C'è uno Starman che non aspetta più nel cielo…

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… ma è sceso fra di noi. Starman, fiaba apparentemente anomala nella filmografia di John Carpenter, usciva giusto giusto una quarantina di anni fa, e ci sentiamo senz'altro di suggerirla se siete ancora intrisi di spirito natalizio. Perché il personaggio interpretato da Jeff Bridges, futuro Drugo Lebowski per i fratelli Coen, nel film di Carpenter è un alieno, ma anche una figura cristologica (come argomenta Franco La Polla, nella sua recensione uscita su «Cineforum» n. 246, agosto 1985), e a suo modo pure un emigrante (come invece afferma Demetrio Salvi in un suo articolo, pubblicato sul n. 326, luglio/agosto 1993), Riproponiamo per intero il primo articolo, e un'ampio stralcio dall'inizio del secondo (raccomandando ovviamente di recuperarlo e leggerlo). E se incontrate un Uomo delle Stelle (e altri come lui), siate con loro cordiali.

 

 

«Cineforum» n. 246, agosto 1985

 

Filmese

Starman di John Carpenter

 

Franco La Polla

 

Chi legge Starman come un film nella scia di E.T. ha torto e ragione. Ha ragione perché, ovviamente, esso riprende in modo indiscutibile il tema della visita aliena e l'imbarazzo del disadattamento da parte dell'extraterrestre, cui peraltro non manca un compagno (qui al femminile) pronto ad aiutarlo a qualunque costo. Ha torto perché in realtà la pellicola di Carpenter è piuttosto una parodia “seria” di E.T. nella quale il mostriciattolo di Rambaldi diventa una sorta di Principe Azzurro per la coprotagonista e di vero e proprio Messia (incompreso, naturalmente) per la Terra tutta. Nel film di Spielberg erano la mostruosità e l'impaccio di E.T. a rendere il protagonista il cocco della platea; in quello di Carpenter sono l'avvenenza e l'impaccio del visitatore cosmico a farci simpatizzare con lui.

In un certo senso Starman è una sorta di Invasione degli ultracorpi a valenza positiva. L'idea della replica del corpo ma questa volta in funzione amichevole è la stessa del film di Siegel, e l'impaccio di cui si diceva non mancava in fondo nemmeno alla fredda progenie dei baccelli conquistatori (del resto, Olivier Assayas, Serge Le Peron e Serge Toubiana avevano già espresso il sospetto, a mio parere meno convincente, che La cosa sviluppasse «una situazione analoga» a quella del film di Don Siegel; cfr. l'intervista realizzata per i «Cahiers du Cinéma» e la sua traduzione italiana su «Sequenze»). In ogni caso non c'è chi non veda che le fattezze umane dell'alieno permettono un modello classico dello schermo: la storia d'amore. E.T. era un pupazzo che ovviamente non poteva non aver altro aiutante che un bambino; Starman è invece un uomo con tutti i crismi e deve avere al suo fianco una donna con cui, al momento opportuno, fare addirittura l'amore.

Ma ci sono altre frecce all'allusivo arco di Carpenter. Il suo protagonista è infatti anche una specie di Zelig che, non sapendo nulla della Terra, ripete esattamente quel che vede e sente: dunque, con i duri farà il duro, con i delicati il delicato, prenderà lo strascicato accento del Midwest o riderà assurdamente perché il suo modello originale – il marito morto della coprotagonista – era stato colto col sorriso sulle labbra dalla macchina da presa. In certo senso Starman è persino il corrispettivo, sempre in positivo, della “cosa” carpenteriana: come lei assume le forme che vuole, come lei ci fa assistere a una in se stessa impressionante metamorfosi, come lei è pressoché imprescindibile. La differenza è che lui non vuole far del male a nessuno, e che anzi qui sono i terrestri ad assolvere la funzione della Cosa presentandosi prima con un volto (l'amicizia del messaggio del Voyager II) e poi con ben diverso atteggiamento (la durezza militare con cui i responsabili governativi rispondono alla semplice presenza dell'alieno sulla Terra).

Ma quel che conta è che, almeno dal punto di vista della retorica personale, Starman non è un tipico film di Carpenter. Prima di tutto non rispetta la classica limitazione spaziale che ne aveva caratterizzato gli altri film, presentandosi per certi versi come un road movie. E in effetti, per strano che possa sembrare, Starman può anche essere letto come una sorta di Easy Rider in versione anni 80 (vale a dire, in sostanza, fantasiosa, fantascientifica, cosmica). I due eroi percorrono almeno duemila chilometri di un'America che si presenta secondo non poche sue facce. Sono facce questa volta meno folkloristiche, meno colorate di quelle del film di Hopper, ma non di meno sono pur sempre i volti – alcuni noti – della nazione, una nazione tesa fra il bene e il male, la violenza e la comprensione umana. Sarebbe infatti troppo facile trarre da Starman l'ovvia morale: la Terra non è ancora pronta a ricevere alieni dai poteri superiori, i terrestri sono ancora troppo impulsivi, animaleschi, “naturali” per poter avvicinare forme altamente sofisticate di ragione e scienza (anche se, come dice l'alieno, «voi date il meglio di voi stessi nelle situazioni peggiori»: un commento degno della filosofia trekkiana nei confronti della razza umana). No, Starman è un film leggermente più complesso di quanto non sembri di primo acchito. In particolare, se da un lato c'è l'ufficiale governativo con i suoi soldati e il cacciatore con i suoi violenti amici, dall'altro c'è non solo l'esperto di ufologia, ma soprattutto individui anonimi, generosi e gentili come la padrona della tavola calda, il midwestern che dà il passaggio all'alieno, il giovane che aiuta la ragazza con la sua automobile (questo, a dire il vero, sin troppo gentile e generoso: tutta la parte del blocco stradale, della bomba di stoppacci e della fuga diversiva del ragazzo – per quanto certamente fondamentale perché la storia possa proseguire – suona francamente un po' falsa): È quest'ultima America (o la Terra), che conta: dopo averla incontrata l'extraterrestre non potrà più pensare al nostro pianeta come a una giungla di scimmioni. Saremo magari indietro scientificamente e razionalmente, ma il cuore – un cuore che batte in sintonia con quello del cosmo – via, all'uomo della strada non manca.

E dal momento che qui non si tratta genericamente di Terra ma di Stati Uniti, be', viene spontaneo pensare a Starman come a una glorificazione dell'uomo comune, della sua generosità verso gli sconosciuti, i bisognosi, i “dimenticati” per dirla col titolo affibbiato dalla distribuzione italiana a un noto, bellissimo film di Preston Sturges. Il personaggio della padrona della tavola calda non è poi tanto diverso da quello del tizio che si impietosisce di Joel McCrea e Veronica Lake e permette loro di fare colazione nel suo bar senza pagare.

Dove sono allora le zone buie, i fantasmi, i misteri tipici di Carpenter di cui parla giustamente Claver Salizzato? Il mistero di Starman odora più di cristologia che di gotico (ma bisogna dirlo sottovoce o il Vaticano se ne accorge, lancia una campagna e fa ritirare anche questo film): il protagonista che opera miracoli sui cadaveri di un cervo e di una donna, sì, ma anche l'inseminazione della ragazza, a metà fra lo Spirito Santo e il più pagano mito di Danae (talché si può dire che la fecondazione avviene durante l'amplesso non più che al momento del distacco quando una sorta di pioggia d'oro cade leggera dall'alto sulla donna che guarda in su verso il luogo degli dèi – il quale, naturalmente, non è solo, appunto, in alto, ma è rotondo come ogni geometria sacra che si rispetti; sull'immagine sacra della Sfera – che è poi non a caso la stessa consegnata dal protagonista alla ragazza perché a suo tempo la consegni al figlio, il quale «saprà cosa farne»: ulteriore indicazione della natura sacra di questa prole – la bibliografia è sterminata; mi limito a citare René Guénon, Il simbolismo della croce, e Gilbert Durand, Le strutture antropologiche dell'immaginario).

Una cristologia così tradizionale che non si sa quale dei due – il padre o il figlio – sia il vero Messia. Il giovanotto cui presumibilmente la coprotagonista darà la luce sembra chiamato a un compito non da poco, quello di “uno che insegna”, dunque un Maestro. Egli avrà nella mente tutte le cognizioni del padre, ma al tempo stesso sarà ovviamente diverso da lui, se non altro perché generato da donna mortale. Dal cosmo ecco allora che è arrivato qualcuno che reinscena il mito della salvezza, ecco insomma un film a tema soteriologico. Carpenter non ne aveva mai fatti, ma va bene così. Va bene, cioè, che il suo Dio (o Cristo che sia), balbetti confusamente le parole della Terra, si muova come un robot e scimmiotti chiunque gli capiti a tiro. Questo, fortunatamente, è un dio umano. Anche se il pubblico in sala ride contento dei suoi impacci non cogliendo la malinconia che Carpenter suggerisce in questa sua riflessione – per una volta – non più sulla natura del misterioso, del fantastico, del pauroso, ma su quella, in fondo non poco dolorosa, di ciò che è umano.

 

«Cineforum» n. 326, luglio/agosto 1993

 

Terun! Storie di emigranti

 

Demetrio Salvi

 

Il David Bowie de L'uomo che cadde sulla Terra è un ottimo prototipo dell'emigrante interplanetario: si “fugge” dal proprio paese, dalla propria regione, dal proprio stato e, al limite, dal proprio mondo, magari allontanandosi di parecchi anni luce. C'è un'urgenza, alle spalle che ci spinge ad andar via: è un'urgenza vitale, alla quale non si può rinunciare. Emigrare, accettare il rischio che comporta il nuovo mondo che andiamo a esplorare. Siamo degli intrusi, ci aspettano momenti difficili, e difficili saranno i rapporti che andremo a intrattenere. In agguato ci sono i nostri sentimenti (quelli di noi emigranti), i nostri e quelli degli altri. Anche in Starman (John Carpenter docet) la posta in gioco è alta: andar via dal proprio luogo di nascita per fecondare altrove, per espandere il proprio corpo, il proprio organismo in un luogo, in un territorio distante. La storia di un emigrante è sempre una storia triste, fatta di rinunce spesso violente e sempre dolorose. Sembra quasi che tutto il cinema americano sia dominato da questo elemento: la frontiera, l'Ovest da invadere, il mito dei territori e dei sentimi selvaggi da esplorare. Migrare, trasferirsi da un continente all'altro, fare esperienze nuove, magari volgari, indecenti. Emigrare, lasciare ciò che si conosce, abbandonare la propria casa, molti degli oggetti che ci appartengono, perdere il senso delle cose a noi vicine, ricostruire spazi che credevamo saldi. Assenza di un centro. Domina la nostalgia, come in tutto il cinema: ogni film non può fare a meno di possedere in sé il germe noioso della nostalgia: almeno questo condivide il cinema con il concetto di “emigrazione”. Spostarsi, finire in un sogno (lo spettatore emigra continuamente: muore per poi risorgere altrove). Emigrare perché esiliati. Emigrazione come fatto politico. […]