L'avvocato McCoy (Sam Waterston), già studente dei gesuiti, in una puntata della serie tv Law & Order afferma: «Essere stati educati dai gesuiti ti rende estremamente ligio alle regole, oppure completamente ribelle, senza nessuna via di mezzo». Cinquecento anni fa esatti, il capitano Íñigo López de Loyola gettava le armi alle ortiche, per poi prendere i voti e, successivamente, fondare la Compagnia di Gesù. I gesuiti al cinema hanno spesso trovato chi ne mettesse a fuoco il côté controriformista, allineato all'ortodossia e al potere ecclesiastico (memorabile il «Sempre più allegri voiartri, eh?» rivolto ai colleghi gesuiti da Monsignor Colombo/Nino Manfredi in In nome del papa re di Gigi Magni), o al contrario ne celebrasse la vocazione missionaria, quasi terzomondista ante litteram (Mission di Roland Joffé; Silence di Martin Scorsese). Due grandi registi come Alfred Hitchcock e Luis Buñuel, da piccini, sono stati studenti presso scuole della Compagnia di Gesù, e non possiamo dimenticare che lo stesso Burlador di Calanda ha inserito, nel suo laico-teologico La Via Lattea, un duello letteralmente in punta di fioretto fra un giansenista e un gesuita settecenteschi, ça va sans dire sul tema della Grazia. «Cineforum», pubblicò la recensione del film sul n. 84, aprile 1969, in uno speciale arricchito da uno scritto di Michel Estève, da dichiarazioni dello stesso Buñuel, dello sceneggiatore Jean-Claude Carrière e dello scrittore Jean de Baroncelli, e dalla trascrizione integrale dei dialoghi del film. Riproponiamo qui la recensione di Sergio Gabrielli.
Possiamo rilevare che il racconto filmico tende a infrangere la distinzione fra piano reale e piano immaginario dei fatti, per trasformare tutta la storia in una sorta di itinerario interiore, mentale o affettivo. A parte il fatto che i salti di spazio e di tempo non destano stupore nei due viandanti, ci sono varie prove che provocano la lievitazione del racconto in una dimensione irreale: la contemporaneità di personaggi e situazioni separate nel tempo (i priscilliani, il gesuita e il giansenista, gli studenti che dal 500 entrano in un'epoca attuale, eccetera); l'incarnazione di esseri non materiali (il Dio Padre, il diavolo, eccetera); la bilocazione del curato spagnolo (ora fuori, ora dentro la stanza dello studente); l'intrusione, nel bel mezzo della realtà, di episodi remoti (i brani evangelici, il marchese libertino).
La scansione del racconto poi non è coordinata, come generalmente accade nei film tradizionali, da personaggi protagonisti, sui quali possa basarsi l'ossatura del racconto in funzione strutturale. I due viandanti, s'è già detto, servono ora come filo coordinatore spesso esilissimo (si pensi al lungo brano degli avvenimenti del contado di Burgos), ora anche essi da elementi espressivi al pari di altri personaggi. Il fatto però che all'inizio e alla fine (la profezia e il suo avveramento) abbiano uno spiccato peso narrativo, non è da trascurare. I due episodi costituiscono infatti una sorta di “cornice” al resto della storia (con esclusione dell'epilogo evangelico che, pertanto, acquista un'importanza particolarissima). Ci sembra cioè che il loro viaggio, che approda al nulla, diventi emblema dell'itinerario storico, altrettanto sterile, percorso dalle controversie dogmatiche.
Entro questa “cornice” si succedono situazioni eterogenee spesso legate per associazione di idee o per affinità d'argomento (per esempio la scena del libertino settecentesco anticipa l'affermazione del maître sull'identità fra ateismo e dissolutezza, le nozze di Cana dimostrano la fisicità del corpo di Gesù eccetera). Manca quindi una vera unità di costruzione narrativa sul piano della successione dei fatti. Tuttavia il film trova egualmente una sua armonia strutturale pur non mancando qualche pleonasmo, soprattutto al termine della notte nella locanda spagnola e la trova in forza d'uno stile sostanzialmente omogeneo. In forza dello stile quindi il film riesce a esprimere una idea tematica, che in definitiva non nasce dal dibattito teologico in se stesso, ma dall'attegiamento emotivo del regista nei confronti di questo dibattito.
Se è consentito il paragone inadeguato, diremo che il film ha una struttura simile a un agglomerato cristallino pieno di irregolarità e di sproporzioni, il quale però trova una sua unità e bellezza in forza della luce che lo valorizza.
Lo stile antinaturalistico del racconto e la scelta di episodi che, come abbiamo visto, suscitano atteggiamenti ora di ripulsa (il saggio scolastico delle bambine, il duello a Bayonne), ora di rispettosa considerazione (il diavolo mesto, la suora crocifissa, la devozione a Maria eccetera) ci inducono a ritenere La via lattea una sorta di “ricerca del tempo perduto”, una riflessione attenta e talvolta commossa su quella radice cattolico-spagnola appassionata, fantasiosa, fosca, sentimentale che ha lasciato nell'autore un segno incancellabile.
Giunto sulla settantina Buñuel si ripiega su se stesso e riconosce con sovrana libertà di spirito che il cattolicesimo, proprio perchè fondato su dogmi ora sublimi ora indecifrabili e perchè animato in tutta la sua storia da lacerazioni, contrasti, adesioni fideistiche, merita d'essere considerato come una delle massime avventure della civiltà europea e quindi di quanti in questa civiltà sono nati e cresciuti. La storia della teologia cattolica diventa per Buñuel una sorta di “luogo dell'anima”. Egli non s'è convertito, anche se alla pari delle tesi eterodosse, rispetta Cristo, la Madonna e tutti i dogmi della Chiesa; semplicemente è diventato più rispettoso delle idee altrui: meglio, meno crudele con se stesso, rinunciando egli qui a infierire sul suo insopprimibile “habitus” cattolico. Il film pertanto non è affatto un trattato di storia delle eresie e nemmeno una satanica, sotterranea, irrisione del cattolicesimo: per farne un'opera storica o a tesi Buñuel sarebbe dovuto partire da una base razionalmente e metodologicamente solida, o da un passionale partito preso come aveva fatto in Nazarín, Viridiana e Simón del desierto.
La Via Lattea è un film sgorgato dal sentimento ma non dall'abbandono sentimentale. Forse mai il regista è riuscito a essere come questa volta sobrio, misurato, equanime. Del consueto gioco di una ambiguità cifrata e sfuggente (si pensi a L'angelo sterminatore e a Bella di giorno), nemmeno la traccia. Tuttavia egli non nasconde leggeri moti di simpatia e antipatia. Porremmo dire che grosso modo gli danno fastidio la saccenteria dogmatica e formalistica di chi dimentica sul piano pratico la carità verso il prossimo come il maître, il controversismo come gioco intellettuale dei due duellanti settecenteschi, le aberrazioni del fanatismo che induce a disseppellire un cadavere, o a far recitare astrusi anatemi a bimbe inconsapevoli. All'opposto aderisce con simpatia a quanti pagano di persona per le proprie convinzioni teologiche o aderiscono a esse anche se puerilmente come i personaggi della taverna spagnola con tutto se stessi, senza restrizioni. Forse Buñuel, ateo convinto, lascia trapelare qui una nostalgia per questa fede dei semplici, che egli non ha. Ad avvalorare quest'ipotesi d'una impotente nostalgia viene in aiuto, ci semba, l'epilogo dei due ex ciechi di poca fede, a bella posta messo quasi fuori del racconto filmico vero e proprio, come su un piedistallo. La fede è un salta nel vuoto e l'uomo (compreso l'uomo Buñuel) è restio ad abbandonare i propri deboli ma rassicuranti sostegni, anche se una illuminazione vera (come è vero il riacquisto della vista dei due) indurrebbe a osare.
Se la vasta e rigorosa documentazione dogmatica, coordinata con chiarezza e multiformità, dimostra la poderosa maturità intellettuale del regista, la resa espressiva documenta una freschezza fantastica e un'audacia che non si sospetterebbe in un settantenne. Il film non è un'opera d'arte compiuta, anche se l'ispirazione mira all'espressione poetica anzichè alla dimostrazione razionale d'un assunto. Non ci pare che lo stile riesca, in forza d'una sorvegliata cadenza ritmica e d'un'atmosfera lievemente giocosa o picaresca, ad avere ragione del tutto sulla debolezza strutturale del racconto. Ma la materia a volte si trasfigura veramente. Basta il duello fra il giansenista e il gesuita, dove attacchi, parate e stoccate traducono visivamente il duello intellettuale e dove si inserisce, come un controcanto demistificatore, il commento dei due pitocchi “padrini”, per aver conferma della poderosa ispirazione del regista.
È nella resa stilistica che si rivela lo spirito spagnolo di Buñuel. Il regista ha moderato qui l'inflessione sanguinaria, beffarda, macabra e ruvidamente popolaresca che contrassegnava vistosamente certi suoi film precedenti (basti pensare soltanto a Viridiana). In essi però riconoscevamo qualche forzatura di tono che dava l'impressione del gusto un pò artificioso di épater les bourgeois. In La Via Lattea i caratteri “spagnoli” sono più attenuati e quindi più genuini. In particolare ci è sembrata pregevole una nota picaresca quasi continua (legata alle figure dei due viandanti), ma non sguaiata. E abbiamo apprezzato soprattutto certa sana atmosfera paesana che conferisce ad ambienti e personaggi rustici una persuadente e sfumata verità umana.
Il film è raccontato con distensione (quasi sempre per il “gusto di raccontare”) e con sobrietà di scelte formali. A evocare un'epoca storica e un clima psicologico basta poco: un colore torbido per i priscilliani, una figurazione rigida per l'Inquisizione, costumi e impasti cromatici da oleografia sacra di second'ordine per le evocazioni evangeliche (omaggio, questo, alla formazione cattolica dell'autore, e non insinuazione ironica). Nel film non mancano verbosità, ma quasi sempre l'incalzare della parola diventa felicissimo mezzo espressivo in senso cinematografico: il vertice dello sfruttamento del dialogo è raggiunto dal citato duello; ma si pensi anche al tono mondano del maître, al miracolo della Vergine raccontato dal pacioso curato spagnolo, e così via.
Ma la vera novità stilistica di La Via Lattea si riscontra sul piano della costruzione narrativa: una costruzione che nasce dall'altra grande matrice buñueliana, il surrealismo. Con stupefacente perizia e funzionalità il regista riesce a rendere compresenti piani cronologici (attualità e passato) e fisici (esseri umani e sovrumani) diversi, riuscendo così a tradurre visivamente una dimensione non reale, bensì immaginaria, con mezzi semplicissimi (con una elucubrata operazione di montaggio aveva raggiunto analogo risultato Alain Resnais in L'anno scorso a Marienbad). Il procedimento non è inedito: Ingmar Bergman lo aveva adottato in Il posto delle fragole, nelle brevi scene in cui il vecchio protagonista assiste non visto a episodi dell'infanzia. Ma a Buñuel spetta il merito di averlo applicato, in dimensioni che abbracciano tutto il film, già in Bella di giorno. E con La Via Lattea va oltre nella scoperta, rispetto al film precedente, magistrale ma un pò troppo levigato e salottiero: qui la fusione fra reale e irreale comprende un'eterogeneità di elementi che si direbbero fra loro inconciliabili e restii – tanto sono spesso corposi – ad assumere una levità irreale.
A nostro parere Buñuel ha raggiunto quest'esito stupefacente mettendo a frutto gli insegnamenti del surrealismo. Da quell'esperienza gli è venuto probabilmente il suggerimento di accostare gli ingredienti più diversi per creare appunto una sovrarealtà narrativa. Naturalmente in una chiave diversa da quella usata in gioventù per L'âge d'or e Un chien andalou, che erano fortemente legati alle soluzioni delle arti figurative. E – dopo i tentennamenti degli anni 50, quando inseriva estemporaneamente immagini surreali in contesti narrativi sostanzialmente realistici, come per Los olvidados – ha avuto l'intuizione di rendere “surrealistico” l'impianto del racconto. Il cinema così non deve più invidiare alla letteratura il “metaromanzo” e affini.
Un film inquietante
Non possiamo negare che al di là del valore artistico, La Via Lattea assume un rilevante interesse culturale. Abbiamo detto che si tratta d'un film “privato”, ma nel contempo dobbiamo ammettere che può essere visto anche – come ha scritro Raniero La Valle su «La Stampa» – quale «fenomeno di contestazione religiosa». Precisiamo però che Buñuel a nostro parere non contesta, non vuole mutare nulla all'interno della Chiesa. Ma per certi aspetti – per esempio nella requisitoria contro il formalismo dogmatico messo in crisi dal Concilio Vaticano II – può offrire argomenti facilmente estrapolabili dal suo film, in aiuto ai contestatori.
Per il pubblico nostrano, per lo più del tutto all'oscuro – un po' a causa di quel formalismo dogmatico rimproverato da Buñuel – delle questioni dibattute, La Via Lattea, quantunque affascinante, può risultare ostico; e scomodo per chi non voglia riflettere sul proprio credo. Il film non si presta certo, come testo ortodosso, per un'informazione dei dogmi o delle eresie. Ma ci sembra un serio documento umano, degno di essere preso in considerazione da chi voglia riflettere sull'incidenza appassionante e nobile, nell'esistenza umana, della ricerca, del dubbio, della certezza, della scoperta e dell'errore.