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(dis)Sequenze #12 - Silence

Come Welles. E probabilmente più di Welles.

Se Welles, in Quarto potere, con un movimento selettivo della macchina da presa, rivelava la vera essenza di Charles Foster Kane, sfuggita ai cinque flashback sulla sua vita pubblica e privata, all’attenta indagine di Thompson e alla considerazione finale dello spettatore, e lo faceva scavando tra oggetti, memorie e cianfrusaglie di un’intera esistenza per raggiungere infine la scritta su una slitta in fiamme, Scorsese nell’ultima inquadratura di Silence compie addirittura un deciso passo in più. Verso l’assoluto. Siamo nel territorio della titanomachia, tutto è lecito, niente è esagerato.

Welles dichiarava la potenza demiurgica del suo sguardo, unico capace di fornire la soluzione sfuggita a tutti. Scorsese divinizza addirittura le sue potenzialità narrative, in un film che sull’insondabilità inconsolabile di Dio fonda la sua complessa ricerca di senso. E su un film che giunge dopo anni di ricerca e pianificazione, di correzioni e riscritture, di riflessioni e ripensamenti, di summa morale e teofanica del proprio cinema e delle proprie peculiarità narrative.

Anche la macchina da presa di Scorsese s’inocula tra le fiamme, penetra laddove non dovrebbe avere accesso, mostra l’altrimenti invisibile, supera il confine del possibile per fornire uno sguardo assoluto, che in qualche modo dovrebbe essere metadiscorsivo, perché punta, in linea di principio, a riflettere anche sul suo statuto. Si rende, in una parola, onnipotente, superando qualunque barriera di eventualità. L’andare oltre di Scorsese rispetto a Welles sta proprio nell’ambito metadiscorsivo, da cui il condizionale che ne accompagnava il termine, qualche riga fa: la macchina da presa entra nella bara a botte in cui sta per essere cremato l’anziano padre Rodrigues, si avvicina alla sua mano per rivelare cosa stringe in pugno il gesuita costretto all’abiura, mentre la voce narrante del cronista olandese Dieter Albrecht dichiara la sua impotenza a sapere, demandandola all’onniscienza di Dio.

Superato anche il postmoderno, non è più tempo di riflessioni. L’ipotesi di metadiscorsività si ripiega esclusivamente su un’affermazione di principio, quasi un’autocertificazione, che sfrutta il riferimento antifrastico della voce narrante («solo Dio lo sa») per sconfessarlo immediatamente.

Così come si scriveva di Eric Clapton ai tempi dei Cream sui muri della Tube londinese, occorre osservare diversamente questo ennesimo punto d’arrivo del regista: Scorsese is God.