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(dis)Sequenze#15 - Personal Shopper

Nella ricchezza prospettica di Personal Shopper probabilmente c'è posto anche per questo. Come un capiente shopper, accanto alla necessità di proiettarsi nell'altro-da-sé, all'elaborazione di un dolore che è sradicamento dell'anima e alla volontà di ricercare il proprio completamento nella connessione simbolica con gli oggetti, trovano la loro comoda collocazione anche la meccanica dell'ibridazione e il repentino mutamento dei toni.

L'inquietudine che Assayas è abilissimo a generare nasce dall'inserzione dello straordinario nelle sobrie dinamiche espressive di un film d'impianto essenzialmente realista. Un improvviso cambio di direzione che genera straniamento. Un cambiamento paradossale, perché inserendosi nelle pieghe della normalità muta la natura della storia narrata e scoperchia attributi differenti laddove, fino a quel momento, sembrava che si stesse raccontando del delicato equilibrio di una ragazza preda della sua sofferenza per la perdita del gemello.

Assayas compie una cosa semplicissima nella sua estrema difficoltà di messa in scena: crea la tensione di un soffocante pedinamento nella piena immobilità dell'azione. Una stazione, una sala d'attesa, poi un treno e una boutique à la page londinese. L'unica cosa che si muova, pur in una situazione che si fa sempre più stringente e claustrofobica, sono i polpastrelli sulla tastiera di uno smartphone. Il tutto immerso nella presenza indifferente di una società che fa da contorno affollato e silente, dimostrando che la natura narrativa del cellulare conduce a una differenza fondamentale rispetto al vincolo dell'isolamento fisico totalizzante dei thriller telefonici del passato (Il terrore corre sul filo, Merletto di mezzanotte o Quando chiama uno sconosciuto).

Nella sequenza precedente a quella in oggetto, la protagonista, Maureen, ha visto le sue speranze di connettersi con il fratello Lewis prendere forma in un ologramma ectoplasmatico dalle fattezze diafane. Nella penombra, senza accompagnamento musicale, senza piani o rumori a effetto, solo una materializzazione dal nulla, senza giungere, né ambire, alla piena definizione (è solo un'impressione, ma ricorda le presenze evocate ritualmente da Belloq e compagnia nazista ne I predatori dell'arca perduta).

È lo strappo horror in un ordito di sofferenza quotidiana. Ma questo strappo cambia completamente le modalità di lettura del seguito. Nella sequenza successiva un messaggio, al cellulare. È giorno, a Parigi, in piena città, mentre Maureen, casco in testa, sta mettendo in moto il suo scooter. Dovrebbe essere una scena cuscinetto: dopo la notte, superato un momento di crisi, si torna alla normalità del lavoro e si rilassa fisiologicamente la tensione del pubblico.

È invece l'inizio di una sequenza lunghissima e penetrante che parte da una considerazione semplice e inquietante: «I Know You», scritto su una chat simil WhatsApp da uno sconosciuto. Essere conosciuti senza conoscere, trovarsi in una condizione di svantaggio cognitivo rispetto a qualcuno che probabilmente ci osserva a nostra insaputa crea - da sempre, senza scomodare Freud - un'atmosfera particolarmente perturbante. Potrebbe essere l'avvio di uno stalking insistente ma Assayas inserisce un particolare fugace con l'accuratezza di un control freak: la data del 2 novembre che compare sul quadrante dello smartphone ci dice quasi subliminalmente che la questione è di altro tipo. Indipendentemente dalla natura dello sconosciuto messaggiatore (stalker? Fantasma? Se stessi? Machissenefrega, non è questo il problema), Personal Shopper con una lunga sequenza fa svoltare l'intero film, trasformando quello che pare uno spazio di violazione sempre più ampio nella voragine di una scissione individuale.