C'è un sottile, sottilissimo filo rosso che si aggancia a The Post e origina un pensiero. Senza nessuna pretesa filologica, solo una suggestione. Piccola, che tuttavia si espande. Come un fiume carsico che arriva dal basso, ed emerge, piano, inducendo all'attesa.
Una scatola. Una delle tante scatole che diventano inaspettate protagoniste del film. Una, da scarpe, griffata Thom McAn, è addirittura trasportata all'interno della redazione come una reliquia. Talmente centrale da focalizzare tutta l'attenzione – dei giornalisti del «Post», del pubblico – e da far ruotare intorno ad essa un'intera sequenza. Dentro c'è l'indagine sul Vietnam di Bob McNamara, segretario della Difesa per JFK e LBJ e diventato volto da schermo tra le nebbie della guerra grazie a Errol Morris. Le scatole conservano e svelano. Aprono un sipario calato occultamente sui segreti di Stato. Il Graal delle news.
Quando il giornalista Ben Bagdikian (Better Call Ben, indubbiamente) scova il contatto dell'imbavagliato «New York Times» e riporta a Washington il prezioso scrigno di documenti top secret, la scatola poggiata su una scrivania è come se fosse il vaso di Pandora. Particolare delle mani che febbrilmente sciolgono lo spago. Stacco. Scatola a occupare lo schermo, macchina da presa ad altezza della superficie della scrivania. La scatola viene aperta, lo spago lasciato cadere, la macchina da presa si alza e mostra il lento movimento di sollevamento del coperchio. Intorno alla scatola, impazienti e ansiosi, i redattori del «Post», con lo sguardo conficcato al suo interno.
La storia del cinema è piena di scatole e valigie in cui c'è un po' di tutto, dai Coen allo stesso Spielberg, quando fece aprire allo stesso modo, lento e ieratico, l'arca de I predatori, ma una scansione del tutto arbitraria ne richiama alla mente almeno altre due, tranquillamente paragonabili a quella di The Post. Ed è una scansione che, riflettendoci per un secondo, modella precisi periodi, fornendo quasi dei riferimenti. Gaby Rodgers abbagliata dal contenuto radioattivo della valigetta scintillante di Un bacio e una pistola è l'emblema della fase Subatomica, in cui una delle tante paranoie di cui è sempre stato costellato il cinema americano (e la società, come riflesso/origine) si materializzava dai recessi nascosti, rivelando la natura lacerante della sua minaccia.
L'altra valigetta, quella controllata dall'occhio indolente di Vincent Vega in Pulp Fiction, era diretta emanazione della prima e la luce che si rifletteva sul suo volto senza svelarne l'interno era il collasso delle possibili rivelazioni e l'esaltazione della purezza del MacGuffin. In pratica l'icona di un Postmoderno ancora nel pieno possesso delle proprie funzioni, ancor più del pacco di Se7en, il cui macabro carico era rivelato verbalmente per degna esigenza di chiusura finale.
La scatola di The Post è differente. Perché oggi le paranoie, seppur sempre presenti, sono in parte sublimate e l'ammicco citazionistico in Spielberg è pratica asfittica. Per di più il contenuto non è uno squarcio abbacinante sulle incertezze dell'America di Eisenhower o il pretesto beffardo di un intreccio che vivifica (anche) sulle vuote giustificazioni a posteriori dei fans. È un contenuto concreto, sono 4000 pagine di una notizia rischiosa, che tutti vorrebbero occultare perché inconfutabilmente vera.
In tempi di fake news, di Russiagate, di memorandum buoni e farlocchi, dalla scatola rivelatoria di The Post fuoriesce la notizia come se fosse la fonte suprema della verità. L'inquadratura di The Post incornicia la fase intramediale, in cui il cinema fornisce la verità e si fa latore di una speranza di correttezza e indipendenza nell'enormità della foschia odierna.