In occasione dell'uscita in sala, il 15 gennaio, di quattro film di Jean Vigo restaurati nell'ambito di Il Cinema Ritrovato al Cinema e dell'imminente uscita dell'opera completa del regista (in versione restaurata naturalmente) in dvd e Blu-Ray per le edizioni della Cineteca di Bologna, siamo andati a scartabellare in archivio. Ne è uscito un'intressantissimo speciale su L'Atalante firmato da Lorenzo Pellizzari nel 1991 che non è solo un omaggio all'indimenticabile capolavoro di Vigo ma anche una curiosa e appassionata riflessione sui modi della distribuzione e della fruizione dei classici all'inizio degli anni Novanta.
Trovi tutto lo speciale sul numero 308 di Cineforum, disponibile in carta e pdf.
Quel barcone che passa
L'idea che in una pubblica sala si possa assistere alla proiezione di un film concepito molti decenni prima, e senza i travisamenti legati al caso Metropolis di Lang / Moroder, è una di quelle soddisfazioni che potrebbero riconciliare con il vero cinema. Anche se, serate di gala a parte, diventa sempre più difficile convincere gli spettatori dell'opportunità di assistere a un film d'antan, ovviamente in bianco e nero, con attori dimenticati e un sonoro non certo dolbizzato (e ancora più arduo è il compito di illustrare i motivi storico-tecnico-estetici per i quali il loro relativo apprezzamento non è poi così casuale e spontaneo), alla fin fine l'avventura val sempre la pena di correrla, sia per chi la promuove sia per chi è indotto a gustarla.
In epoca pretelevisiva e ante VCR, simili operazioni — pur non frequentissime — erano più e meglio praticate: oltre a Chaplin (per il quale, come per Walt Disney, si trattava di un calcolato sfruttamento in profondità), basterebbe ricordare le proposte o le riproposte di Eisenstein e di altri classici sovietici, o magari piccole grandi chicche come Une partie de campagne di Renoir o capolavori come La passione di Giovanna d'Arco di Dreyer. In epoca più recente hanno fatto epoca recuperi-evento come il Napoléondi Gance o le proiezioni di splendide copie restaurate che accompagnano certi festival (da noi, esemplare il caso di Pordenone) o addirittura, a Parigi o altrove, l'apertura di sale specializzate. Che ogni tanto il fenomeno si ripresenti può quindi soltanto rallegrare, anche se è giudizioso avanzare un avvertimento.
I rischi del cinema imbalsamato
Fra i possibili e non sempre entusiasmanti futuri del consumo pubblico di cinema (dando per scontata e forse irreversibile la fruizione privata o domestica, nelle attuali forme e in altre non ancora immaginabili) v'è l'ipotesi che vorrebbe equiparare un film a un melodramma, inteso come opera lirica. Di opere, almeno nell'accezione tradizionale, non se ne producono quasi più, ma esiste un repertorio (nemmeno limitato e fonte continua di sorprese), esistono possibilità di riproposte anche curiose e di recuperi anche filologicamente ardui, esiste addirittura la possibilità di replicare scenografie e regie del passato (cosa che accade, a esempio, con Visconti, tanto per restare nel nostro ambito).
Succede anche che un simile repertorio, per essere tramandato e rivivificato, abbia bisogno di ingenti sovvenzioni statali (quanto mal amministrate è aspetto in questa sede trascurabile) e di precisi appuntamenti, cui accorra più o meno buona parte degli interessati. Nessuno pretende che il teatro dell'opera sia aperto tutti i giorni e a tutte le ore, come nessuno richiede che la disponibilità delle messe in scena sia continua: ci si accontenta, nel corso di qualche decennio o di una vita, di essere resi compartecipi dell'evento e di registrarne la sensazione d'insieme (per analizzare o memorizzare meglio, esiste pur sempre il compact o il videodisco, come un tempo il longplaying o prima ancora i rudimentali rulli; insomma l'equivalente delle nostre videocassette). Fin qui tutto bene, se non subentrasse il fatto che — che all'opera come al cinema — si è di fronte a una simulazione. Non basta mettersi l'abito buono o l'elegante toilette per recarsi al teatro dell'opera con l'aspettativa giusta, come non è sufficiente fingere che il cinema sia ancora l'unico mezzo possibile per ammirare storie visualizzate o immagini in movimento. Nessuno potrà mai renderci l'atmosfera e il clima di una prima da melodramma, come nessuno potrà mai restituirci il sapore delle sale cinematografiche di un tempo (anche l'odore, del fumo compreso) o — quel che più conta — la composizione del loro pubblico, il tipo di reazioni, di apprezzamenti, di rifiuti: in poche parole, la grande frenesia collettiva che ha sempre accompagnato una qualsiasi proiezione, dai grandi «palazzi» all'ultimo «pidocchietto», nell'epoca in cui il cinema di tutto poteva essere accusato, salvo il fatto di lasciare indifferenti. Sono modeste e anche banali considerazioni che vengono alla mente di fronte a certe riproposte, di cui invano si insegue l'aura, per le quali invano si tenta di perdere la malizia nel frattempo acquisita o ci si sforza di afferrare l'attimo fuggente (viziati come siamo dalla possibilità di vedere e rivedere, di fermare l'immagine, di rallentarla, di accelerarla). Accanto a spettatori disomogenei per tipo di cultura visiva e di esperienze assimilate, fiutando attese diversissime tra loro e ancor più diverse possibilità di appagamento, constatando quanto l'analfabetismo cinematografico di ritorno impedisca di apprezzare vezzi, moduli e stilemi, verificando infine quanto sia arduo conciliare le conoscenze da specialista con le esigenze da spettatore, si comprende ben presto che il recupero è spesso impossibile, che l'esumazione stenta a renderci le sembianze di colei — la vecchia opera, la vecchia pellicola — che si era amata e più ancora idealizzata, magari attraverso il ricordo altrui, magari attraverso una «letteratura» che si rivela, per l'appunto, essere tale. Talvolta viene quasi voglia di dire: lasciamo le ombre al loro regno, le muffe di una cineteca o l'empireo di grandezze non più sottoponibili a revisioni critiche. E andiamo avanti per la nostra brutta e penosa strada.
Il balsamo del cinema arrischiato
Ogni tanto, però, accade il miracolo. E L'Atalante di Jean Vigo (1934) ce lo conferma. Partiamo con un'ipotesi per assurdo. Quando Jean Vigo morì, in quella stessa stagione, mentre il suo film veniva maciullato, François Truffaut aveva due anni. Jean avrebbe avuto solo 54 anni quando François diresse I quattrocento colpi (chiaro riferimento a Zéro de conduite) e 63 ai tempi di Baci rubati. Li avrebbe potuti tranquillamente dirigere lui, se solo fosse sopravvissuto alla non incurabile malattia, avesse trasformato il proprio incantato anarchismo in un disincantato atteggiamento soft da medio borghese ribelle, e sempre che altri Giovani Turchi della Nouvelle Vague non l'avessero confinato nei recinti invalicabili del cinéma de papa.
Non basta. Vigo è presente tutte le volte — purtroppo rare — che al cinema si assiste a qualche felice fusione tra intenti e modi di produzione, tra limitati mezzi e gioiose effusioni creative, tra voglia di vivere (di ribellarsi alla vita) e voglia di rappresentare la vita, tra idee sulla carta, e immagini sullo schermo. Non occorre fare nomi né recuperare titoli: ciascuno — in perfetta soggettività — richiami alla memoria l'emozione e la trasformi in valutazione critica. Meglio ancora, si pensi a Vigo come la perfetta sintesi di un «cinema arrischiato», che non vuol dire né involuto né torpidamente poetico, né presuntuoso né ossequioso delle mode intellettuali, né stentato né troppo rigoglioso, come purtroppo è accaduto a tanti suoi epigoni che hanno giocato a essere maltrattati dai produttori o incompresi dal pubblico.
La sua vera provocazione consiste nell'appassionarci e nel divertirci (con o senza virgolette) senza farci dimenticare che stiamo assistendo a una serie di trasgressioni — dalle più elementari o quotidiane a quelle che investono il senso stesso dell'esistenza o i rapporti con i detentori del potere — e che potremmo applicarle al nostro modo di vivere; sta, con L 'Atalante, nel mostrarci le infinite facce della seduzione, proprio come, con Zéro de conduite, stava nell'illuminarci sulle infinite facce della segregazione. Se il suo può essere considerato un insegnamento — termine che sicuramente gli sarebbe stato stretto —, viene da pensare che egli ci abbia illuminato su un duplice destino: come sia possibile, anzi auspicabile, liberarsi dalle catene di ogni sorta di repressione, e quanto invece sia impraticabile il tentativo di scambiare la libertà relativa dei comportamenti con la libertà assoluta dalle passioni.
Quanto al rischio che Vigo personalmente corre nel condurre, con mano ferma e insieme continuamente fantasiosa, la sua semplice storia, esso non consiste soltanto nel girare un film quasi sempre in esterni dal vero o nel far agire attori disparati (non professionisti compresi), bensì in quello di essere frainteso. Come accadde agli spettatori de Le chaland qui passe, cioè della versione mutilata ed edulcorata, qualcuno potrebbe intendere la vera Atalante come la vicenda di un amore movimentato dal rapporto con gli altri, come la descrizione di un piccolo mondo turbato dalla prepotenza del mondo esterno. In realtà quel piccolo mondo è il mondo; il barcone — che si muove lentamente ma si muove — è un'arca che accoglie sopravvissuti ben decisi a sopravvivere; uomini e animali (indimenticabile il popolo dei gatti, che invade anfratti e ripostigli, dispense e alcove) sono autosufficienti nel loro viaggio verso la (contrastata) felicità. Il resto è solo canzoni («Quand on a le coeur bien gai / cette vie de marinier / c'est la tranquillité / et c'est la liberté!»), o le musiche e le voci che giungono in cuffia a Juliette nello straordinario negozio Pathé, una specie di fantastico juke-box manuale. Quasi inconsapevole omaggio a quell'ebreo tedesco di nome Walter Benjamin che di lì a poco, proprio a Parigi, avrebbe elaborato il suo L'opera d'arte nell'epoca della riproducibilità tecnica. Ecco, forse perché sottratta nella sua integralità al consumo di massa, l'Atalante — ben lungi dal risultare elitaristica — ha conservato sino a noi la sua «aura», il suo balsamo.