Abbas Kiarostami su Mubi

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Prosegue la collaborazione tra Cineforum e Mubi, la piattaforma streaming di cinema di qualità che offre ai lettori di Cineforum 30 giorni di esplorazione gratuita dei suoi programmi. Questo mese, insieme ad altri titoli del maestro giapponese Ozu Yasujirō e a un assaggio dei fratelli Dardenne e del regista svedese Ruben Östlund, comincia su Mubi l’importante omaggio dedicato ad Abbas Kiarostami.

Vi proponiamo la recensione di Angelo Signorelli di Sotto gli ulivi, diretto da Kiarostami nel 1994, apparsa su «Cineforum» n. 355, giugno 1996.


Sotto gli ulivi

Uno non penserebbe mai di poter ambientare un film-saggio sul cinema in una terra squassata dal terremoto, tanto lontana come può esserlo una zona interna dell’Iran. Eppure Kiarostami l’ha fatto, con la solita delicatezza, con la solita semplicità, con il solito linguaggio fatto di discreta attesa, di paziente lavoro attorno a personaggi “veri”, di progressiva scoperta delle infinite possibilità narrative contenute anche nella realtà apparentemente più immediata. Perché soprattutto di questo si tratta: rovistare dentro la propria fedeltà al realismo, ai drammi quotidiani, per vedere che, in fondo, anche qui si apre una voragine poetica, una immensa distesa di rappresentazione. Dove ad essere protagonisti sono il cinema stesso, la messa in scena, la fatica a costruire la verosimiglianza anche quando si voglia partire da ciò che è veramente successo, il paradosso di voler fermare una realtà in continuo mutamento, l’imprevedibilità di questa stessa realtà davanti alla coerenza voluta dalla finzione. In una terra lontana, in un paesaggio con tanti alberi e alcune case distrutte, dove la terra ancora domina con i suoi colori e il mattone è l’unico elemento di costruzione, il cinema va a proiettare le sue ambiguità, va a misurarsi con la “povertà” del profilmico, come a voler ritrovare, nell’estrema riduzione dell’artificio, i modi della sua natura linguistica. Di fronte ad una riconoscibilità universalmente condivisibile, il cinema riesce a smuovere il riflesso, facendo sì che la realtà si trasformi in racconto, che l’oggetto diventi elemento scenografico, che il punto di vista mostrato scivoli nella trasparenza.

Ma il tutto è trattato con un movimento di andirivieni, di spostamento continuo tra il dentro e il fuori, tra lo svelamento della finzione e un suo temporaneo ritiro dietro l’occultamento di sé come parte della storia del film. Rimangono cioè forti, in questo gioco delle sostituzioni, le situazioni fisiche del mondo esterno, anche se, come si vedrà, verranno profondamente trasformate dallo sguardo di nuovo “assoluto” di Kiarostami. Il quale, pur affidando la propria immagine alla figura del regista che interpreta il film, in realtà non si identifica con esso, ma tiene per sé la funzione dell’osservatore principale e insieme di organizzatore della geometria visiva. Così mescola oggettività e soggettività, registrazione e ricostruzione, rispecchiamento e invenzione.

Si potrebbe dividere Sotto gli ulivi in cinque capitoli. Capitolo primo o del cinema-verità. Il film infatti inizia in maniera chiaramente documentaristica: un attore parla davanti alla macchina da presa, dice il suo nome e dichiara che sarà lui ad interpretare il regista che girerà il film nella regione del Koker, 350 chilometri a nord di Teheran, sconvolta dal terremoto appena un anno prima. In compagnia della segretaria di produzione, visita un gruppo di fanciulle, in una scuola ricostruita, per scegliere la giovane protagonista del film. La macchina a mano segue la ricerca, le risposte all’occhio meccanico hanno tutte il carattere della spontaneità e dell’immediatezza. Ai titoli di testa segue il viaggio della segretaria di produzione verso la casa della protagonista principale, Tahereh, viaggio che si traduce in una visione ambientale, in una prima descrizione del paesaggio del film. Un lungo piano-sequenza con la macchina da presa posta davanti al veicolo, che rimane invisibile. Ci sono in questa prima fase alcune indicazioni esplicite: approccio realistico, interpreti non professionisti, suono in presa diretta, utilizzazione di un evento forte da poco accaduto per dare maggior concretezza alla vicenda, racconto apparentemente in tempo reale, utilizzazione sincronica del piano-sequenza, sguardo documentaristico sui luoghi prescelti: macerie ai lati della strada, case distrutte, tende, un gregge che costringe il conducente ad una brusca frenata. Tutto sembra osservato nel momento in cui accade. Falso! Troppe coincidenze, incontri casuali sospetti: due attori già visti, il maestro e il bambino di un altro film di Kiarostami, Dov’è la casa del mio amico?

Capitolo secondo o della rappresentazione del set. La troupe tecnica è al suo posto. Si gira la scena. Campo medio di una casa, malconcia ma ancora in piedi nonostante il terremoto. Un giovane sale la scala dopo aver salutato una persona seduta lì vicino. Arrivato in cima si siede: fuori campo una voce femminile lo saluta nel modo tradizionale, lui dovrebbe rispondere, perché queste sono le disposizioni del regista, ma non succede nulla. Silenzio. Il regista comanda il cut: più volte, perché la storia si ripete. Il mistero alla fine viene svelato: il giovane diventa balbuziente quando deve parlare a una donna. Bisogna rifare tutto daccapo.

Comunque già qui le cose cominciano a complicarsi. Il rapporto tra campo e fuori-campo è un pozzo senza fondo; nel nostro caso la macchina da presa fissa non fa che dilatare la zona non vista rispetto a quella vista. Lo spettatore stesso viene richiamato nella figura del personaggio seduto il quale a sua volta non può vedere quello che succede sopra di lui. In più ci si potrebbe chiedere se l’inquadratura della casa sia anche l’inquadratura della macchina da presa realmente presente e che di tanto in tanto è visibile in controcampo, o se, invece, sia una prima intromissione di Kiarostami nella costruzione della rappresentazione. Sta di fatto che qui c’è una prima svolta significativa: narrare la realtà vuoi dire organizzarla, selezionarla, riprodurla, scegliere la ripresa più conveniente; in poche parole interpretarla, manipolarla, trasformarla. Tenendo comunque conto che la realtà non è facilmente malleabile, e che, parafrasando Aristotele, ha tutto il carattere dell’irriducibilità rispetto a qualsiasi strumento che la voglia spiegare. Se poi ci mettiamo anche l’imprevedibilità, come nel nostro caso, avremo sì la consapevolezza di una sostanziale e feconda dialettica tra realtà e rappresentazione, ma allo stesso tempo percepiremo la distanza irriducibile tra le due entità. L’assunto realistico comincia a vacillare. E arrivano nuove sorprese. Il giovane di prima viene sostituito da un suo coetaneo di nome Hossein ma ora è la ragazza che si rifiuta di rispondere.

Capitolo terzo o dell’importanza della parola. Il regista-attore e Hossein sono in macchina; alle richieste di spiegazione il giovane racconta la sua storia con la ragazza. Una storia lunga, che ha inizio prima del terremoto, quando i due abitavano uno di fronte all’altro. Hossein decide subito di sposare Tahereh e racconta nei minimi particolari la sequenza dei rifiuti alla sua proposta e la continuità della sua insistenza. L’ultimo incontro con l’impermeabile reticenza della ragazza è avvenuto proprio nelle vicinanze del set del film al quale anche lui si appresta a partecipare. A questo punto dell’esposizione succede un fatto inaspettato: le situazioni richiamate dal giovane prendono vita, diventano immagine, si concretizzano in flashback.

La narrazione verbale slitta in quella cinematografica; Kiarostami si intromette di nuovo per raccontare lui, in prima persona, la storia di Hossein. Il regista iraniano sente il bisogno, ogni tanto, di riportare a sé la materia dell’espressione. I personaggi possono avere quella vita che solo il regista, quello vero, concede loro. Così la storia può andare in tante direzioni, trovare altri personaggi, ma solo finché il regista lo consente. Lui può dare l’impressione di lasciar fare, di lasciare che l’attore si impadronisca della macchina da presa, ma questo è consapevolmente visto come un ulteriore elemento di messa in scena. Un film sul cinema si costruisce anche su tali ambiguità: deviazioni di senso cambiamenti espressivi che aprono alla ricchezza della costruzione linguistica.

Inoltre avviene, in questa parte del film, un altro fatto molto importante: l’auto del regista e quella della segretaria di produzione si incontrano e per la prima volta i due giovani si trovano faccia a faccia. Per la prima volta la loro storia d’amore entra come tale, “in presa diretta”, nel racconto del film: proprio perché, nella figura classica ma efficace del campo/controcampo, scambiano i loro sguardi. E un momento di sospensione e di silenzio e insieme di grande tensione; quanto prima era stato affidato all’enigma del fuoricampo ora diventa un elemento dominante del racconto ed anche gli accadimenti sul set, così come l’alternanza dei punti di vista, non saranno più gli stessi.

Capitolo quarto o della finzione. Di nuovo il set di prima, di nuovo la casa in campo medio, lo stesso personaggio ai piedi della scala. I due giovani si sono finalmente decisi a ripetere le battute previste dal copione. Questa volta la scena inizia con entrambi fuori-campo: lui ha bisogno delle scarpe e dei calzini e scende per cercarli. Il solito personaggio, paziente spettatore, accenna al loro matrimonio. Semplice ironia della sorte? Hossein racconta che si sono sposati cinque giorni prima, solo un giorno dopo il terremoto. L’uomo gli chiede quante persone ha perduto a causa del sisma. Il ragazzo dice 25 ma il regista insiste perché dica 65. Non c’è niente da fare: lui ha perso realmente 25 familiari, non 65. Non capisce perché debba dire diversamente: la ridondanza della finzione deve cedere alla verità di ciò che è realmente accaduto.

Secondo passo indietro dell’artificio: le riprese si interrompono perché le nuvole – Rossellini docet! – hanno oscurato il Sole. Kiarostami ne approfitta per riprendere la storia tra i due ragazzi, il loro rapporto fuori dal set. La scena cambia, ora siamo nella parte superiore della casa, quella che non vedevamo prima. Tahereh sta leggendo il suo libro dal quale non distoglie lo sguardo, Hossein è appoggiato al muro e comincia a parlare. Soggettiva del ragazzo che osserva, dalla balaustra di legno, la troupe impegnata a risolvere alcuni problemi tecnici; il suo sguardo studia la situazione per capire se c’è il tempo per parlare con la donna di cui è innamorato. Decide che si può fare e inizia una lunga disquisizione: il senso del discorso è che lui non si comporterà nei suoi confronti come il marito che sta interpretando. La ragazza continua a leggere e non dice nulla. Ora i due sono inquadrati di fronte: le riprese possono ricominciare, ma l’inquadratura non cambia. Kiarostami “cede” la sua immagine all’attore-regista e in questo modo fa montare ancor più la loro storia d’amore. Quando il ragazzo scende le scale per cercare i calzini, la scena ritorna quella voluta dal set. Ma ormai la vicenda della realizzazione del film passa in secondo piano. Infatti, non appena le riprese si interrompono per il cambio della pellicola, si ritorna di sopra. Hossein ricomincia a parlare: vuole da lei un cenno di assenso, ma invano. Quando si ricomincia a girare la macchina da presa è ancora ferma su di lui; il punto di vista del set è ormai del tutto trascurabile. L’attenzione è diretta a come si svilupperà il rapporto tra i due giovani.

Capitolo quinto o del predominio della messa in scena. Il set è stato smontato. Tahereh si avvia a piedi verso casa. Anche il regista-attore ha capito che la storia tra i due deve arrivare a una conclusione e invita Hossein molto esplicitamente a fare una passeggiata. E la lunga sequenza finale. Stupenda! Un vero e proprio inseguimento: lo spazio e il tempo che si allargano e raccontano il dubbio e l’angoscia, ma anche la speranza e la felicità; la musica che suggerisce e accenna allo scherzo. Quante cose si possono leggere in un campo lunghissimo, con l’inquadratura che dura a lungo, con i codici che si affollano, con il senso che si ramifica come la trama di un tappeto. E ciononostante con dentro la coscienza della limitatezza – quanto mai feconda nella loro assoluta diversità – del linguaggio e della forma.

Una corsa verso l’ultima occasione in un mare d’erba mosso dal vento, la distanza come rispettoso affidamento alla continuità della vita. Tutto può accadere fuori dal set. Non sapremo mai se e cosa Tahereh abbia detto a Hossein; lui ritorna dei suoi passi e scompare “attraverso gli ulivi” – qualcuno ci dovrà pur spiegare perché in Italia il titolo è diventato “sotto gli ulivi”. Kiarostami tiene per sé l’ultima parola, abbandona il punto di vista del regista-attore e, dall’alto, osserva le sue creature, quelle che sono diventate i veri protagonisti del suo film, mentre realizzano un brevissimo incontro, dopo tanta fatica: l’ultimo atto di un conflitto acerrimo tra un mutismo tetragono e una verbosità ossessiva.