Qualcuno, all'indomani della caduta del Muro di Berlino, parlò oltremodo affrettatamente di “fine della Storia”. La Storia invece era lì dietro l'angolo, in agguato come un brigante da strada, con novità più o meno inedite e pelose. Più o meno allo stesso modo, il Capodanno del 2000 pareva essere, nel pio desiderio di molti, la porta per una nuova età dell'oro; poi arrivò il 2 di gennaio e ci si accorse che la vita continuava come prima. Kathryn Bigelow, da par suo, cinque anni prima aveva saputo magnificamente descrivere un Capodanno 2000 molto distopico con un'opera che, come sempre accade con le migliori storie distopiche, ha saputo anticipare molte delle cose che viviamo oggi, alle porte del 2024. Al suo Strange Days, «Cineforum» dedicò un ricco speciale sul n. 352, marzo 1996. Riproponiamo qui l'articolo di Bruno Fornara, approfittando dell'occasione per fare a tutti i migliori auguri di «Cineforum» per il Nuovo Anno, possibilmente meno distopico che nel film di Kathryn Bigelow.
I giorni di Kathryn Bigelow sono strani per molti versi e ragioni. Anzitutto perché prima stranezza, prima sfasatura, forse piccola ma significativa, non sono quelli che tutti pensano siano. Dovrebbero essere, stando a quel che dicono e fanno gli abitanti di Los Angeles e del mondo intero, i giorni della fine del vecchio millennio e dell'inizio del nuovo. In realtà le cose non stanno così. L'anno zero, nel nostro computo del tempo, non è mai esistito. All'inizio dell'era cristiana, siamo passati direttamente dall'anno l avanti Cristo all'anno l dopo Cristo. Nessun anno zero in mezzo. Allora: gli anni dall'l d.C. al 1000 compreso sono quelli del primo millennio e gli anni dal 1001 al 2000 compreso sono quelli del secondo millennio. Il terzo andrà dal 2001 al 3000 e non dunque dal 2000 al 2999: il terzo millennio comincerà alla mezzanotte del 31 dicembre 2000 e non alla mezzanotte del 31 dicembre del 1999. (È il 2001 la data importante, quella del passaggio critico: Kubrick è dal 1968 che ha messo là un film a ricordarcelo.) I giorni in cui tutti pensano, a Los Angeles, di star saltando dentro al nuovo millennio sono, in realtà, quelli in cui si passa dagli anni che cominciano con la cifra l a quelli che cominceranno con la cifra 2: cambia una cifra significativa ma, quanto a millenni, siamo ancora nel vecchissimo secondo millennio. Una bella e rotonda cifra come il 2000 esercita un indubbio fascino; ma non è il 2000 a segnare la nascita (con le paure e speranze che il passaggio si porta dietro) del nuovo millennio. Il 2000 apre la fila degli anni che cominciano con il due ma chiude il millennio della cifra uno. Non è l'alba del terzo millennio. E, anche se nessuno sembra saperlo nella Los Angeles di Strange Days, l'inizio della fine del secondo.
Altra strana faccenda di questi strani giorni: siamo alla fine di dicembre del 1999 ma sembra di essere molto più in là nel futuro. Strange Days ha tutta l'aria di essere un film di fantascienza. In realtà (è la terza volta che diciamo: in realtà) non lo è affatto. Ci sembra di stare dentro un futuro lontano e appena tre anni ci separano da questi giorni. È Strange Days, il film, a darci l'impressione che il futuro lontano è già qui. Come il buio di un altro film (Near Dark) della Bigelow, il futuro si avvicina: si è avvicinato troppo. Strange Days ci toglie il futuro, ce lo schiaccia addosso, ci mostra che non c'è differenza tra lontano e vicino. Film fortemente distopico, non possiamo neppure catalogarlo nella metà oscura del cinema che guarda avanti: Strange Days non guarda per niente avanti, guarda vicino, elimina il futuro. Questa è la fine del millennio, non la nascita di quello nuovo: una molto medievale Morte con mantello e falce danza tra la folla che aspetta il primo anno che inizia col numero due, e questa Morte tiene in braccio il piccolo Duemila. Non soltanto ci vengono negate le finestre utopiche sul futuro: è il futuro stesso ad esserci tolto.
Altra strana faccenda. Che l'io non sia più quello di una volta, sicuro, solido, cartesiano, non è una novità. Solo che, in questi strani giorni che sono appena dietro l'angolo, neppure quel poco che era rimasto dell'io che pensava (dunque, sia pure faticosamente, era) non si sa più di chi sia, a chi mai appartenga. Lo Squid ti spara direttamente nel cervello immagini e sensazioni: non soltanto ti fa vedere quello che un altro ha visto (a questo c'era già arrivato il cinema): ti fa, in realtà, essere l'altro. Io sento e vedo e vivo quello che un altro ha sentito, provato e vissuto. Io sono, tutto intero (anche con le gambe che non ho più), un altro. O un'altra: io, uomo, sono una donna sotto la doccia o una donna violentata e uccisa. Altro che la realtà virtuale: qui ti sparano in testa il reale di un altro, anzi è tutto un altro per intero che ti entra nella testa e nel corpo. (Oppure puoi ritornare l'io che eri e che non sei più: e Nero, grazie allo Squid, può tornare ad avere Faith.) Dall'io penso dunque sono si era passati, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, all'io penso all'altro che sono e che sento dentro di me, dunque sono un io diviso: adesso, grazie alla tecnica, arriviamo, in questo nostro passaggio di secolo e millennio all'io penso e vivo quello che ha vissuto e pensato un altro: dunque io non sono io, io sono un altro, sono di un altro. Nel caos della fine del millennio e della fine di ogni futuro: io non sono, dunque penso, vedo e sento quello che un altro ha pensato, visto e sentito (anche la sua morte). Cartesio si rigira nella tomba. La nuova regola è: io penso quello che un altro pensa dunque non sono; io sono quello che un altro è dunque non sono.
La fine del millennio sancisce la fine del soggetto e della razionalità che sul soggetto si fondava: questa fine trascina con sé anche la fine della soggettiva cinematografica. L'inquadratura in soggettiva, una delle figure fondamentali dell'esposizione cinematografica, una istituzione linguistica di cui lo spettatore sa (sapeva) di potersi fidare, non istituisce più un soggetto agente. La soggettiva del clip iniziale con la rapina al ristorante cinese, la fuga sui tetti e la caduta nel vuoto non costruisce la potente, anche se scomoda, identificazione con un personaggio (come all'inizio del primo Halloween, quando siamo, tutto insieme, assassini, voyeur e occhio della macchina da presa). La soggettiva iniziale di Strange Days mostra sì ciò che qualcuno vede e sente nel proprio corpo e nella propria mente: solo che questo qualcuno non è in realtà colui che sta adesso vedendo e sentendo ciò che anche noi spettatori vediamo e sentiamo. Chi ha visto e sentito è in realtà un altro. (E abbiamo usato altre due volte l'espressione: in realtà. Stiamo cercando di trovare un po' di conforto e terraferma, almeno con le parole.) La pervasività della tecnica è arrivata al centro dell'io pensante, l'ha vampirizzato, l'ha risucchiato e reinfilato dentro un altro cervello e un altro corpo. Da adesso in poi (dal dicembre di tre anni da adesso), si può cominciare a dire io penso, vedo e sento dunque sono un altro: se c'era rimasta un'utopia, quella della ripresa e della rivincita del pensiero che pensa nei confronti del pensiero tecnico che calcola e ci domina, Strange Days ce la toglie. Il pensiero della tecnica, con lo Squid, arriva ad annullare il pensiero che pensa il mondo e se stesso, occupa il luogo dove poteva ancora rifugiarsi l'ultima utopia, colonizza quello che avrebbe dovuto essere il punto di partenza per la riscossa del pensiero che pensa contro il pensiero che domina. Il pensiero che pensa è a rischio di estinzione: in questi strani giorni non si sa chi sta pensando e vivendo. Potremmo pensare come un altro, potrebbe esserci un altro a pensare dentro la nostra testa, potremmo essere l'altro e non saperlo neppure. (Così come al cinema, potremmo vedere e sentire ciò che qualcuno sembra vedere e sentire e non essere più sicuro che sta davvero lui a sentirlo e vederlo. Non c'è più religione. O, come direbbe dolorosamente Lenny Nero, non c'è più Faith: chissà se può essere considerata una fortuna che ad aiutarlo, adesso, ci sia Mace, Mazza, tipica donna androgina, stavolta nera, della Bigelow?)
C'è anche un'altra strana faccenda che succede negli strani giorni che saranno qui tra poco e nei quali non sappiamo se noi saremo noi oppure qualcun altro e se quel che vediamo che qualcuno vede è davvero lui a vederlo o un altro. Non soltanto si è perso il soggetto che non potrà più sapere se lui è lui o un altro: si è perso anche il luogo dove chi magari pensa di resistere come soggetto vorrebbe potersi muovere. La Los Angeles di Strange Days è una città inesistente. Non c'è il soggetto e non c'è neppure lo sfondo. Davanti e dietro all'io che è un altro, non c'è nessun luogo. Ci si è lamentati parecchio ultimamente che, nel mondo e nelle immagini che del mondo ci facciamo, i luoghi siano stati soppiantati dai non luoghi. Dove per luogo si intende un posto (città, paese, casa) che mostri le proprie radici, contenga in sé la propria storia, sia carico di affetti e ricordi; e dove per non luogo si intende un posto che non solo non ha radici né ricordi né storia ma che è pensato e costruito proprio per continuare a mostrare e a dire il proprio essere staccato dal passato, il proprio essere anonimo e in grado di favorire l'anonimità (come gli aeroporti o le stazioni di servizio con autogrill, come in generale tutti i posti dove l'uomo che si sposta vuole vedere confermato il proprio essere senza radici, il proprio muoversi, quel muoversi che per molti è sinonimo di libertà). In Strange Days siamo oltre questa divisione tra luogo e non luogo. La Los Angeles di Strange Days non è né l'uno né l'altro: semplicemente non c'è. Finito l'io, dissolta la città. Vampirizzato il dentro, scomparso il fuori.
C'è una lunga e nobilissima tradizione cinematografica di città del futuro. Quasi tutte notturne, infernali e verticali. Dalla Metropolis di Fritz Lang, film che si dice sia stato ispirato dai grattacieli di New York e che si figura una città di precipizi sotterranei e di cime abissali del XXI secolo (di sfuggita: grattacieli e cinema sono nati insieme, anno più anno meno), alla Los Angeles del 2019 di Biade Runner, alla città orwelliana di Brazil di Terry Gilliam, alle Gotham City dei Batman di Tim Burton: per il cinema, la doppiezza della città, sotterranea e verticale, ctonia e babelica, quella nascosta sotto terra, abitata dagli schiavi, dai terroristi e dai resistenti, quella che si alza a sfidare il cielo, regno di potenti e di dominatori, questa doppia città era esattamente quello che ci voleva per rappresentare lo spazio del futuro e le sue antinomie. (C'è anche la New York di King Kong, film molto amato dai surrealisti, che non è città del futuro ma lo sembra.)
Bene, altra strana faccenda: Strange Days è un film metropolitano in cui la città non c'è. Un po' perché siamo quasi sempre di notte e lo sfondo non si vede (le immagini di una giornata di sole, di una corsa sui pattini, di una spiaggia vanno comprate illegalmente e sparate nel cervello); un po' perché lo sfondo è occupato sempre e soltanto da macchine incendiate, sporcizia, fumo, luci violente, riflessi, megaschermi, lampi, scintille; un po' (e non solo un po') perché ormai si vive in discoteche grandi come grandi caverne o per le strade invase dalla gente, percorse da rivolte razziali, da bande criminali, carri armati, polizia, militari, tra un rumore e una musica onnipresenti e furibondi (lo Strange Days sonoro meriterebbe un articolo a parte: in quante sale italiane si sentirà il vero Strange Days, quello insopportabilmente frastornante, che ti rinciuchisce?). La geografia di Strange Days è del tutto indeterminata. Non vale solo per l'io l'indistinzione tra il sé e l'altro. Anche per lo spazio non c'è distinzione tra dentro e fuori: semplicemente, non c'è riparo. In realtà, è impossibile in questi strani giorni tracciare linee di demarcazione tra ogni dentro e ogni fuori. La dualità che esisteva tra il soggetto e il mondo, ai tempi quando l'io era ancora un io che pensava e si pensava, è finita sia perché l'io è ormai inconsistente e preda di altri da sé sia perché un mondo da abitare non c'è. Il progetto umano è fallito in entrambe le direzioni, quella della costituzione di un dentro di sé e quella del dominio sul mondo di fuori che trovava nella città verticale il luogo della rappresentazione esterna della potenza dell'io. Qui esiste solo lo spazio piatto di una Los Angeles occupata da una folla di persone con il cervello spappolato che pensa di stare festeggiando la fine del millennio ed ha sbagliato data.
C'è ancora una strana cosa in questo strano film: che la storia raccontata, in realtà, conta poco o niente e che quel che conta è il resto, lo sfondo di una metropoli che non c'è e non si vede (vi ricordate Caproni?: «Dio non c'è / ma non si vede. / Non è una battuta: è / una professione di fede»), il dentro di un io occupato da altri, la visione di un futuro vicino che abolisce ogni diverso futuro lontano. Strange Days è un film che vive di ciò che mostra (e fa sentire), non di ciò che racconta. A dimostrazione che, se il regista ha – scusate – le palle, i generi cinematografici possono, anche senza raccontare, servire a dire quel che c'è da dire. (A proposito di generi: in quale incaselliamo un fanta-nero-mélo-psico-tecno-thriller come Strange Days?). Che la storia conti poco o niente, lo dice anche quel finale fintamente apocalittico (in realtà, l'apocalissi è già avvenuta da un pezzo) e religiosamente catartico con la punizione dei malvagi poliziotti e la liberazione di Nero e di Mace. Che salvezza possono sperare di raggiungere se nella strada accanto qualcuno sta pestando a sangue Babbo Natale? (E adesso siamo in attesa di 12 Monkeys di Terry Gilliam: nel 2035 si vive tutti come talpe, sotto terra. Avremo perso anche il fuori metropolitano uniforme e piatto di Strange Days. Gli orizzonti saranno finiti e sottoterra l'inferno è ancora più vicino.)