In occasione dell'uscita in sala della versione restaurata di Novecento di Bernardo Bertolucci, distribuito da Cineteca di Bologna con Il Cinema Ritrovato, siamo andati in archivio e abbiamo scovato una curiosa recensione firmata dall'allora direttore Sandro Zambetti. Era il 1977 e il numero 167 e disponibile in versione pdf su Cinebuy.
«L'opera cinematografica più discussa dell'anno» l’aveva definita un autorevole quotidiano in un titolone a sette colonne, nella nobiltà cattedratica della terza pagina. In effetti, la stampa italiana, ha dedicato a Novecento i classici fiumi di inchiostro, senza temere di ripetersi, da Cannes e da Venezia, all'entrata in circolazione della prima parte come a quella della seconda. Quanto bastava per indurre al silenzio chi, come noi, è affetto da inguaribile allergia per le operazioni che, volutamente o no, portino il segno della pressione pubblicitaria, dando luogo a contrasti anche violenti, ma nei quali gli elogi e le stroncature hanno la stessa gonfiezza e finiscono quindi col contribuire in ugual misura a fare dell'oggetto del contendere un "caso" comunque clamoroso, un "avvenimento" a cui è d'obbligo prestar attenzione.
Adesso che Novecento Atto I e Novecento Atto II hanno concluso il giro delle prime visioni (con un incasso, rispettivamente di oltre due miliardi e di circa un miliardo: cifre non trascurabili, certo, ma inferiori alle attese) se ne può parlare senza cadere in un gioco del genere, anche se con il rischio di ripetere cose già dette.
Non è per essere originali ad ogni costo, comunque, che incominceremmo col notare come «l'opera più discussa dell'anno» sia, in realtà, molto poco adatta a far discutere. Le stesse polemiche degli scorsi mesi, a ben guardare, si sono dispiegate soprattutto attorno alla questione dei miliardi americani profusi nell'impresa, marchio infamante per gli uni, arma destinata a far esplodere le contraddizioni del sistema per gli altri: sul che ci si potrebbe accapigliare all'infinito, per arrivare a concludere, semmai, che non è la quantità dei soldi avuti a disposizione a rendere più sputtanante o più esplosivo il lavorare all'interno delle strutture capitalistiche con la buona intenzione (se c'è e quando c'è) di metterle in causa. Non è con la modestia e con l'italianità dei capitali, vogliamo dire, che si alleggerisce la responsabilità di tante bieche operazioni, come non è per il solo fatto di usarli nell'acquisto di bandiere rosse da sventolare sullo schermo che si rigenerano i capitali.
Stando al film in sé, viceversa, il contrasto non è andato più in là di un confronto accademico fra diverse, ma abbastanza sfumate, inclinazioni di gusto. E più in là non può andare, a nostro parere, perché è quasi solo su questo piano che si esprime anche quella "totale adesione con il movimento di classe" che Bertolucci indica come significato fondamentale del film: un'adesione, cioè, che si esaurisce nell'estatica contemplazione dello splendore del rosso, reso più sfolgorante dall'accostamento alla cupa vertigine del nero; nel gioco fascinoso dei contrappunti fra la vitalità contadina e l'estenuazione padronale, fra la serenità del paesaggio e la violenza che vi si consuma.
Ponendosi nella stessa ottica, si può restare più o meno ammirati della maestria con cui Bertolucci orchestra attori e masse, ritmi narrativi e analisi psicologiche, raffinate costruzioni d' atmosfera e rielaborazioni colte di moduli teatrali e musicali, ampie partiture da romanzo ottocentesco e tesi grovigli espressionistici.
Il risultato è quello di un'armonia non sempre compiuta e in cui l'alto esercizio di mestiere prevale sull'autenticità espressiva, ma della quale non si può disconoscere la suggestione: solo che, proprio per questo, l'unica cosa di cui si finisce per non trovar traccia è il senso della lotta di classe, in quanto essa ha di netto e di tagliente pur nella sua complessità di sviluppi e di articolazioni.
Il film, per dirla con Morandini, ha «la struttura della saga modellata sul ritmo delle stagioni: la larga estate dei primi anni del secolo; l'autunno corrusco che precede il fascismo; il lungo inverno del ventennio nero; l'irruente primavera del 1945 con l'utopia contadina dell'appropriazione delle terre che deve arrendersi al nuovo ordine democratico». Ma il fatto è che queste stagioni non corrispondono tanto alle varie fasi storiche del movimento di classe, quanto ai tempi di un processo tutto interno all'atteggiamento dell'autore nei riguardi della propria origine borghese e del proprio rapporto con il mondo rurale in cui è nato e cresciuto.
Tra i contadini Dalcò e gli agrari Berlinghieri, in ognuna delle generazioni che si susseguono lungo l'arco di oltre mezzo secolo, non c'è scontro reale, ma piuttosto un continuo intreccio di odio-amore che riflette appunto tale processo ed il suo svolgersi a circolo chiuso (il ripetersi delle stagioni, in fondo), girando attorno al nodo irrisolto del privilegio di classe, al tempo stesso condannato ed assunto come inevitabile.
Da qui il maggior interesse della lettura del film in chiave psicanalitica anziché storicopolitica (e la nostra preferenza per la seconda parte rispetto alla prima, pure più armonica e compatta), ma anche i limiti che ne derivano per quella che Bertolucci definisce «ambizione offensiva» dell'opera: perché, a conti fatti, non si vede proprio chi possa sentirsi provocatoriamente toccato dallo spettacolo ormai consueto dell'intellettuale che si dibatte (o si crogiola) fra le contraddizioni del proprio ruolo.
* Restaurato da 20th Century Fox, Paramount Pictures, Istituto Luce - Cinecittà e Cineteca di Bologna, con la collaborazione di Alberto Grimaldi e il sostegno di Massimo Sordella, presso il laboratorio L'Immagine Ritrovata.