di sempre, Dio, e ne ha confessato la sua divina potenza. E forte di questa confessione mette a sua volta Simone di fronte all'altra realtà ineluttabile: il mondo. Il pesante quadrimotore che, improvvisamente, sorvola il deserto, porterà questa coppia di lottatori nella vita notturna di New York. Un Simone con la barba accurata, in abito elegante, affiancato da un Satana dalle forme femminili piene di fascino, malgrado il suo desiderio di ritornare dov'era, sarà obbligato ad affrontare la realtà: l'orgia sta per iniziare, il sabbat della danza notturna.

Nazarín cammina, cammina nel crollo del suo tentativo di cristianesimo puro in un mondo laido e dannato. Viridiana brucia la corona di spine e viene ad aggiungersi al triste gioco delle carte e dei corpi della casa dove è morto il suo goffo sogno. Anche Simón non può più ritornare al sogno. Deve fronteggiare la realtà. Ma ciò che colpisce nella creazione visiva di Buñuel, è la sua profonda simpatia, talvolta canzonatoria, dura forse, per quegli ingenui che credono di potersi sottrarre, in nome di una purezza umanamente impossibile, alla triste realtà: quella di un cristianesimo avvilito e compromesso come Buñuel ritiene di ben conoscere, e come effettivamente si può talvolta incontrare, e quella di un mondo gravato da tanta tristezza e da tanta attrattiva per il male, per la carne. Buñuel è un puritano, incapace di continuare a cercare il punto di fusione tra questa carne e questo spirito, che egli separa fino a farne due irriducibili avversari.

Non si deve dimenticare che egli è un artista e non un pensatore. Il suo pensiero è parziale, incompleto, preda di facili paradossi, legato a preconcetti ricoperti di una vernice d'indifferenza che si manifesta continuamente. Ma la sua opera rimane, Simón del desierto è la testimonianza di un'arte maturata al servizio di uno spirito tormentato, potentemente sognatore. E questo tormento che talvolta si manifesta in profonda tenerezza, in protesta violenta, in provocazione brutale quasi fino a sembrare blasfema, non è senza nobiltà. Sembra sempre più il risultato derivante dall'impotenza dolorosa di vincere lo sfasamento tra un mondo fangoso dove si impantanano tutti gli sforzi di purezza – il sudiciume che li distrugge è a sua volta voluttà che li attira cosicchè le vittime ne diventano impotenti complici – e un cristianesimo che, se osa tendere la mano a tale mondo, finisce per corrompersi o, se vuole restare puro, si eleva troppo per poterlo purificare e salvare.