Sono diversi i motivi che possono irritare in Hacksaw Ridge. Partendo dall'impianto fideistico incurante dell'organicità del racconto, per cui la cruenta battaglia del venerdì dura circa un'intensa mezz'ora, mentre la riscossa dell'esercito americano, grazie alla preghiera preventiva del protagonista Doss, è istantanea, malgrado la quasi disfatta del giorno prima. Passando per alcuni grotteschi momenti di grand guignol, come il primo piano del soldato ritenuto morto che si anima all'improvviso strepitando, o attraverso l'esibizione plastica del movimento in cui, al ralenti, Andrew Garfield para e respinge una bomba a mano come un fuoriclasse cuneese di pallone elastico. E per terminare, ma solo per rimanere nell'ambito del mio sdegno personale, il razzismo intrinseco di un film che, rifacendosi direttamente alle vecchie norme del War Office Information, presenta l'immagine di un melting pot spurio, in cui l'italiano è troppo basso «perché sia un vero americano» (e forse per questo muore nei primi minuti della battaglia) e non c'è neanche l'ombra di un soldato nero, neppure tra la miriade di cadaveri rosicchiati dai topi (manca anche il consueto chicano caliente, che forse dev'essere rimasto già al di là del muro).
L'irritazione generalizzata non cancella, tuttavia, un (unico?) momento di grande cinema che si manifesta con un'accurata costruzione della tensione narrativa in una scena di appena due minuti.
Andrew Garfield è rimasto sul promontorio di Hacksaw per salvare quanti più commilitoni possibili. Ma sul promontorio, ovviamente, ci sono i giapponesi, che, manco a dirlo, se trovano un soldato americano ancora vivo, lo sgozzano senza neanche preoccuparsi dell'eventuale significato della parola “prigioniero”. Garfield li vede, tenendosi nascosto, assumendo una superiorità cognitiva rispetto alla minaccia.
Sembra un caso di costruzione della tensione in focalizzazione interna (la suspense strictu sensu si realizza nella maggior parte dei casi in regime di focalizzazione spettatoriale, quando cioè lo spettatore ne sa più della possibile vittima), ma c'è una grande complicazione. Garfield non spara, è un obiettore, il suo compito è salvare vite nella divisione medica, per cui se dovesse essere raggiunto dai giapponesi, salvo ripensamenti etici impensabili, non sarebbe in grado né potrebbe difendere in nessun modo la sua, di vita. A fianco della minacciosa incombenza e di un protagonista ideologicamente inerme (meno vie d’uscita si offrono al pubblico, più aumenta l’angoscia per il protagonista e più funziona la suspense), compare un obiettivo immediato da realizzare che va ben oltre la salvezza individuale: Garfield, che non spara ma salva, deve soccorrere e portare al sicuro un soldato americano che nelle vicinanze gli sta chiedendo pietosamente aiuto. Come fare, visto che anche il tempo non concede tregua in coincidenza dell'avvicinarsi dei feroci giapponesi? In mancanza dello scontro, la soluzione concepita da Gibson è l'invisibilità, la cancellazione camaleontica della vittima dalla percezione attiva della minaccia. Soluzione che, a sua volta, produce inevitabilmente nuova tensione.
Il pacifista Garfield copre di terra bruciata il soldato ferito, lasciandogli scoperto solo un occhio: lo scopo non è realistico (non è per permettere al soldato di controllare una situazione su cui non ha alcun potere) ma esclusivamente narrativo (per consentire al pubblico di confrontare la sua presenza con il segno della minaccia: la scarpa che lo sfiora). Lui, invece, si copre con il cadavere di un compagno morto (notazione macabra che esprime la possibilità, ma allude anche alla successiva rinascita.
Come di consueto, si sfiora la soluzione ma interviene la nuova complicazione. Un giapponese, una volta superati i due, si ferma di spalle, impedendo allo spettatore di comprendere a cosa si associ il suo improvviso sospetto.
All'occhio scorto tra la terra o all'uomo vivo sotto cadavere, oggetto di due piani susseguenti che si dispongono in attesa del peggio?
Il giapponese si gira, lentamente, tanto per alimentare ancora di più il dubbio e dilatare la sua azione ostile, tasta con un calcio il cadavere sopra Garfield e, in un primo piano con sguardo in macchina, per sottolineare maggiormente il parallelismo identificativo tra personaggio minacciato ed empatia del pubblico, sferra un colpo con la baionetta che trafigge il cadavere, ma salva Garfield.
Solo a quel punto il giapponese, pago del suo zelo, si allontana.
Una parentesi in cui si attivano tutti i meccanismi codificati rispetto a questo particolare regime di tensione: identificazione oculare e cognitiva, percezione della minaccia, situazione di svantaggio, complicazione della minaccia, tentativo disperato, illusorio sospiro di sollievo, ulteriore complicazione della minaccia, sospensione dell'attesa, fine sfiorata, climax spettacolare e soluzione.
Certo, prima e dopo questi due minuti c'è anche il resto del film.