Nel gennaio del 1633 Galileo Galilei si dirigeva a Roma per affrontare il processo di fronte all'Inquisizione. Per una curiosa coincidenza, il 12 gennaio del 2023 si festeggia il compleanno di Liliana Cavani che a Galileo dedicò, nel 1968, il suo secondo lungometraggio. Ricostruzione storica e biografica rigorosissima, che affronta un argomento del passato ponendo allo stesso tempo attenzione e interrogativi sul presente, il Galileo di Liliana Cavani, come tutte le altre opere della sua Autrice, è un film che è sempre un piacere tornare a rivedere, sia per la mente che per gli occhi. A Galileo «Cineforum» n. 78, ottobre 1968, dedicò uno speciale con una lettera della stessa regista, una recensione a cura di Italo Moscati (che qui riproponiamo entrambe) e i dialoghi completi del film. Rimandiamo inoltre alla bellissima intervista che Liliana Cavani concesse nel 2021 al Convegno della Federazione Italiana Cineforum, riportata integralmente sul sito web della FIC stessa.
Gentile Direttore di Cineforum,
Lei mi ha chiesto cortesemente una mia nota sul “mio” cinema… Una tentazione che sarà bene vincere. Infatti, che cosa potrei avere da dire che non sia possibile trovare in quel poco che ho fatto? Quando un film è terminato esso si stacca dall'autore quasi secondo un processo di desquamazione dell'autore stesso come avviene alle lucertole (che sia per questo che poi un'opera è sempre inferiore – è una pelle soltanto – alle intenzioni e belle note sul suo autore?). Il film se ne va per conto suo e dell'autore non ne ha più bisogno, anzi quando interviene è quasi sempre fuori strada, disorientato dalle sue stesse ambizioni. Oltretutto l'autore è sempre il peggiore commentatore di un film, il meno sincero e tende in genere a fare la parte della gallina che si rimangia l'uovo pensando di farne subito un'altro più grosso. Per imperfetto che sia un film, esso è sempre migliore delle intenzioni che verrà a raccontarLe l'autore, che tende quanto meno a mistificare con il definire, lo spiegare, il distinguere, il rispiegare.
Talora vi è costretto, si fa per dire…, lo invitano insistentemente. Talora non si capisce bene se per caso non sia egli stesso a gradire di fare questa parte attuando un'inconscia vendetta nei confronti dell'attore protagonista che “usurpa” il trono del regista, il quale inconsciamente se ne duole e soffre e urla dietro le quinte perchè vuole uscire e dire all'attore «Fatti in là perché ci sono io, sono Io, IO!». Delirio della personalità piuttosto frequente oggi tra registi di cinema come di teatro. Vorrei, nel limite del possibile, astenermene. Vincere la tentazione di scrivere anch'io il mio manifesto-io, o manifesto-Cavani. È duro vincere la tentazione di incidere con le proprie mani, con l'inevitabile commozione che ispira la musa del caso, il proprio epitaffio d'autore, un epitaffio che oggi si usa scrivere lunghissimo come quello in morte di un Faraone, inciso su metri e metri di porfido. Me ne astengo ora…, forse cederò alla tentazione più in là visto che lo fanno tutti, accidenti.
Quindi, incapace di definirmi per ora et semper – spero – mi sento ancora viva e lontana dai marmi dell'accademia (che è tale anche se vi è iscritto il solo membro fondatore, che ha fissato il suo statuto, regolamenti e disposizioni testamentarie) delle tante accademie – d'avanguardia.
Se riesco a mantenermi alla macchia rispetto ad esse e a mantenermi anarchica verso me stessa, posso sperare di fare del cinema, qua1siasi cinema che mi venga in mente senza dover subire in primo luogo la tirannia del fascino sempre romantico di un epitaffio in memoria di…
Se Lei ci ha fatto caso, ormai gli autori hanno le lingue di ricambio per luogo e circostanza e le tengono in appositi astucci come gli occhiali; lingue veloci e flessuose capaci di sollevare le parole dalle protesi e scagliarle fuori a ritmo ininterrotto: la luce è più veloce del suono come la lingua è più veloce del pensiero.
È bene che finisca. La saluto cordialmente con stima
Liliana Cavani
Esiste una forma di contestazione volta all'oggi, inconsapevole dei rischi che comporta il grado zero della storia, poichè la storia non è come la scrittura della quale Roland Barthes può cercare il grado zero provocando una rivoluzione che resta chiusa nell'ambito di una élite; la storia è un elemento della vita cui apparteniamo, ci attende al varco anche laddove pensiamo non debba esserci, fornisce soluzioni o punti di riferimento; più spesso è un pesante fardello di cose incompiute, dolorose.
[…] Affiora prepotentemente una contestazione che esce dal vago giro del consumismo o che rifiuta d'essere vincolata a uno stretto spazio di giorni. Essa va al di là del momento contemporaneo, cioè dell'opportunità presa al volo, per rimettere in discussione un atteggiamento strutturato nei secoli in maniera tale da poter giovare alle cause più deprecabili; e porta allo scoperto il tradimento degli elementi validi alla base della cultura occidentale, e la sopraffazione compiuta in nome del potere su ogni altra forma di cultura, oltre che il filo nero di una tradizione fortemente conservatrice, se non addirittura reazionaria, ancora vivente. Si tratta, cioè, di una contestazione che scava sul serio per aprire nuove strade. Ad essa, e alla tensione chee l'anima, si salda bene a mio parere, il secondo film di Liliana Cavani. Galileo serve alla regista come personaggio-guida per rivoltare un costume e una mentalità.
Non le serve tanto per commuovere sul triste destino di un uomo che fa lo scienzato quanto per togliere il velo al momento dell'intolleranza e dell'integralismo, vale a dire della falsa coscienza e della superiorità orgogliosa. E non può che essere un monumento sepolcrale: ecco, dunque, una chiesa che fonda la ragione della sua presenza sui marmi gelidi, pesanti, anzichè sulla testimonianza coraggiosa del Vangelo. S'alza così nel film un robusto grido di indignazione per una realtà troppo diversa rispetto al messaggio cristiano. La “conversione” conciliare ritarda, e la Cavani sente l'urgenza di affermarlo senza tuttavia rompere fìno in fondo, nella speranza, forse, che il mutamento può avvenire una volta seppelliti dalla polvere i simulacri della potenza. Vengono alla mente le parole di don Rosadoni: «La chiesa non si manifesta affatto come il popolo di Dio ma come un centro di potere che ribadisce in pratica la schiavitù alle leggi, la meccanicità della preghiera, la confusione tra fede e politica, i privilegi dei ricchi. Si è stabilito così un clima, un'atmosfera che sopraffà le coscienze e contro il quale è impossibile combattere… Se le strutture ecclesiastiche godono di previlegi, di beni, e di poteri, sono con ciò stesso la negazione del Vangelo… Le strutture ecclesiastiche sono la tomba di Dio! È solo al di fuori di essa che Dio potrà riconoscere: in piccole comunità che traducano la tradizione cattolica in termini contemporanei, che antepongano l'obbedienza a Dio alla sudditanza agli uomini anche se sacralizzati, che siano serve dei poveri e non strumenti dei potenti, sempre pronti, nel loro trasformismo. a sfruttare tutto e tutti… È bene che ognuno faccia il suo gioco. Che chi ha scelto il Vangelo faccia in maniera inequivoca il gioco del Vangelo, come chi ha scelto il potere fa il gioco del potere».
Il film di Liliana Cavani, realizzato prima che queste parole comparissero sebbene già partecipe al movimento sospinto dal dibattito conciliare, attinge a una visione molto simile della Chiesa, sebbene alla regista disturbi non poco essere assimilata pacificamente alle schiere dei cattolici di sinistra. Come darle torto? La fronda, come dice ancora don Rosadoni, fa comunque comodo e, se reca fastidio subito, la si potrà recuperare in futuro allo scopo di non rinunciare ad un'ala d'“avanguardia”. Le tecniche all'uopo non mancano. La Cavani respinge il “parlamentarismo” ideologico-religioso, non accettando di fare parte di una opposizione integrata in un gioco previsto e prevedibile. Non presta il suo Galileo agli equilibri interessati, perciò dopo Venezia ha reagito con vivacità alle critiche di una stampa spesso agnostica e distratta, diventata occasionalmente d'estrema cortesia per bilanciare le posizioni di chiusura prese verso l'agitazione dei cineasti dell'Anac.
Nel film, Galileo accusa una cultura rovesciando i termini della questione così come è stata tradizionalmente presentata, cioè una cultura che accusa Galileo e che in questo modo tiene a ribadire la sua legittimità attraverso la durezza. Galileo, trovandosi di fronte a una minaccia di cui definisce col tempo i contorni esatti, scopre che l'attacco al suo pensiero sottointende il tentativo di una violazione estesa al suo essere uomo. Ed è appunto la consapevolezza di ciò a far sì che Galileo non si disponga per il martirio. La ragione lo sostiene nel valutare possibile fino all'ultimo una risposta positiva ai lancinanti interrogativi che lo perseguitano da quando ha compreso d'essere circondato dal sospetto. Tenta di trattare, spera di convincere. Non accetta la realtà in quanto non la conosce, è impreparato ad affrontarla. L'uomo di scienza deve misurarsi con un avversario che si è rivelato d'improvviso. Pensa di poterne fare un interlocutorce e si sbaglia arrivando a scampare il rogo (toccato a Giordano Bruno che, invece, ha scelto lo scontro diretto, la lotta) ma subendo una pena mortificante che lo trasforma in un “morto che vive”. Galileo, difendendo in sè l'uomo, oltre che il pensatore, si ripropone il problema della fede. Davanti a lui, Probabilmente indifferente o insensibile alla religiosità, sorge un mistero da sondare al quale affidarsi. Magari ritorna a sfogliare le pagine del Vangelo e prende a leggerle con un nuovo spirito di ansiosa ricerca. Si lasciava vivere in un “modo cattolico”; la dolorosa avventura in cui viene trascinato lo stimola a guardarlo meglio.
Con gli occhi di Liliana Cavani, Galileo si accorge dei marmi, degli ori, del barocco invadente, dell'ipocrisia e dello sprezzante distacco che appartengono all'ufficialità istituzionale del “mondo cattolico”. Si attacca alla parola evangelica per disperazione, citandola al clero perchè possa agire la forza dei principì. La Cavani, anche su questo piano, porta avanti il discorso avviato con Francesco, il suo primo film dato in televisione. Francesco compie la sua rivolta contro la famiglia, contro la società e le istituzioni, contro i suoi stessi discepoli che pretendono una minuziosa precettistica, insistendo per una autentica “rivoluzione culturale” nel ritorno alla pratica evangelica. Il Vangelo è la “piattaforma” dalla quale parte la rivolta che smaschera le responsabilità dietro le coperture di carattere affettivo, ideologico, religioso. È la fase della provocazione che la Cavani affida a un santo-ragazzo. Mentre, con Galileo, la Cavani indica la nuova fase del rispetto e della tolleranza per l'uomo.
La convergenza si ha nel messaggio evangelico, ripreso da Francesco per inserirlo con un sentimento quasi di sfida nella realtà; e menzionato da Galileo per determinare un polo dialettico mediante il quale svelare la contraddizione di chi ne reclama il deposito e raccomanda la propria interpretazione. Da un lato, dunque, una contestazione rivoluzionaria che invoca un radicale impegno dell'individuo; dall'altro, la contestazione che diventa rivoluzionaria nella misura in cui sostiene l'autonoma dignità della persona nei confronti di qualunque attentato. Si cerca un asse unico: alla necessità di un mutamento profondo deve corrispondere l'affermazione delle scelte personali in una tensione superiore. I film della Cavani nascono nella storia colpendo le strutture fino a oggi in auge e assunte dalla comune gestione di un potere. La struttura del caso Galileo va analizzata perchè il tempo. da solo, non può distruggerla.