Due donne si incontrano in un grande magazzino, reparto giocattoli. O meglio: sono i loro occhi a incontrarsi. Ed è tutto in una messa in scena di sguardi che si racchiude il senso profondo e l’esile trama di Carol, film magnifico e impalpabile, sensuale e astratto.
Todd Haynes, che già aveva sperimentato l’arte del reboot con Far from Heaven, versione aggiornata – classica e contemporanea al tempo stesso – di Secondo amore di Douglas Sirk, osa un passo avanti e affresca un impossibile amore lesbico calandolo in una realtà ostile e senza tempo.
In Carol, Haynes procede nella sua rilettura degli anni Cinquanta e abbandona la costruzione narrativa – pur restando sostanzialmente fedele al romanzo di Patricia Highsmith da cui è tratto – per affidarsi alle arti magiche della pura regia cinematografica.
Carol è una donna borghese sul precipizio di un divorzio, tenuta stretta in casa da un amore imprescindibile per la figlia. Therese Belivet – nome improbabile, uscito da un romanzo francese di tardo Ottocento – è una giovane commessa con in testa pulsioni artistiche e sogni di fotografia. Le due si incrociano per caso, si soppesano con gli occhi, si parlano senza usare parole, spesso utilizzate come un’arma dalle persone che ruotano intorno a loro. Desiderano, forse invano, un modo strano di amarsi sapendo di confrontarsi con un mondo che le espelle in partenza: oggetti sessuali in cerca di tempo e spazio, costrette a un monadismo affettivo che le isola e le unisce in una sorta di perenne movimento verso una felicità negata.
In Carol succede poco di più: Haynes costruisce un film tutto in levare, al cui centro incastona una – l’unica – scena fisica di un amore che per il resto del tempo è negato, nascosto, soffuso, sciolto. Ma quel che risalta vedendo Carol è la capacità sorprendente di Haynes di ricostruire un clima, uno stile, un ambiente – grazie anche ai costumi di Sandy Powell, miracolosamente intonati a ogni luce in ogni scena, e alla fotografia di Ed Lachman che sa inseguire e disegnare i volti delle protagoniste tra finestrini, campi lunghissimi costruiti in spazi anodini, arredamenti al tempo stesso umani e gelidi – senza mai cedere a un superficiale gusto vintage.
Perché Carol, attraverso una spregiudicata riappropriazione della modernità, si appoggia al passato per raccontare tutto al presente. Nulla, nel cinema di Haynes, si limita al puro décor e anche il retrogusto nostalgico è spazzato via da un’urgenza di racconto che mira sempre a una ricreazione di un quotidiano tangibile. La grammatica di Carol è quella di un presente assoluto, ricostruito attraverso l’uso ostentato di una grana antica – quella della pellicola – e al rifiuto di ogni scorciatoia cinefila e citazionista (anche se cinefilia e citazioni nel film ci sono eccome) che possa distrarre dalla centralità della storia raccontata.
L’amore di due donne, costretto a una sorta di apostasia dal simulacro di una condanna morale e da un mondo maschile dedito all’apparenza, è descritto come un fatto urgente e incontenibile ed è raccontato attraverso una distillazione emotiva che spezza il fiato. Cate Blanchett e Rooney Mara (in maniera speculare ma ugualmente travolgente) diventano così gli strumenti di narrazione di Haynes, cineasta puro e sincero che, senza rinunciare a un tormento emozionale, ci racconta la storia di una passione recisa cui non è concessa fuga o respiro – soffocata com’è nel tempo e nello spazio – raggiungendo nella specularità dello sguardo amoroso un’intensità che amplifica ogni tormento. Carol e Therese siamo noi: ora, qui, per sempre. Nascoste e compresse da un perbenismo che non ammette libertà; testimonianza di un cinema che non ci permette di ignorarle.