Cinquant'anni fa (il 13 novembre 1974, per la precisione) ci lasciava Vittorio De Sica. Attore di grande finezza e talento, oltre che elegantemente ironico, divenne poi regista sensibilissimo quanto acuto e innovativo, con delle idee molto precise sul cinema (e sul suo rapporto con gi altri media: una volta affermò, non senza ragione, che «la televisione è l'unico tipo di sonnifero che si somministra attraverso gli occhi»). I bambini ci guardano, sua quinta regia, è considerato assieme a Ossessione di Luchino Visconti e Quattro passi fra le nuvole di Alessandro Blasetti, il film “proto-neorealista” per eccellenza. «Cineforum» ne parlò sul n. 355, giugno 1996, con un Flashback di Massimo Causo, che qui riproponiamo. Poi, De Sica continuò con Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, Umberto D., ma c'est une autre histoire. Anzi, c'est l'histoire du cinéma.
Per una volta, partiamo dalla fine. Accade che un bambino ci lascia: ci volta le spalle e se ne va, da solo. E in lacrime. C'è una volontà in atto sullo schermo, una determinazione che agisce sul grado zero di un melodramma negato. Negato, il melodramma, perché in realtà la colpa non frequenta i fotogrammi di questo film, non appartiene neanche alla pur “colpevole” mamma, che il bambino si sta lasciando dietro; e la ragione di ciò ce la spiega, appunto, il titolo del film: I bambini ci guardano. Che non è tanto da intendersi come un monito, una implicita esortazione alla rettitudine di fronte allo sguardo degli innocenti, ma come una dichiarazione stilistica, l'esplicitazione di una scelta narrativa (anche se non certo enunciativa) che pone gli eventi raccontati nell'ottica del piccolo Pricò. Il quale, in quanto piccolo, non riconosce la colpa, ma ne conosce gli effetti; dunque non giudica in base a valori morali, ma guarda, osserva e considera gli effetti che sulla (sua) realtà hanno le azioni, e ne trae reattivamente le conseguenze.
Non è una lezione di realismo, questa, perché una simile prospettiva si basa su una soggettività assoluta. Ma è senz'altro una lezione di Neorealismo. Perché descrive un ambito d'azione in cui il giudizio sulla realtà coincide dinamicamente con un'osservazione scevra di impronte di valore, ma allo stesso tempo dà ragione della piega morale (e non moralistica) che implicitamente appartiene allo sguardo neorealista. Il quale, posto di fronte alla realtà, ne trae reattivamente le coordinate di giudizio, osservando non le colpe ma il dolore che causano, non l'odio ma la sofferenza che genera, non la Storia ma la società che esprime, non gli eventi ma gli uomini che li patiscono. Proprio come il piccolo Pricò, che è un bambino, e guarda.
Ecco perché l bambini ci guardano è davvero un film che preannuncia il Neorealismo, anche se è sostanzialmente distante dall'estetica neorealista. Ecco perché Glauco Viazzi nel 1951 poteva scrivere su «Cinema» che quest'opera costituiva «quel decisivo passo avanti verso il realismo ch'era indispensabile per l'intero successivo sviluppo della nostra arte cinematografica».
Del resto, Pricò prefigura davvero quei tanti piccoli protagonisti che non a caso hanno fatto da testimoni privilegiati della stagione neorealista. Cicche nelle tasche a parte, non è certo questo il solo bambino che piange nel cinema di De Sica, né l'unico a disporsi nei confronti della vita in una solitudine che da un lato ne preserva la purezza dell'infanzia e dall'altro ne impone il doloroso accesso alla realtà con strumenti esistenziali forse provvidamente inadeguati. Semmai colpisce come questo Pricò, piuttosto che al Bruno di Ladri di biciclette o al Pasquale di Sciuscià, rimandi, con la sua solitudine e le sue lacrime, al “grado zero” di due complementari bambini rosselliniani: il chierichetto, che piange disperato sul corpo della madre falciato da un mitragliata, nel celebre epilogo di Roma città aperta; e il piccolo tedesco parricida che vaga annichilito tra le macerie di Berlino prima di saltare nel vuoto, in Germania anno zero. È un rimando che colpisce perché identifica, con tutta l'immediatezza delle associazioni d'immagine, la stratifìcata ma fondamentale amarezza di un film come questo. Dice, cioè, quella che davvero in I bambini ci guardano è individuabile come una prefigurazione dello schianto umano e sociale cui la nostra realtà andava incontro in quel 1943, e lo dice in una maniera non a caso poco gradita al regime fascista, che ne ritardò e ne contenne la circolazione.
Lo sfondo borghese sul quale si muove il dramma del piccolo Pricò è acutamente rimarcato da contrastanti pennellate popolari – il bimbo povero nel parco, che chiede al più fortunato Pricò di giocare col suo monopattino – e da sferzate ironico-caratteriali tutte puntate su questioni di status sociale – il dandy piccolo borghese, collega di Andrea, che lo consiglia sull'abbigliamento e sui luoghi di vacanza; lo scarto tra la famigliola protagonista e la vana alta società da “telefoni bianchi” incontrata sulla spiaggia.
Ma è assolutamente vero che un film come questo vibra soprattutto nel non detto: nell'atmosfera annichilita che retroattivamente noi cogliamo in quegli sfondi romani sospesi e stranamente svuotati (forse, ancor più, svuotanti); ma anche, e soprattutto, nella totale assenza, da quegli sfondi, di qualsiasi rimando a quella guerra che, nel 1943, impegnava l'Italia su tristi e declinanti fronti. L'aver rimosso la realtà dagli scorci umani rappresentati è forse il segno più potente del film, ne divarica lo sguardo aprendo un baratro in cui il non detto, il non mostrato, è forma morale autentica, piena, totalmente descrittiva del vuoto nel quale questi personaggi così vani – e così veri – si muovono. Siamo come in presenza di un punto di fuga che risucchia la prospettiva della rappresentazione, invece di proiettarla sulla messa in scena: il risultato è un'astrazione che assorbe ogni picco narrativo e rappresentativo, e contiene gli strumenti drammatici del film. Lo sfondo e le figure sono così livellati in una stemperata coloritura umana ed epocale, sulla quale s'incastrano, con un'evidenza tra l'altro del tutto significativa, alcune aperture rappresentative che divaricano il film nelle due direzioni in cui pure è diretto, ma che immancabilmente nega. Ecco dunque che da una parte De Sica dà spazio alla sua ben riconoscibile ricettività caratteriale, tutta portata a porre in primo piano le sagome tipologiche del coro, mentre dall'altra non evita di accogliere la più trattenuta ma non meno formante attenzione all'autenticità di certi sfondi e di certe figure di gruppo, accettando la sfida di una rappresentazione umana fatta di verità in sottotono.
Sicché colpisce come De Sica ritagli spazi tipologici proliferanti e, per così dire, “urlati”, che risaltano come altorilievi sullo sfondo: pensiamo alla intrigante vicina di casa interpretata da Tecla Scarano, tutta sopra le righe, performata nella sua stereotipata invadenza, ma anche a scene di gruppo come quella, gustosissima, della riunione di condominio, percorsa in lungo e in largo da macchiette eminentemente “desichiane”; pensiamo al già citato dandy d'ufficio o al meno velleitario e più reale corteggiatore snob interpretato da Ernesto Calindri, ma anche al quadro d'insieme della villeggiatura, affollato di caratteri del tutto tipici dell'universo vacanziero.
E colpisce ancor più, tutto questo, se lo si confronta con la sorprendente sbozzatura operata da De Sica sui tre adulti protagonisti – parliamo di Andrea di Nina e del suo amante Roberto, ovviamente: contenuti, emotivamente indefiniti, sempre contratti come in una incipiente esplosione passionale che non arriva mai, sembrano colti dall'autore in una sorta di ritenzione caratteriale che li condanna a una voluta trasparenza. Non li coglie, De Sica, nella loro pienezza: cerca in tutti i modi di sospingerli sullo sfondo, di contenerli nell'insieme indefinito sul quale si muovono. Il loro è un protagonismo di rimando, per così dire, perché si muovono in bilico su un baricentro instabile, che oscilla volutamente sulla confusione dello sguardo di Pricò e sulla sua infantile indeterminatezza. Ma ancor più perché sono le forme su cui si concentra in maniera più evidente quel “grado zero” della realtà che è la superficie sulla quale De Sica vuole trovare il suo dramma.
Un “grado zero” dal quale non di meno emergono dei medaglioni di rappresentatività popolare del tutto significativi: pensiamo a certi spaccati che vanno in direzione opposta rispetto alla performazione caratteriale di cui parlavamo sopra, e dunque, per esempio, alla straordinaria sequenza della sartoria, momento di realistica rilucenza popolana, in cui ogni elemento della messa in scena contribuisce a creare un'atmosfera che vibra davvero degli umori e delle sensazioni del piccolo Pricò. Ecco così il “coro” delle sartine che canta nell'altra stanza mentre cuce, ecco la ragazzina che fa da servetta di bottega, ecco la grassa matrona che, dietro un séparé poco pudico, prova inutilmente il suo busto… E Pricò, in questo universo matronale così “sensuale”, è come stordito, distrattamente ubriaco, tendenzialmente annoiato ma anche affascinato, sordo eppure vigile tra tutte quelle ragazze che parlano senza troppe remore di “quello” che hanno fatto la sera prima con l'innamorato, senza tanti scrupoli, così per godersi la vita.
È davvero, questo, un momento di straordinaria tensione reale, che nel film ha altri passaggi, forse non così lucidi e intensi, ma comunque notevoli: si pensi all'incipit, con quel cortile, quel darsi la voce di balcone in balcone, o si pensi alla sequenza del parco, con lo spettacolo dei burattini e la bimbetta che fa la questua tra il pubblico, o, più avanti, si pensi ancora alla passeggiata in paese di Pricò con la civettuola Paolina.
È qui che il film vive di una sua laica militanza popolare, antimoralistica e quasi deviante (rispetto ai codici in gran parte dominanti). Una sua audacia rappresentativa che lo discosta di netto dai territori del melodramma, in cui pure rischiava d'essere relegato, e scardina le coordinate di una messa in scena ordinata e corretta, prestabilita, predigerita, lontana dalla gente: qui, in questi momenti del film, la gente è vicina, viva, vivace, vera, totalmente rappresentata e rappresentabile. Il melodramma, con la sua raggelante tensione morale, con la necessità di esprimere un giudizio sulla vicenda umana rappresentata, è davvero lontano: il debito zavattiniano di questo primo film scritto da De Sica assieme a “Za” probabilmente è tutto qui, in questa fragranza popolare affascinata, in questa poesia umile e umida di vita, che ha trovato nella sensibilità caratteriale desichiana il giusto terreno di coltura, nella sua vibratile ricettività umana e nella sua eccezionale capacità registica (di direttore d'attori) l'appiglio per uscire dal luogo impalpabile delle idee e divenire forma cinematografica.
Infine, in I bambini ci guardano c'è anche un altro vettore non meno rimarcabile: quello portato da Cesare Giulio Viola, l'autore del bellissimo e dimenticato romanzo da cui il film è tratto, il quale con De Sica e Zavattini collaborò alla stesura della sceneggiatura, per poi firmare anche Sciuscià. Il suo è un romanzo pulsante di una prosa agile, sensibile, tutta china sulla vivacità osservativa del suo piccolo protagonista, in cui il segno più forte è proprio la sensualità indefinita e incombente della realtà colta da Pricò. Il film purtroppo è costretto a rimuovere in gran parte questa portante del romanzo di Cesare Giulio Viola, pur senza tradirla ma rimodellandone la portata in alcuni passaggi che si ribaltano con furbizia in chiave ironica. Il testo scritto, invece, è tutto un sussulto di umori sensuali in cui, sin dall'incipit, lo scrittore sottolinea con grande sensibilità la carnalità delle presenze femminili, così come sono vissute, infantilmente e in maniera indefinita ma potente, dal piccolo Pricò.