Nella riflessione metalinguistica e soffusamente ironica dell'ultimo prodotto di Shyamalan, The Visit, si notano tutti i pregi (ormai evidenti da tempo) e i limiti (per sopraggiunta consunzione) del Found Footage. L'ironia risiede proprio nel fatto che Shyamalan è fin troppo consapevole di questo duplice aspetto.
Nella sequenza in cui i due fratelli protagonisti/operatori decidono di perlustrare il basamento della casa dei (supposti) nonni, lo fanno premettendo che, videocamere in mano e sguardo in macchina, lì sotto «c'è tanta tensione visuale». Tensione data dalla campitura di pilastri che spezzano l'ampiezza della prospettiva, dall'esiguità soffocante dello spazio in cui ci si può muovere solo carponi, dai chiaroscuri che nel livido chiarore di una mattinata invernale offuscano la pienezza del campo visivo.
Dopo il canonico primo piano rivolto allo schermo che spiega la circostanza, illustra le intenzioni immediatamente successive del personaggio (come la ragazza pensa di acciuffare il fratello che si sta nascondendo) e mostra allo spettatore un illusorio controllo della situazione,
una forma umana scapigliata si mette improvvisamente in movimento in contemporanea al suo grido «Eccomi qua!»,
causando una febbrile concitazione nei personaggi che si danno repentinamente alla fuga e il cui correlativo oggettivo sul piano delle inquadrature/sguardo è rappresentato da immagini convulse, sfocate, schizzate, prive di definizione alcuna.
Immagini-incertezza. Si subisce lo stimolo, si percepisce il senso perturbante senza comprenderne la reale natura. Ed è in questo il segreto - forse l'unico effettivo segreto - del Found Footage, fin dai tempi della Strega di Blair che ne ha tracciato il sentiero.
Subito dopo essere sfuggiti alla minaccia patita, da sotto il basamento fuoriesce la nonna, dal sorriso sardonico e con le ginocchia sbucciate: in questo caso, il perturbante dell'indistinto lascia il posto alla stranezza della defamiliarizzazione (una donna anziana può fare uno scherzo così straniante senza che il film si trasformi in una pellicola demenziale?).
Gli elementi si devono rincorrere perennemente attraverso la dilatazione dell'immagine-incertezza, sia essa frenesia del quadro, movimenti violenti come ceffoni, zoomate o messe a fuoco fulminee pronte a sfruttare con logica ancillare la penombra e la mancanza di ancoraggio dei rumori emanati dal fuoricampo. L'entropia sostituisce la definizione, confondendo per un attimo più o meno lungo lo scompiglio con il turbamento, e l'abilità del regista (di qualunque regista si cimenti con il Found Footage) sta nel dilatare il momento senza spezzarne la fragilità dell'incanto.
Forse il Found Footage, dopo la sua insistente ricorrenza nel linguaggio del new horror, è veramente soltanto questo: il barlume di un'inquietudine spuria che non diventa mai vera paura per incapacità congenita e (nel frattempo) raggiunta convenzionalità. Perché tutta l'ansia che si può produrre è esclusivamente nella rincorsa, mai nella rivelazione, spesso talmente scialba da vanificare anche lo sforzo compiuto nella sua attesa.
Sempre che non si ricorra all'effetto assimilabile al semplice «Buh!» compiuto nascosti nell'angolo buio, cui spesso l'horror degli ultimi vent'anni indulge in mancanza di idee più smaglianti. Cosa che Shyamalan realizza in un'altra sequenza, quella in cui la videocamera dei due fratelli è sistemata in cucina per registrare le stranezze notturne della nonna. La quale si avvia in un campo medio verso il margine destro dell'inquadratura rubata (e di cui lei dovrebbe essere ignara)
esce dal campo, per poi ricomparire improvvisamente in primissimo piano sorgendo inattesa dal basso.
«Buh!», per l'appunto. Ma a fare quello sono capaci anche i bambini nella notte di Halloween.
Uno scherzetto senza dolcetto.