Non è proprio come scoprire il punto di ebollizione dell'acqua, ma quasi.
Eppure, film dopo film, sorprende sempre vedere come l'accurato studio filologico dei fratelli Coen sul cinema americano, sui suoi meccanismi e sulle sue strutture, si rivolga anche ai caratteristici codici linguistici che da sempre modellano e plasmano il coinvolgimento dello spettatore e la sua capacità di leggere la vicenda attraverso le convenzioni esibite. Convenzioni e modalità linguistiche mostrate spesso solo per il gusto di parodiarle attraverso una beffarda e improvvisa inversione che conduce tutto e tutti, film e spettatori, fuori strada.
Un amo a cui abboccare. In modo quasi fatale, perché derivante da un'esperienza cinematografica sedimentata ormai antropologicamente nel corpo dello spettatore. I Coen lo fanno sempre, perché il ribaltamento delle attese, ma anche delle certezze assodate, è una delle loro cifre d'autore.
In A proposito di Davis (2013) lo mostravano nella breve scena in cui Oscar Isaac, triste cantore folk, si esibiva nella struggente The Death of Queen Jane davanti a F. Murray Abraham. Atmosfera crepuscolare complice, toni commoventi della canzone, pathos del protagonista e un lento, carezzevole movimento di macchina in avanti che trasmetteva l'idea di un'emanazione dell'emotività secondo lo schema triangolare che da Isaac sarebbe andato al pubblico, per insinuarsi anche nel duro proprietario del prestigioso folk club di Chicago, osservatore impassibile su cui, lievemente, si avvicinava in controcampo la macchina da presa. Il suo inappellabile giudizio, «I don't see a lot of money, here», freddava lo spettatore, illuso – seppur per un breve istante – di una possibile breccia proprio a causa del tenue movimento di macchina in controcampo.
Stessi meccanismi suscitati in Ave, Cesare!. Nell'ultima sequenza del film-nel-film, George Clooney, posa da Richard Burton e incedere verso la croce da Victor Mature ne La tunica,
eloquio enfatico e sguardo mistico rivolto verso l'alto come nel finale di Ben-Hur, si esibisce in una tirade di lode e conversione alla figura del Cristo immolato lì a fianco. Primi piani del divo,
linguaggio sciolto e incalzante, piani di reazione dell'intera troupe, che di fronte al profluvio di parole si asciuga partecipe le incipienti lacrime: il discorso di Clooney cresce d'intensità, il suo volto si contrae nell'impegno emotivo massimo, il film-nel-film si sta avviando alla conclusione, il climax sta inevitabilmente arrivando, ma…
Qualcosa s'inceppa. Clooney si blocca all'apice emotivo, non ricorda l'ultima parola, la sua smorfia di smarrimento diventa eloquente,
l'assistente suggerisce «Faith!». E poi, immancabile, il «cut» che pone fine alla scena. Tutto da rifare. Ennesima inversione farsesca dei Coen.
E per di più, la parola mancante è «fede», la cui dimenticanza nel film-nel-film è un voluto (e anche elementare) paradosso, che però diventa una sorta di sottolineatura di senso in funzione del vero finale, quando la macchina da presa si erge sul complesso degli studios rimanendo abbacinata dalla luce mistica della religione del cinema.