[Da leggere ascoltando in sottofondo When you’re Smiling cantata da Dean Martin]
Una delle (comunque poche) accuse che sono state mosse a Joker, malgrado il successo inatteso a Venezia e il quasi unanime apprezzamento del pubblico, è stata quella di essere un film derivativo. E allora si sono sprecate, negli articoli e nei video sul web, le rincorse alla citazione, che dall’ovvio Scorsese fino alla sensibilità nerd delle graphic novel, hanno scandagliato il fondo alla ricerca di riferimenti, incroci, ricorrenze e ombre lunghe. Una tendenza più che coinvolgente: contagiante.
Di fatto, inevitabile. Questa rubrica ha cercato di resistervi, sfruttando come puerile alibi l’onda lunga di un’estate che se è riuscita a polverizzare la spocchia balneare di un triste governo, poteva benissimo erodere anche il desiderio autunnale di tornare a occuparsi di cinema. Ma alla fine, cambiato addirittura il governo, non poteva più esimersi. E quindi eccoci qua. Ad osservare una risata. Quella risata.
Una risata preliminare, prima che si trasformi in peculiare metonimia di malvagità beffarda e sadica.
Una risata isterica, che si fa strada faticosamente tra il grigiore quotidiano amplificato dai finestrini di un bus che percorre sempre la stessa strada, un giorno dopo l’altro, in una scena che possiede tutti i crismi per diventare presto di culto. Un innocente tentativo di porsi nei confronti di un bambino entrato casualmente nella propria sfera autistica è il detonatore; la frustrazione di vedersi condannare per aver emanato esternamente il terrore intimo da cui si è pervasi e che mortifica tutto il resto è la prima deflagrante esplosione.
Un segno di precisa alterazione psichica, una reazione che si pone antiteticamente rispetto a uno stimolo emotigeno e demolisce le convenzioni, spiazzando le attese e generando repulsione, paura e un’incomprimibile distanza dall’altro-da-sé, ancora una volta.
Un ossimoro visivo che avrebbe pure, volendo, una motivazione psichica ma che appunto si nutre quasi esclusivamente di cinema. In tre fasi.
Se il riferimento a Rupert Pupkin in The King of Comedy ha lo stesso potere evocativo del tassista Travis Bickle, è nella risata fittizia del comico frustrato, mentre immagina di trovarsi in uno show tra i suoi idoli Jerry Lewis (Langford, nel film) e Liza Minnelli, che si rispecchia l’avvilimento isterico di Arthur Fleck, anche lui sognante visibilità e gloria negli studi televisivi di un Robert De Niro passato dall’altra parte della telecamera nei panni di Murray Franklin.
Ma la doppia natura di una risata cesellata amaramente su un volto affetto da una tristezza perenne è tutta ricavata dal patetico personaggio di Gwynplaine de L’uomo che ride di Victor Hugo, il cui «essere comico fuori e tragico dentro» origina un’umiliazione e una collera il cui effetto plastico fu tradotto mirabilmente dalla trasposizione del ’28 di Paul Leni, ove Conrad Veidt sondava gli estremi emotivi in perfetta continuità, in una schizofrenia lancinante e melodrammatica cui Fleck non può che essere debitore.
La coesistenza di due anime opposte, indotte a farsi largo in una superficie che dimostra tutt’altro, ha un’origine cinematograficamente ancora più antica. Phillips ne colloca la sua versione nella sequenza d’apertura, quasi a definirne la nobiltà dell’ascendenza. Perché le dita che modellano una risata obbligata su labbra cementate non rappresentano soltanto il destino di un clown vacillante, prossimo a fare della sua ilarità nevrotica un’arma che seppellirà il mondo, ma guardano indietro fino alla malinconica espressione di Lillian Gish in Giglio infranto di Griffith, costretta a tratteggiare su di sé una gioia impossibile da provare.
Nel raccontare la progressiva caduta di un individuo in una tormentosa crisi personale, Phillips s’immerge nella storia del cinema, legando l’angoscia alle diverse facce di una stessa risata, talvolta sconnessa, a volte forzata, sempre scissa al suo interno. È la storia di una frantumazione fatta di frammenti preesistenti in cui il puzzle finale è la turbata risultante.