Sessant'anni fa, l'8 agosto del 1963, una banda guidata da Bruce Reynolds mise a segno una rapina al treno postale Glasgow-Londra. Il colpo, pianificato e messo in atto con precisione militare, assurse fin da subito al livello di leggenda: la foto del vagone svuotato, al pari di quella dei fratelli gangster Reggie e Ronnie Krays scattata da David Bailey, sarebbe diventata una delle immagini più iconiche non solo del milieu, ma più in generale della Swinging Britain di quegli anni. Il cinema inglese, già da tempo, aveva saputo ben utilizzare la fascinazione del “colpo perfetto”, basti pensare a L'incredibile avventura di Mr. Holland e La signora omicidi. Un altro capolavoro di heist movie in salsa britannica, in anni più recenti, è stato senz'altro Un pesce di nome Wanda, che tra l'altro vede riunirsi due generazioni di grandi comedians come Michael Crichton della Ealing e John Cleese e Michael Palin dei Monty Python. Del film, ne scrisse a suo tempo Paolo Vecchi, su «Cineforum» n. 282, marzo 1989, in una recensione che qui riproponiamo.
«La generazione successiva! Mentalmente, sono molto piu vecchi di me» (Charles Chrichton). «Ealing Studios meet Monty Python». Così Charles Barr sul «Monthly Film Bulletin» sintetizza, impeccabilmente anche se in maniera fin troppo ovvia, Un pesce di nome Wanda. In effetti nella struttura del film i due polloni, pure perfettamente fusi, sono abbastanza evidenti e scomponibili. Per quanto riguarda la Ealing, ha ragione ancora Barr quando afferma che la vicenda di Un pesce di nome Wanda richiama direttamente quelle della fantastica trilogia di Crichton (Hue and Cry, 1947; The Lavender Hill Mob, 1951; The Titfield Thunderbolt, 1953), con alcuni, piccoli aggiustamenti dovuti al mutare di tempi e costumi: il delitto che paga, il sesso, la violenza. Anche se, rimanendo agli anni 50 basta uscire per un attimo dalla produzione di Crichton per imbattersi nella cattiveria di Sangue blu (Kind Hearts and Coronets, 1949) di Robert Hamer e La signora omicidi (The Ladykillers, 1955), Alexander Mackendrick, «the subversive wing of Ealing into which Crichton never ventured at the time» (Charles Barr).
Comunque, l'impianto estremamente classico giustifica l'applicazione, con qualche correttivo, delle categorie che John Ellis utilizza a proposito delle commedie Ealing (John Ellis, Made in Ealing: la commedia, in Emanuela Martini, a cura di, Ealing Studios, Bergamo Film Meeting, 1988). Ellis attua una distinzione preliminare tra due tipologie: «Quella consapevole del linguaggio, che lavora destrutturandolo e ricostruendolo, la commedia di gags, dell'illogico e dell'incongruo, e quella che si basa su un linguaggio naturale». La commedia Ealing appartiene al secondo gruppo, anche se la distinzione non può essere applicata in modo rigido, dato che, ad esempio, in essa compaiono numerose gags. Elementi centrali risultano il gioco di parole (il notiziario radiofonico che parla di oro/fonderie/torri/fughe in The Lavender Hill Mob) e le sequenze di inseguimento. Inoltre, «la commedia Ealing si occupa della disgregazione della realtà sociale, in quella che è spesso definita come una rappresentazione innocua degli istinti bassi: la messa in scena di desideri che non sono socialmente sanzionati. Questo vale sia per i desideri aggressivi e utopici che per la sessualità. La commedia è il luogo in cui queste motivazioni possono essere rivelate e soddisfatte» (qualcosa di simile accade, a livelli meno complessi di elaborazione narrativa, ma con maggiore virulenza in rapporto a una diversa situazione sociale e culturale, nella nostra commedia derivata dall'avanspettacolo, massimamente in Totò).
Nei casi più radicali, queste tensioni «si esprimono attraverso la rottura dell'ordine sociale» (l'omicidio, la rapina), in un risultato «anarchico, proprio perché esprime i desideri e le aspirazioni nascoste ai margini del pensiero borghese». La commedia «nasce per di più dalle complicate trattative tra l'ordine stabilito e le forze destabilizzanti». Senza voler eccessivamente forzare i termini, ci sembra che il parallelo, al di là di ovvie trasformazioni, risulti calzante e illuminante. Più meccanico per alcuni elementi portanti (lo hold-up, appena abbozzato in quanto puro pretesto narrativo, l'inseguimento, il gioco di parole Wendy/Wanda/I wonder, Portia/Porsche e così via), va “storicizzato” negli aspetti psicologico-sociali, coinvolti in un giro di vite per il quale la corda appare tesa fino al punto di sfilacciarsi. Circola un'aria di crudeltà diffusa, la sessualità è molto più esibita, tanto da avere ormai perso qualsiasi aura trasgressiva, ridotta com'è a semplice mezzo, i bersagli da colpire sono degenerati nel senso di una caricatura isterica, il vero oggetto non è più la loro rappresentatività sociale, ma l'astratta capacità di essere “figure dello spettacolo” (in modo meno palese, più sottile e raffinato rispetto a certi “calchi” di un recente passato, Un pesce di nome Wanda è da questo punto di vista un film sul cinema, di struggente tenerezza nostalgica anche quando si accanisce o finge di farlo sui suoi meccanismi stereotipi). Ma sono passati alcuni decenni, il T.E.B. Clarke della situazione è diventato John Cleese.
«Deve essere il re, è il solo che non sia coperto di merda» (un contadino in Monty Python and the Holy Grail). Il quale Cleese è legato mani e piedi, fin dalla costituzione, al “gruppo rock” (secondo la definizione di Barthélemy Amengual) dei Monty Python, per il quale potrebbe valere la battuta di Lancelot in Monty Python and the Holy Grail «Scusatemi, il mio stile personale mi trascina a degli eccessi». Sull'eccesso, essenzialmente, è infatti basata la sua comicità, sul nonsense di tipica tradizione britannica. Vi si incrociano l'astrazione metafisica e perturbante di Carrol e Lear e la “volgarità” delle manifestazioni fisicamente più tangibili (sangue, sudore e polvere da sparo), l'anarchismo irriverente di matrice swiftiana e le dilatazioni iperboliche del cartoon (Amengual parla di Tex Avery, a noi sembra più pertinente il paragone con la secca violenza di Chuck Jones; per Un pesce di nome Wanda, Richard Schickel ipotizza addirittura le corrispondenze Otto/Duffy Duck, Ken/Elmer, Wanda/Tweety; ancora Amengual attualizza il discorso fino a Roger Rabbit).
John Cleese, collaboratore di Crichton dal 1977 nella società Video Arts, specializzata in film industriali, ha il merito, come Python, di aver recuperato il “grande vecchio” dopo una lunga quarantena televisiva, mettendolo al servizio di una sceneggiatura di cui Cleese stesso è diventato eccellente protagonista con il nome civettuolo di Archie Leach (cioè, Cary Grant), che allinea come comprimario il bravissimo Python Michael Palin, abbonda di una comicità aggressiva e disarticolata, fatta di afrori di ascelle fiutati a scopo afrodisiaco e calzerotti maleolenti abbandonati sulla moquette, si schiera sul fronte di una ormai abituale ittiofilia (Monty Python's the Meaning of Life si apriva con un acquario i cui pesci commentavano il film).
L'equilibrio e l'accattivante levità di Un pesce di nome Wanda si reggono quindi sulla miracolosa commistione tra un cinema solidamente tradizionale, fatto di impeccabile mise en scène, curata direzione d'attori (nei ruoli di contorno segnaliamo le eccellenti caratteriste Maria Aitken e Patricia Hayes), perfetta scelta dei tempi (in particolare, nella sequenza notturna in casa di Archie, con il gioco di apparizioni e scomparse, vuoti e pieni, ardori e delusioni) e una recente “volgarità” visionaria, una “demenzialità” un po' picara che così riescono a trovare un'apprezzabile sistemazione stilistica (si veda, ad esempio, il modo in cui vengono risolti i momenti, “forti” e crudeli, dell'uccisione dei cagnolini della vecchietta, della tortura del balbuziente Ken e del cannibalismo perpetrato verso i suoi pesci). Anche il combattimento tra inglesi e americani, tra rapinatori e forze dell'ordine, tra mogli e mariti, tra ingannatori e ingannati viene risolto, come ha scritto Iannis Katsahnias, a tutti i livelli della messa in scena, con una corrispondenza tra oggetto e linguaggio raramente riscontrabile in questi tempi grami.
Ma i meriti di Crichton e Cleese non si fermano qui. A loro va accreditata anche la definitiva valorizzazione, dopo inizi “horror” (Halloween, Fog), della splendida Jamie Lee Curtis, intesa non soltanto come talento comico (le sue qualità trasparivano già in Una poltrona per due), ma anche come corpo la cui magica sinuosità stacca con un volto androgino tratteggiato con linee nette, al limite della spigolosità, quasi fosse uscito dalla matita di Hugo Pratt. È su questo affascinante contrasto che regista e sceneggiatore giocano per costruire un personaggio capace di una alternante ambiguità, in grado di tenere in pugno e adattare ai propri scopi uomini e situazioni, di assecondare o sconvolgere la britannica rispettabilità, di blandire o incastrare l'americana faciloneria. Di usare in sostanza della propria ambivalente fisicità come esca, per i suoi partners, per lo spettatore e per il procedere della narrazione.