In quel mystery morale (ci si perdoni il termine) che è La ragazza senza nome, i Dardenne compiono un’autentica acrobazia stilistica per non cadere in tentazione e derogare dal loro credo.
Quando la dottoressa Davin si reca nel cantiere lungo l’argine del fiume per osservare il punto preciso in cui è stato ritrovato il corpo della “ragazza senza nome”, si sporge per ben due volte verso il basso. La prima volta lo fa seguendo la generica indicazione dell’operaio che ha scorto il corpo quella stessa mattina. Coerentemente con la consueta e totale aderenza ai personaggi, la macchina da presa dei Dardenne segue la giovane fin sull'argine di cemento e registra il suo atto di guardare ai suoi piedi.
Lo sguardo della dottoressa, di profilo, forza i limiti dell’inquadratura, ne oltrepassa i confini e stimola la lecita curiosità dello spettatore, che si dispone, anzi, si disporrebbe, a tradurre in una precisa immagine la sollecitazione del punto di vista. Ma ciò non avviene. La dottoressa ritorna dall’operaio, chiede maggiori delucidazioni sul punto esatto del ritrovamento. La frustrazione dello spettatore probabilmente risiede nel fatto che la giovane non ha ancora visto il punto esatto e che quindi non ci sia nulla di concreto da condividere. «A destra delle benne», corregge l’operaio, fornendo questa volta anche un preciso punto di riferimento. Il meccanismo si ripete. La macchina da presa, sempre in rigida continuità, senza staccare, segue il movimento della dottoressa verso l’argine, ma questa volta lo spazio intorno al personaggio è caricato di un’intensità maggiore, perché ora c’è anche il riferimento che, in un altro tipo di cinema, lontano dai Dardenne, sarebbe funzionale all’immediatezza di un'inquadratura collegata al suo sguardo.
Difficile che i Dardenne esplicitino il punto di vista della dottoressa con una soggettiva, ma la battuta correttiva dell'operaio risulterebbe in questo modo veramente gratuita. Il compromesso che si realizza subito dopo normalizza le sollecitazioni della messa in scena pur non rinnegando l’etica rigorosa dello stile: la cinepresa segue sempre il movimento della dottoressa, ma sul suo insistente sguardo, una volta individuato il punto del ritrovamento, un movimento di macchina entra in relazione dialettica con il personaggio. Lo abbandona per un istante e si pone al suo fianco, soddisfacendo il pubblico con una fugace inquadratura del punto “vicino alle benne” per poi tornare sul volto della dottoressa lambendone il fianco.
La soggettiva dei Dardenne si maschera da criterio oggettivo di restituzione del reale, non utilizza il personaggio come filtro, ma assume una libertà indiretta che è insieme sguardo d’autore e logica di lecita restituzione. Il rigore dello stile è salvo, l’obiettività dello sguardo non si perverte inseguendo un'ovvia soddisfazione drammatica.
Anche questa è una questione morale ed è il corrispettivo linguistico del dilemma della protagonista.