Mr. Pong – Ovvero Come ho imparato a giocare ai videogames e salvato il mondo

War Games – Giochi di guerra di John Badham

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Il 29 novembre di mezzo secolo fa (pensa te come corre il tempo…) usciva Pong, rudimentale simulatore computerizzato del gioco del ping pong. Dapprima in versione arcade (ovvero, come uno di quegli enormi trappoloni presenti nelle sale giochi; la versione consolle, da collegare al televisore di casa, uscirà tre anni dopo), è di fatto il primo videogame della storia. Alfiere di una vera e propria rivoluzione, e probabilmente non solo nell'ambito meramente ludico, Pong e tutti i suoi discendenti hanno aperto a loro modo una nuova era nel porre noi stessi in relazione alla realtà. Di questo ne parlò Davide Ferrario recensendo, sul n. 229, novembre 1983 di «Cineforum», il film di John Badham War Games – Giochi di guerra. Recensione che qui riproponiamo. Daisy Daisy, gimme your answer do, I'm half crazy all for the love of you…


Scheda War Games/Tuono Blu di John Badham
I giochi e la guerra

Ma allora è vero? È questa la domanda che inevitabilmente molti si sono posti quando, dopo un paio di settimane dall'uscita italiana di War Games, i giornali hanno pubblicato con grande risalto la notizia dell'arresto di un gruppo di minorenni americani che, attraverso i loro personal computer, si erano introdotti nei circuiti di sistemi militari top secret. War Games sembra così andare incontro al destino di un film per molti versi omologo, Sindrome cinese, una messa in scena la cui fiction, dopo l'incidente nucleare di Three Mile Island, si era rivelata più vera della verità. Che la storia del film di Badham non sia pura fantascienza è certo. Quindi non possiamo fare a meno di considerare con simpatia questa “denuncia” hollywoodianamente radical della pericolosità degli armamenti nucleari (e dei loro controllori). Ma è altrettanto certo che War Games è una delle più tipiche operazioni commerciali che caratterizzano gli standard di produzione delle major (in questo caso si tratta della super major Mgm/Ua) negli anni 80.

Si consideri innanzitutto l'idea di fondo del film: si tratta di un sapiente mélange dei tre più grandi hit del momento dell'industria culturale: gli adolescenti, l'elettronica, la guerra nucleare (conditi con un pizzico di buoni sentimenti, tornati oggi di moda). In secondo luogo gli autori, tipici rappresentanti delle “nuove generazioni”: gli sceneggiatori Lawrence Lasker e Walter Parkes (figli d'arte e “teste d'uovo” laureate a Yale); il regista John Badham, di buon mestiere ma dall'autorialità un po' incerta (la sua poetica contempla, nell'ordine, Travolta, Dracula, l'eutanasia e la tecnologia spettacolare stile Tuono blu); il produttore Leonard Goldberg, che arriva dagli hit televisivi di Charlie's Angels e di Starsky e Hutch. Insomma, per quanto l'assunto pacifista del film e la sua innegabile freschezza non possano non rendercelo simpatico, cinematograficamente restiamo molto lontani dalla swiftiana negatività del Dottor Stranamore. I cui echi, guarda caso, non si ritrovano in War Games, ma storpiati e ridotti a macchietta in Octopussy – 007 Operazione Piovra. O tempora o mores.

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La computerizzazione delle informazioni ha portato i sistemi di interpretazione della realtà a un grado di tale astrazione statistica che la “lettura elettronica” della vita avviene ormai in una dimensione assolutamente neutrale, in cui i fatti e i numeri si confondono completamente smaterializzati. In questo mondo da villaggio globale alla McLuhan l'educazione dei giovani non avviene più per assimilazione di principi, ma attraverso un apprendimento ludico. David, il protagonista di War Games, e la sua compagna Jennifer, sono caratteristici rappresentanti di questa generazione. Assomigliano agli all american boys degli anni 50, probabilmente non sanno chi sia Kerouac, ma sanno affrontare la realtà in maniera molto elastica grazie agli strumenti che la tecnologia offre loro. Vivono in una sorta di limbo dell'innocenza. in una beata amoralità, succubi dei miti dei mass media eppure lontani dallo way of life dei genitori. L'opulenza del sistema sociale in cui crescono li garantisce dall'assumere responsabilità, permettendogli di applicare le loro doti intellettuali in quel gioco astratto che è diventato il processo educativo.

Così David non si preoccupa più di tanto della sua preparazione scolastica ufficiale (tanto sa come inserirsi nel computer dell'istituto per cambiare le sue votazioni), e si dedica tutto a cercare di capire (o meglio, a decodificare) la realtà attraverso il suo home computer. Nell'entusiasmo con cui si dà a questa operazione si colgono facilmente i tratti della gioiosità infantile con la quale il bambino imparare a conoscere il mondo giocando. Nondimeno la pratica di David è più sofisticata e più perversa: si avvale non dei sensi, ma di bit e memorie elettroniche; e quando vuole sa inserirsi nei sistemi di case produttrici di videogiochi per sottrarne i progetti senza pagare copyright. Una cosa gli manca: la capacità selettiva, i criteri in base ai quali scegliere tra un'opzione e l'altra.

D'altra parte questo corrisponde perfettamente ai caratteri del gioco elettronico. A differenza del gioco “libero” tradizionale, che contempla sempre una parte di imponderabilità e di rischio, quello elettronico può permettersi, grazie alla sua enorme flessibilità, di verificare immediatamente tutte le possibilità di “mossa” consentite. Il computer (e il suo operatore) sono “costretti” a scegliere il meglio per poter proseguire nel loro programma. Gli stessi videogame (di cui naturalmente David è un patito) non si basano, come qualcuno potrebbe credere, sulla maestria manuale del giocatore nell'evitare le bordate degli invasori spazioli: basta leggere la corrispondenza dei lettori delle riviste specializzate per rendersi conto che esistono sistemi e posizioni codificati per riuscire a fare più punti e quindi procedere nel gioco. Tanto il programma è flessibile nei mezzi che utilizza per raggiungere il suo scopo, quanto fondamentalmente è rigido nella sua finalità di realizzarlo. Così David si trova inserito in un programma che potrebbe essere un videogioco e invece è un piano militare, all'interno del quale con preferenza generazionalmente catastrofica e gigantista, sceglie l'opzione “Guerra termonucleare globale”: un programma che, avviato, si ferma soltanto al livello della vittoria finale.

A questo punto si produce lo scarto di significato tra la simulazione e la realtà: nel gioco computerizzato controllato dall'operatore ha luogo un confronto simbolico all'interno dei miti (e delle paure) della cultura; nel gioco autocontrollato dal computer stesso questa differenza si annulla e nell'astrazione dei dati il gioco diventa vero. Il punto interessante su cui interrogarsi è perciò questo: in un universo futuro in cui l'integrazione dell'astrazione elettronica alla realtà sarà ancora più sviluppata, quale sarà la dimensione della vita? Quale ancora la possibilità di giocare, dato che il computer non fa alcuna differenza? L'elettronica potrebbe annullare quel “come se”, quella possibilità di scegliere il “peggio” che sono la motivazione fondamentale del gioco.

Infatti, il vero atto creativo di David (che riflette peraltro il suo maggiore adeguamento a questo processo rispetto agli adulti) è di inserirsi nel calcolatore affrontandolo con la sua stessa logica: costringendolo a vincere attraverso l'applicazione astratta di tutte le possibilità di mossa. La macchina scoprirà così alla fine, bontà sua, che nel gioco della “Guerra termonucleare globale” nessuno può vincere: che è una cosa la quale, ahimè, conosciamo già tutti fin troppo bene. Ma non dimentichiamo che la realtà è reale purtroppo perché qualcuno potrebbe essere tanto pazzo da cercare di giocare quella partita per vincerla.

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Uno del genere (facciamo i debiti scongiuri) potrebbe essere proprio Ronald Reagan, attuale presidente degli Stati Uniti. Dato il clima di isterismo imperialista che sembra essere tornato a regnare in certi strati dell'opinione pubblica americana, non si può non riconoscere a War Games almeno il merito di essere un blockbuster pacifista buono per tutti i generi di pubblico. Per quanto sostanzialmente generico e improntato a un umanesimo un po ' troppo tradizionale (la figura di Falken, per esempio, non è molto convincente, nonostante John Wood sia molto bravo a scavare ambiguità e paranoie nel suo personaggio) il pacifismo di Badham e soci presenta delle caratteristiche interessanti. Prendendo spunto dalla classica dialettica uomo/macchina che rappresenta il suo motivo fondamentale, War Games si schiera non tanto contro il militarismo, quanto contro l'efficientismo tecnologico di marca civile e industriale. A cominciare dal prologo e dalla scena iniziale dopo i titoli di testa, uno dei temi conduttori è la contrapposizione tra il generale Beringer e il tecnocrate McKittrick, che si contendono l'appoggio delle lobbies di Washington. Beringer ha sicuramente fatto la guerra di Corea, ma ha anche imparato la lezione del Vietnam: è un soldato, non un guerrafondaio. Da vecchio guerriero nutre, nonostante la sua connatura fallibilità, una grande fiducia nei confronti dell'elemento umano. Con il suo sigaro in bocca e la battuta tagliente, è coniato sulla più positiva tipologia del militare hollywoodiano e, nei confronti del pubblico, gioca “sporco” per la sua carica di immediata simpatia.

McKittrick, invece, con la sua sicurezza e fa sua mania computerizzante, suscita subito un sentimento di intolleranza. Per di più, nel corso della vicenda, ci appare come una sorta di alter ego “nero” di Falken: meno geniale, ma più tenace e pericoloso.La sua filosofia è un pragmatismo a circolo chiuso, asserragliata nella cittadella del know how. McKittirck non è stupido come gli agenti dell'Fbi, ma è così convinto del “destino manifesto” dei suoi elaboratori da non accettare l'ipotesi di poter anche sbagliare. In mezzo a questi due personaggi-simbolo stanno le strutture: la burocrazia, l'esercito, le macchine. Un merito di Badham è di non aver demonizzato quest'ultimo elemento, accettando il progresso elettronico come un dato di fatto, anzi come un vero e proprio spettacolo (deliziosa è la gag del bottone rosso durante la visita stile Disneyland dei turisti al centro strategico).

Quanto all'esercito e alla burocrazia tendono a fondersi in un unico apparato di controllo in cui non c'è più molta differenza tra il funzionario, il tecnico e il soldato. Così come la guerra tende a perdere il suo carattere di scontro armato per trasformarsi in una strategia di distruzioni programmate, di ritorsioni e di rappresaglie. Certo che l'immane minaccia di una guerra del genere fa passare in seconda fila quelle piccole e medie guerre tradizionali che si stanno moltiplicando sulla scena mondiale, dall'Afghanistan a Grenada. Forse continuando a preoccuparsi per la bomba, corriamo il rischio di rassegnarci (anzi, di adeguarci) all'inevitabilità di questi scontri periferici. Viene allora da chiedersi se magari, tutto sommato, lo spauracchio della “Guerra temonucleare globale” non sia ogni tanto comodo ai governanti delle superpotenze per giustificare all'opinione pubblica tradizionale e a se stessi la “necessità” di simili, relativi, impegni militari nel Terzo mondo. La paura “culturale” della distruzione planetaria tenderebbe a congelare i blocchi continentali nelle loro posizioni acquisite. Alla luce di questa ipotesi, anche l'operazione pacifista di War Games va riconsiderata in maniera più ambigua. Il suo stesso lieto fine appare zuccheroso perché ci lascia intendere che, sotto sotto, certi pericoli esistono, ma c'è chi sa prendersi cura dei problemi: non le macchine, ma gli uomini della democrazia.

Per questo, di nuovo, l'inevitabile paragone con Il dottor Stranamore ci sembra perdente: perché in quel film Kubrick ci mostrava fa stupidità delle macchine e degli uomini. Anche se là la bomba alla fine scoppiava e qui un ragazzino, giocando a “tris”, salva l'universo dalla distruzione.