Mentre è in corso la rassegna di Cineforum Ricomincio da cinque, approfittiamo della presenza fra i film in programma di Andrej Tarkovskij. Il cinema come preghiera di Andrej A. Tarkovskij per tornare sul cinema del padre. Come sempre siamo andati nell’archivio della rivista e abbiamo fatto una selezione di articoli (clicca sul numero della rivista o sul titolo del film per accedere all'area Cinebuy della rivista).
ANDREJ TARKOVSKIJ: PROTAGONISTA DI UN’EPOCA
Più di ogni altro regista sovietico Andrej A. Tarkovskij coinvolge palesemente la propria esperienza personale, il proprio dibattito interiore, le proprie mete ideali, nelle vicende delle sue opere: i suoi personaggi sono alla ricerca di sé stessi, di una ragione della loro esistenza. Attraverso le loro vicissitudini Tarkovskij esprime il proprio travaglio interiore, interroga se stesso, muove ad una più profonda, certa, ma pur sempre precaria, conoscenza di sé, si adopera a far luce sul proprio passato, sulla propria posizione presente e sulle eventualità future: come magmaticamente, ma con ordinata elencazione, testimonia Lo specchio (1974), il suo «opus», la sua «summa». I protagonisti di L'infanzia di lvan (1962), di Andrej Rublev (1966), di Solaris (1972), di Stalker (1979), di Nostalghia (1983) son personaggi calati in precise vicende, vivono determinate realtà e talora si pongono domande al loro proposito; nel mentre, l'autore scandaglia fra i ricordi della propria fanciullezza trascorsa in un'epoca sconvolgente, registra i danni di un evento bellico forse evitabile, riflette sul ruolo dell'intellettuale nell'ambito della società, sul suo mandato, sui suoi rapporti col potere; intreccia, inoltre, considerazioni intorno alla «violenza» degli uomini, nei confronti di quanto loro è ignoto, con i ricordi dei suoi rapporti di fanciullo con la madre, conferendo una singolare importanza alla figura paterna. Egli poi si pone al centro di Lo specchio, poderosa, intrigata ed intrigante confessione di una individualità tormentata, che non intende estraniarsi dal proprio mondo, dalla propria storia, dal retaggio storico e culturale del suo paese, una individualità, comunque, tesa spasmodicamente a scoprire quel «quid» capace di dare significato, spiegazione, consistenza all'avventura di ogni uomo. Intransigente testimone e sofferto protagonista di un'epoca inclemente, dominata dalla ragione di stato e dalla costrizione ideologica, combattuto fra le istanze della sua personalità ed i condizionamenti della società, Tarkovskij procede nella sua attività difficile, contrastata, resa ancor più dura dalla sua tendenza a certe preziosità, all’espressione, il più puntuale possibile, dei momenti, delle pieghe del suo travaglio personale. E in questa ansia di esprimersi compiutamente egli non dimentica di essere russo.
Achille Frezzato, Cineforum 265
Il film è ricco di numerose scene di violenza perché ogni pagina della storia russa precedente alla centralizzazione gronda letteralmente di sangue, ma anche perché le sofferenze di Roublev non si limitano al solo piano morale, ma riflettono sul suo spirito le prove subite. La ferocia dei tartari è meccanica, ha cadenze quotidiane. Gli oppressori appaiono belli e giocosi mentre i russi miseri e depressi. La loro bellezza, in effetti, intende fornire un'idea esatta del gioco tartaro, della loro sicurezza arrogante, della loro fiducia nella supremazia. l conventi hanno leggi impietose, i monaci sono burocrati che alfa legge della Bibbia sostituiscono la sua copiatura amanuense. l signorotti sono parsimoniosi mecenati, ma anzitutto tiranni pronti a vendersi al nemico che gli garantisce il trono. Il potere è intollerante, punisce il buffone irriguardoso verso l'autorità dei boiardi, impone la sua legge all'arte, acceca i pittori, perseguita le sette pagane che esaltano la gioia e la bellezza del corpo. Tarkovskij ha cercato, giustapponendo i vari capitoli, di affondare la storia di Andrei nell'atmosfera del tempo, di annegare la passione di un artista nel dramma di una terra, correlando l'una all'altro, e avendo di mira soprattutto la sintesi. Allo stesso tempo, tuttavia, la rigida ripartizione in blocchi della materia narrativa, isola i singoli quadri, come tessere in un mosaico, consentendogli di trovare un referente anche al di dell'affresco in cui sono ordinati. Le singole denunce diventano così particelle di una metafora le cui lunghe risonanze hanno turbato la serenità dei burocrati del Cremlino. In questa chiave anche il pittore Andrei, spontaneamente negatosi all'esercizio artistico, può assumere le vesti di protomartire tra quegli scrittori, scienziati o matematici ai quali nel XX secolo, e non solo in Urss, il potere ha tolto la parola.
Giorgio Rinaldi, Cineforum 151
Più che un viaggio nel cosmo, il film è un viaggio nell'inconscio, una esplorazione nella coscienza dell'uomo. Secondo l'invenzione di Stanislaw Lem, l'autore polacco del romanzo da cui il film è tratto, l'oceano di Solaris è una sostanza pensante che rimanda agli ospiti del satellite dei segnali in forma di figure che sembrano umane e che tendono a diventarlo, anche se partecipano sempre di una loro composizione extra-terrestre. Questa ambiguità dei simulacri, indistruttibili perché pensati, i quali offrono in proprio e tendono all'autonomia vitale, è una delle cose migliori del film. In una bellissima scena in cui si dovrebbe festeggiare il compleanno di uno degli scienziati, la creatura sorta dalla coscienza di Kris urla la sua sofferenza di donna vera, nata da una reazione psicochimica, puà darsi, ma ormai viva, capace di sentimenti e di angosce. Non riesce a morire, ma quando la sua carne si strazia (per aver sfondato, la porta metallica, per aver ingerito ossigeno liquido) il suo dolore fisico è atroce, e la cinepresa si ferma lungamente a descriverei la sua sofferenza. Si è rimproverato da qualche parte a Tarkowskij di aver tradito lo spirito del romanzo di Lem, dove tra Solaris e gli astronauti esisteva un rapporto di mutua scoperta; a parte il fatto che, quando dall'oceano di Solaris emergono delle isole, a Kris che chiede: «AIIora ci ha capito?» Snaut risponde: «Forse no, ma se non altro possiamo sperareı, il regista sovietico a mio parere ha legittimamente preso dalla pagina ciò che lo ha interessato di più, firmando un discorso non tanto di fantascienza scientifica (il dialogo con gli altri mondi) quanto un discorso umanistico.
Ermanno Comuzio, Cineforum 146
In Lo specchio Tarkovskij indaga su sé stesso e sulla realtà, ma alla fine nè conquista se stesso né si pone dialetticamente di fronte alla realtà: sconcertato dal presente, timoroso del futuro, si rifugia nel passato, crede con trasporto nella tradizione familiare, nel calore della casa, lasciandosi invadere dalla nostalgia cechoviana di un tempo perduto. […] Il film è Il frutto del quotidiano confronto con una realtà ed una condizione umana atte a stimolare una presa di coscienza, critica e poetica, nuova: Tarkovskij vi narra la propria vita consegnandosi liberamente ad un processo di associazioni e di analogie governate da scelte del tutto soggettive. Vi coesistono alcuni nuclei tematici: quello che riguarda lui stesso ed è riconducibile ai suoi rapporti con la madre, con la moglie, con il figlio, con il padre (quasi assente come presenza drammatica, egli l'incalza a tal punto che il regista ha trasferito in immagini alcune sue visioni poetiche ed ha accompagnato alcuni momenti del film con le sue poesie); quello che spazia nell'immaginazione del protagonista-autore e Include incubi e sogni dell'infanzia; quello composto da brani di repertorio che, pur scelti nel rispetto dell'Immaginazione del protagonista nel diversi momenti dell'esistenza, situano un materiale tanto soggettivamente biografico In un preciso contesto storico, In una definita area culturale.
Achille Frezzato, Cineforum 193
Il racconto Picnic sul ciglio della strada venne pubblicato nel 1972, a Leningrado, sulla rivista Auroran. Di quest'opera dei fratelli Boris e Arkadij Strugatzkij, Tarkovskij ha trasferito ben poco nella vicenda di Stalker, eliminando anche il contesto sociale e politico, la chiara localizzazione geografica del testo letterario (l'America vi fa da sfondo agli eventi), ma mantenendo, in alcune sequenze, nelle loro immagini, lo scetticismo degli scrittori al riguardo del progresso scientifico e tecnologico, il loro pessimismo nei confronti del futuro del mondo, dell'umanità: la scienza e la tecnologia elaborano folli disegni, distruggono le risorse della Terra, la riducono ad un deserto, la trasformano in una contrada tetra, in rovina, ammorbata dai vapori di organismi in decomposizione e percorsa dalle esalazioni tossiche di acque stagnanti. Tarkovskij riprende, in campi lunghi, paesaggi (boschi e campi, morbidi pendii collinari, quiete vallate) riposanti nelle loro gradazioni di verde, ma, quando li perlustra più da vicino vi scopre la desolazione: egli muove alcune volte la camera su dei corsi d'acqua il letto dei quali appare in parte formato da un pavimento a piastrelle su cui giacciono delle siringhe, un bollitore, un calendario o su cui si trovano delle bende, dei frammenti di uno specchio, del muschio o su cui fluttuano o stanno immoti, in un liquido bruno, fangoso, con tracce d'olio, delle monete, dei pezzi bruciacchiati di un giornale, un mitra, dei tubi di metallo arrugginiti, dei cocci di bottiglia, una siringa rotta, iridescenti bolle prodotte da sostanze in putrefazione: “ogni sorta di detriti di un recente passato e di un deprecabile futuro”. Tarkovskij racconta del ritorno a casa dello stalker con la moglie e la figlia dopo aver lasciato lo scrittore e lo scienziato: i tre camminano vicino alla riva di un fiume dalle acque dense; sull'altra sponda sorge un gigantesco complesso industriale, forse un centrà1e energetica. Le vicinanze sono inquinate; la vegetazione annerita. Questi brani, queste sequenze, queste immagini trasmettono il pensiero di Tarkovskij circa il futuro dell'uomo apprestato da un'era di sfrenato progresso tecnologico e scientifico. Esse inoltre sono un'ulteriore testimonianza delle capacità compositive e narrative dell'autore, della sua versatilità nel creare un clima impiegando figurazioni inconsuete e coniugandole in un procedimento del tutto personale, talvolta inatteso.
Achille Frezzato, Cineforum 203
Nostalghia è una sfida o uno specchio di una situazione su cui, di solito, si preferisce sorvolare e che invece possiede radici effettive di malessere nella realtà. Una condizione di morte generale in cui è difficile rintracciare elementi sostanziali di rinascita o fattori credibili di rigenerazione. Nostalghia è la ricerca di uno stato zero, o nullo, da cui traspira l'impossibilità di vivere, o l'ingiustizia di risorgere se non mutano i contesti sociali. Nostalghia è una speranza al rovescio; descrive un limite oltre il quale non è possibile an- dare se non invocando un rinnovamento di ideali. Anche se, temporaneamente, come richiede Domenico, sono soltanto valori del passato, secondo i criteri di una strana matematica per cui 1 + 1 = 1. Una goccia più una goccia, fa una goccia più grande. L'unità, dunque, contro la scissione. Un punto di ritrovamento o di ravvedimento. Nostalghia, infatti, è un film fatto dalla luce che manca all'inizio, nella campagna toscana; e che esplode dopo, fin eccessivamente, a Roma. Traduzione, in qualche modo, dell'angoscia di non riuscire ad evadere da una propria trappola pur intimamente desiderando libertà e felicità. Dopo la morte, infatti, potrebbe anche accadere la resurrezione. Nostalghia è la premessa necessaria ed inderogabile a questa rinascita. Un altro mondo dopo questo mondo.
Carlo Scarrone, Cineforum 226
Sacrificio è una simbolica di precisione del contesto, dell'esterno, un sontuoso allestimento metaforico in cui il contemporaneo è sottratto alla dispersione, all'opacità infinitesimale del quotidiano, concentrato in formazioni percettive prive di fuga o riscatto. Eppure è forse il suo film più narrativo, più esplicito, più vulnerabile per l'immediatezza della comunicazione dei suoi significati. Era forse dai tempi di Andrei Rublev che Tarkovskij non ammetteva sulla scena psicologie ordinarie, la scansione di un vero intreccio – per quanto fantastico, sovrannaturale – senza lacune di indecidibilità metafisica e con i tratti compiuti di una fabula. Stalker e Solaris, pur ascrivibili a una collocazione fantascientifica, per quanto problematica, terminavano in visioni enigmatiche. Nostaghia, in una allegoria figurativa assolutamente simbolica. In Sacrificio invece tutto è assai più chiaro. I ralenti in bianco e nero sono premonizioni della catastrofe, il sogno una profezia del sacrificio e la sua attuazione, il risveglio la testimonianza del suo esito. Forse non ci sono momenti di più immediato naturalismo nel cinema di Tarkovskij, come quelli del monologo del protagonista, fragile, scomposto, disperato. E le sue reazioni di fronte al realizzarsi della sua invocazione, sono di plausibile incredulità, incertezza, disorientamento. Alexander non crede più di quanto possa credervi lo spettatore alla possibilità reale del sacrificio, fino all'ultimo.
Mario Sesti, Cineforum 265