Per fortuna un film come Öndög, del regista cinese Quan’an Wang, vincitore più di dieci anni fa della Berlinale con Il matrimonio di Tuya, non somiglia quasi a nulla di ciò che si vede oggi in un festival del cinema. Nessuna coproduzione internazionale alle spalle e nessun filmlab a sancire una uniformità di scrittura e produzione da globalizzazione delle immagini e del racconto. Semplicemente, un film da un paese lontano e cinematograficamente poco conosciuto come la Mongolia, che con un andamento imprevedibile e acerbo, senza picchi narrativi e con bruschi passaggi, inizia come un noir nell’immensità della steppa sferzata dal vento e prosegue come il ritratto di una donna sola e tenace che si ritrova incinta un po’ per caso e un po’ per volontà.
La macchina da presa coglie in campo lungo le figure umane, le ritaglia sullo sfondo immenso della pianura, minuscole e abbandonate a se stesse. Il cadavere di una donna ritrovato nella prima e potentissima scena – inerme e quasi puro nella desolazione della natura, con i fari di una macchina che nella notte squarciano il buio – resta lungo tutto il film come una sorta di simbolo della fragilità della vita umana in un regno desolato di natura selvaggia. Mandrie di cavalli corrono libere nella notte; le mamme lupo vanno a caccia di cibo per i loro cuccioli; il freddo congela ogni metro di steppa; i greggi di pecore tornano al loro recinto, e in tutto questo la vita degli uomini e delle donne rimane come un particolare insignificante.
Purtroppo per la tenuta drammatica del film, l’inchiesta sul cadavere ritrovato non porta a una vera e propria trama gialla, così come la ricerca del responsabile dell’omicidio da parte della polizia resta sullo sfondo: ma è come se in un mondo così vasto e nudo, a migliaia di chilometri dalla capitale Ulan Bator, con solo una minuscola ferrovia a tracciare un legame con la civiltà, ogni faccenda umana (una morte, la cura del gregge, una notte di sesso occasionale, l’amore) fosse infinitesimale, con il giorno e la notte che si avvicendano indifferenti e la sopravvivenza della specie che diventa l’unica possibile forma di resistenza.
L’öndög del titolo è un fossile di uova di dinosauro ritrovato in Mongolia dai ricercatori americani, dice un personaggio del film, e dopo milioni di anni testimonia ancora di una presenza lontana eppure vitale. All’umanità probabilmente capiterà lo stesso: sarà destinata a un’estinzione che in realtà è un’evoluzione e una sopravvivenza. La protagonista del film – una donna sola che alleva pecore in una yurta facendosi ogni tanto aiutare da un brav’uomo che la ama in silenzio – non riduce la propria esistenza al ruolo di donna e madre, ma in quanto madre arriva a incarnare lo spirito generatore e insieme distruttore della natura. Da un cadavere nasce un bambino: semplice e ingenuo, ma anche lineare e diretto. Il mondo minaccioso in cui la donna vive (e in cui si ritrova anche una squadra di poliziotti totalemente impreparata) è reso splendidamente da uno stile in cui rumori e immagini in campo lungo trasmettono una sensazione di tensione persistente: come in un film sovietico dell’era della perestrojka, Quan’an Wang fonde rumori ambientali e formati panoramici, sovrappone i rumori della natura alla musica pop, il caos della violenza e la freddezza della terra. Dal disordine nasce il mondo, ma solo nell’affermazione di uno spirito razionale può continuare a nascere la vita.