C’è la responsabile della comunicazione che argomenta sulla necessità di aprirsi di più all’esterno, di pensare il museo a partire dall’utente (rigorosamente tra virgolette); c’è la guida che, di fronte a un trittico di Duccio, invita i visitatori a immaginare di essere lì, dentro una chiesa gotica male illuminata dal sole e dalla luce tremolante delle candele, con in sottofondo, magari, il brusio di una preghiera (e ricordatevi: siete analfabeti, vivete al freddo d’inverno e al caldo d’estate, non viaggiate, vi nutrite come potete, ecc); c’è un lungo e teso dialogo tra esperti internazionali di Watteau, che di fronte a The Love Song cercano di stabilire se lo spartito nelle mani della donna seduta nella parte sinistra del quadro si riferisce a un brano vero, e se sì a quale, se Watteau sapeva suonare o almeno leggere la musica (la chitarra, è certo, è un modello veneziano dell’epoca); c’è il restauratore che parla del proprio lavoro, della difficoltà di scegliere come e dove intervenire, della consapevolezza che, secondo la logica ormai imperante della “reversibilità”, il suo lavoro (settimane, mesi, anni) deve poter essere rimosso in pochissimi minuti, per poter “tornare indietro”; c’è l’anziano habitué che avvicina una ragazza (lo avrà fatto mille volte, ma sempre con garbo tipicamente british) e, piantati di fronte a un quadro che ritrae Mosè con le tavole appena ricevute, le racconta di come, al popolo in attesa, Mosé comunicò subito la buona notizia (“È sceso a dieci”), per ritardare quella brutta (“L’adulterio c’è ancora”).
Un fiume di parole – tecniche, immaginifiche, aneddotiche, serie, divertire, ispirate, banali – avvolge i dipinti della National Gallery di Frederick Wiseman, tre ore di racconti e commenti sull’arte, sul suo potere, sul suo senso e sul suo valore oggi (film meritoriamente distribuito, anche se solo per un giorno, l’11 marzo, da Nexo Digital): l’omaggio al museo londinese (da prendere a modello) e al flusso continuo di sguardi e corpi che lo abita passa anzitutto di qui, dallo studio “etnografico” del rapporto tra il “white cube” museale e il visitatore contemporaneo – così, la “pianta” e l’architettura sono subito rimosse, e tra l’edificio esterno e lo spazio interno non si dà alcuna simmetria, come se la teoria di stanze che lo compongono fosse, appunto, un territorio da ricostruire ogni volta, del tutto soggettivamente.
Niente arte per l’arte o arte per artisti, critici e curatori, ma arte per la vita, arte da usare e consumare, per rendere la vita più ricca e complicata, più precisa e sfuggente. Cercate le storie, i gesti, i visi, le emozioni e le intenzioni, liberamente: è un invito che aleggia in modo pressante, come ben raccontano le sequenze di apertura e chiusura (e a niente e a nessuno è concesso, giustamente, un “sottopancia” di date e nomi); guardatevi attorno, con curiosità e disponibilità; lasciate perdere la Storia per le storie, i nomi per le opere, le iconografie per la narrazione; il genio per gli artisti, i capolavori per le emozioni. Immaginate, senza timori reverenziali e memorie scolastiche; immaginate, per esempio, che cosa frulla nella testa della Dalila di Rubens, spia d’altri tempi che ha infine sedotto la sua vittima, consegnandola così alla morte: ma mentre i capelli di un Sansone addormentato vengono tagliati, la donna poggia delicatamente una mano sulla poderosa schiena dell’uomo, e sul suo viso scorre un sentimento che non sa di trionfo ma, forse, di tradimento.
Sullo sfondo di questo racconto di racconti, dentro questo flusso ipnotico di immagini e parole (giustamente chiuso da un silenzioso passo a due), emerge a poco a poco un’idea di arte senza maiuscole museali o storicistiche, che dalle pareti della National Gallery (pure geloso della propria identità) scivola dentro la vita frettolosa e disordinata dei londinesi di oggi, non disperdendo ma traducendo per la contemporaneità il tesoro lì conservato.
La selezione è chiara, e la “lezione”, tutta sottovoce, dovrebbe essere raccolta da tutti: studenti, insegnanti, istituzioni pubbliche e private. Che cos’è un museo, oggi? Come lo si abita e vive, come lo si apre, realmente? Come si possono rinnovare, a distanza di secoli, consapevoli dei cambiamenti di senso e forma, il piacere e la sorpresa (o forse la delusione e il disgusto) di quell’osservatore che, per primo, posò lo sguardo su una tela di Leonardo o Velázquez?
National Gallery è un film da rendere subito obbligatorio, per tutti, e in particolare nelle nostre scuole, che si ostinano a insegnare l’arte nel silenzio, nel rispetto sacrale per il capolavoro, nella distanza tra l’opera e l’osservatore. Le stanze di un museo sono invece piene di rumori, racconti, parole; sono luoghi affollati e disordinati, da portare verso di noi, da usare e rinnovare. Per le Date e la Storia e l’Arte e i Maestri e i Capolavori c’è tempo, un altro tempo, o forse nessuno. Poco importa.