Cent'anni esatti fa, sugli "Annalen der Naturphilosophie", veniva pubblicato per la prima volta in tedesco il "Tractatus logico-philisophicus" di Ludwig Wittgenstein (l'anno dopo, apparirà l'edizione in inglese, con un'introduzione di Bertrand Russell). Unica opera pubblicata in vita dal grande filosofo austriaco trapiantato a Cambridge, a parte l'articolo "Note sulla forma logica" e un "Dizionario per le scuole elementari", il Tractatus è esposto in maniera sintetica (meno di 70 pagine), rigorosamente organizzato in sette asserzioni e a ragione è considerato uno dei vertici assoluti della filosofia del 900. Facendo nostra la settima proposizione del Tractatus, «Di ciò di cui non si può parlare, è meglio tacere», ci fermiamo qua, e passiamo volentieri la parola a Roberto De Gaetano, che sul numero 328 di «Cineforum», ottobre 1993, recensì il Wittgenstein cinematografico scritto e diretto da Derek Jarman.
«Quando più rigorosamente consideriamo il linguaggio effettivo, tanto più forte diventa il conflitto tra esso e le nostre esigenze (la purezza cristallina della logica non mi si era affatto data come un risultato; era un'esigenza). Il conflitlo diventa intollerabile; l'esistenza minaccia a questo punto di trasformarsi in qualcosa di vacuo. Siamo finiti su una lastra di ghiaccio dove manca l'attrito e perciò le condizioni sono in certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare: dunque abbiamo bisogno dell'attrito. Torniamo al terreno scabro?»
(Ludwig Wittgenstein)
Ludwig Wittgenstein nasce a Vienna nel 1889. Ottavo e ultimo figlio di una famiglia che godeva di condizioni economiche molto agiate e di intensi contatti con il mondo intellettuale viennese, Ludwig nonostante le favorevoli condizioni di vita non sembra aver avuto un'infanzia felice (due suoi fratelli, Hans e Rudolf, muoiono suicidi, un terzo, Kurt, si toglierà la vita nel 1918, in guerra, per sfuggire al nemico). Studia dapprima a Berlino, alla Technische Hochschule, per poi trasferirsi in Gran Bretagna, dove si iscrive prima all'Università di Manchester poi al Trinity College di Cambridge, presso il quale segue i corsi di Bertrand Russell. Stringe amicizia con Russell medesimo, nel quale suscita una profonda ammirazione, e con altri importati studiosi: il filosofo G.E. Moore, il filosofo e matematico A.N. Whitehead, il teorico dell'economia J.M. Keynes. Dopo un viaggio a Jena in cui si incontra con Frege, Wittgenstein decide di ritirarsi fra il1913 e il 1914 in Norvegia. Allo scoppio della guerra si arruola volontario nell'esercito austriaco e combatte in prima linea sul fronte orientale.
Nel 1918, a Vienna durante una licenza, lavora alla stesura definitiva del Tractatus logico-philosophicus, che esce nel 1921 in tedesco e nel 1922 in inglese con un'introduzione di Russell. Dopo la guerra, torna a Vienna e prende il diploma di maestro elementare, andando poi ad insegnare ai bambini in alcuni villaggi della Bassa Austria. Nel 1929, dopo intensi colloqui con alcuni membri del Circolo di Vienna, rompe il suo isolamento filosofico e torna a Cambridge dove prende la laurea; pubblica un breve articolo (Alcune osservazioni sulla forma logica) che insieme al Tractatus resterà l'unico scritto pubblicato in vita. Inizia a insegnare al Trinity College e si impegna in conversazioni che costituiranno un denso materiale che sarà accessibile (anche se a tutt'oggi non ancora completamente) solo dopo la morte: Osservazioni filosofiche, Le note sul Ramo d'oro di Frazer, la Grammatica Filosofica, il Libro blu e il Libro marrone.
Dopo un viaggio in Irlanda, va in Unione Sovietica dove pensa di stabilirsi, ma poi rinuncia e va in Norvegia per lavorare alla prima parte della Ricerche filosofiche (che usciranno postume nel 1953). Nel 1937 è di nuovo a Cambridge dove, nel 1939, accetta la cattedra di Filosofia di Moore. Durante la Seconda guerra mondiale presta servizio civile in un ospedale di Newcastle. Nei due anni successivi alla fine della guerra tiene gli ultimi corsi a Cambridge dove prenderanno vita le Osservazioni sulla filosofia della psicologia. Quindi si ritira in Irlanda. Scrive Zettel e porta a termine la seconda parte delle Ricerche. Nel 1949, quando già i sintomi del cancro che lo porterà alla morte si sono manifestati, si reca a Ithaca (negli Stati Uniti) e comincia a scrivere Sulla certezza. Nel 1950 stende anche le Osservazioni sui colori. Muore a Cambridge nell'aprile del 1951.
Il percorso teorico e la vita di Wittgenstein costituiscono uno de1 momenti più salienti e rilevanti di tutta la cultura, non solo filosofica, di questo secolo. Pensiero e vita, teoria e prassi, vanno, come spesso accade, a intrecciarsi fortemente, ma non solo nel senso di una traduzione immediata dell'esperienza nel pensiero e viceversa, quanto nella forma paradossale di un'esperienza del pensare e di un pensare l'esperienza che trovano nel linguaggio la forma della loro “saldatura”. In questo senso tutta la filosofia di Wittgenstein è stata incentrata sul linguaggio, pensato nella sua forma “logica” o “pragmatica” nella trasparenza di una struttura specchio del mondo, o nell'opacità dei differenti “giochi linguistici” nei quali si realizza. I due momenti che hanno scandito questo percorso sono individuati nei due grandi testi: il Tractatus logico-philosophicus (pubblicato nell'edizione inglese, con prefazione di Bertrand Russell, nel 1922) e Ricerche filosofiche (pubblicato postumo nel 1953, dopo la morte avvenuta nel l951).
Nel Tractatus (unico testo pubblicato in vita insieme ad un breve scritto di logica) viene posta la questione fondamentale sui criteri di senso del linguaggio, e una risposta viene data ritrovando il suo ambito di verità nella struttura logica che lo caratterizza e nel rapporto descrittivo che instaura nei confronti del mondo in quanto “totalità di fatti”. Proposizioni come: «Il mondo si divide in fatti», «La proposizione è un'immagine della realtà», «Dare l'essenza della proposizione vuol dire dare l'essenza di ogni descrizione, dunque l'essenza del mondo», fino all'ultimo aforisma «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere», costituiscono le tappe di un pensiero teso verso un tentativo di determinare i criteri in base ai quali si viene a costituire l'omologia strutturale fra mondo e linguaggio.
Con Ricerche filosofiche la prospettiva cambia radicalmente due fasi del pensiero wittgensteiniano sono state da molti studiosi considerate non in chiave platealmente contrappositiva, ma animate da comuni istanze problematiche – critiche, ermeneutiche, eccetera), i criteri di verità passano da una prospettiva “logica” ad una “pragmatica”. Il senso del linguaggio risiede, ora, nel suo “uso”, nei differenti “giochi linguistici” nei quali si realizza, nella molteplicità irriducibile delle forme nelle quali si viene a determinare: «È interessante confrontare la molteplicità degli strumenti del linguaggio e dei loro modi d'impiego, la molteplicità dei tipi di parole e di proposizioni, con quello che sulla struttura del linguaggio hanno detto i logici». «Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio», «Il parlare un linguaggio fa parte di un'attività o di una forma di vita», eccetera. Ma quello che caratterizza in modo radicale e originale le Ricerche è l'apertura di un'intenogazione costante sul “linguaggio comune”, sull'uso “terra terra” della lingua, sull'ovvietà, mai fino in fondo così ovvia, del quotidiano, sulla sua enigmaticità, sull'enigma dell'ovvio: «L'essenziale della nostra ricerca è che con essa non vogliamo apprendere nulla di nuovo. Vogliamo comprendere qualcosa che sta già davanti ai nostri occhi. Perché proprio questo ci sembra, in qualche senso, di non comprendere».
Se la riflessione wittgensteiniana si è mossa fra ossessione per la chiarezza e constatazione dell'irriducibile opacità delle cose, aspirazione all'unità e impatto con una inesauribile molteplicità, la sua vita si è consumata in un'irrequietezza costante fra Vienna (dove è nato nel 1889) e Cambridge, fra il Nord Europa (Norvegia, Irlanda) e l'Unione Sovietica, fra la partecipazione come volontario alla Prima guena mondiale e l'attività di insegnante elementare in un villaggio della Bassa Austria.
Ma come ci ha restituito Jarman l'immagine di questo man of genius (Russell), come ci ha reso la complessità del suo pensiero e della sua figura? L'intuizione di fondo che anima e struttura il film è quella che trova nella costruzione di scene ottiche e di blocchi spazio-temporali astratti il modo di fuggire al pericolo di rappresentare alcunché, di ridurre tutto alla temporalità lineare biografica, alla caratterizzazione psicologica del personaggio, alla raffigurazione degli ambienti.
L'operazione fondamentale del Wittgenstein di Jarman risiede nell'invenzione della “scena”, nella sua costruzione, nel suo carattere assolutamente antiriproduttivo: si tratta di creare la scena, di costruirla, di produrla (il cinema è primariamente produttivo prima di essere riproduttivo). Inventare una scena, costruire il film come un succedersi di scene, non significa fare qualcosa di “classicamente” teatrale, significa semmai accedere alla potenza propria dell'immagine nel suo statuto “moderno”, un'immagine puramente ottico-sonora (ci troviamo di fronte a vere e proprie scene ottiche) che non descrive più nulla, o meglio che fa accedere la descrizione al suo statuto più alto nel momento in cui costruisce il suo soggetto, inventa il suo blocco spazio-temporale.
Allora, la pura otticità della scena, la costruzione di spazi-tempo astratti, la potenza dell'assolutamente falso sono i segni della trasformazione dello schermo in uno spazio visivo- mentale che mette in questione qualsiasi idea di schermo-cache di derivazione baziniana. Le grandi differenze si ritroveranno allora nella costruzione di queste “scene”: le scene “estetiche” e “mentali” del cinema europeo (Fellini, Syberberg, Greenaway), e quelle “spettacolari” del cinema americano (Coppola, Lynch, eccetera).
Le “scene” del Wittgenstein di Jarman si contraddistinguono eminentemente per un eccesso di teatralità (che in quanto tale è tipicamente cinematografico) che trova nella creazione di un sfondo nero con il suo potere assorbente (l'invenzione di una profondità piatta data dal nero che assorbe e rilascia) e nella messa in rilievo ottica dei personaggi (data dai colori accesi e contrastanti degli abiti e degli oggetti) il suo momento più caratterizzante. Il tutto crea l'effetto di un concatenarsi di “scene” che formano lo spazio e il tempo astratto di una drammaturgia grottesca dove i singoli personaggi sono de-psicologizzati e ridotti a quella che sembra essere una parodia dei “tipi”: il genio tutta sregolatezza (Wittgenstein), l'insigne cattedratico (Russell, la donna del cattedratico, l'allievo del genio, la sua famiglia, per giungere alla figura esemplare del marziano eccetera.
Il “senza tempo” del “nero” da dove emergono le figure e lo spazio astratto composto dal rapportarsi di corpi cromatici e corpi sonori (la citazione delle proposizioni e degli aforismi), nonché il carattere non-obbligante del raccordo delle “scene”, sono in qualche modo la “risposta” al pensiero frammentario di Wittgenstein in quanto messa in questione delle forme argomentative e discorsive della filosofia occidentale.
Allora, il Wittgenstein di Jarman sembra essere un film “all'altezza”, nel senso che opera sul materiale di partenza, la vita e le opere di un grande filosofo, utilizzandolo proprio come materiale e componendo una partitura astratta e grottesca, allo stesso tempo verbale e visiva, che restituisce su un piano propriamente estetico l'“immagine” di una vita e di un pensiero.