Pochi giorni fa (il 3 dicembre) Jean-Luc Godard ha compiuto novant’anni. Avvolto nel silenzio svizzero che gli è consueto, più che schivo scostante, probabilmente intento a pasticciare con i suoni e a tagliuzzare immagini, per comporre un nuovo, futuribile collage nel quale proclama la morte (e perciò la rinascita) del cinema. Sessant’anni sono invece quelli compiuti da Fino all'ultimo respiro, il suo primo, rivoluzionario lungometraggio, che speriamo si possa vedere presto in sala nella copia restaurata dalla Cineteca di Bologna. Per celebrare il compleanno di JLG, ecco la scheda di Adriano Piccardi di Passion, apparsa sul n. 240 di Cineforum, dicembre 1984.
Quadri
C’è un paesaggio invernale, una campagna attraversata dai vettori delle strade così come il cielo freddo che la sovrasta è solcato dalle rotte imperturbabili degli aerei. Uguali e lontani, sono i due volti del doppio che si guardano e si desiderano. La neve li mette in comunicazione, con la proliferazione incommensurabile e ironica delle proprie microstrutture: un tripudio di ordinate geometrie, una catena inesauribile e impazzita di varianti, che con la sua inesauribile monotonia addolcisce il sapore della rinuncia.
C’è un uomo che oscilla, attratto contemporaneamente dalla presenza di due donne, che finirà per inseguire, in compagnia di una terza dalla grazia flessuosa e decisa di chi sa attraversare a suo piacimento il sottile confine tra “realtà” e “sogno”. C’è la Polonia: attualità di sfondo, evocato ma ininfluente, una “coincidenza” buona per trasformarsi in improbabile destinazione di un inseguimento che muove al sorriso (basta una parola per trasformare un’automobile nel tappeto volante su cui far salire una graziosa fanciulla infreddolita ma sospettosa).
C’è un gruppo di persone che cerca di lavorare a un atto di “creazione”: fermi a metà strada tra l’intuizione iniziale e la compiutezza definitiva dell’oggetto. Se la luce fu un tempo il primo passo della vittoria sul caos, qui è proprio la sua insufficienza a fissare lo stallo, l’immobilità in cui tutti dubitosamente permangono. La materia è lì, la si sente pulsare, spingere, per mostrarsi nella continuità delle sue linee e delle sue proporzioni definitive: il frammento lampeggia, prefigura il sublime, prima di arretrare, riassorbito a tensione irresistibile, meta appena intravista.
C’è l’angelo irriducibile che non cede il passo e cerca lo scontro. L’angelo e il suo antagonista, naturalmente, sono un solo soggetto.
La porzione illuminata della realtà è un riverbero di quella immersa nell’oscurità: il cinema si situa nella stretta porzione di spazio in cui questa verità si rivela, e li articola la sua potenzialità. Una volta individuato il luogo, vi si installa disponendosi al discorso: non vi sono leggi che lo costringano a scelte obbligate, ed è per questo che la gente ancora lo ama. Ma c’è la necessità di trovare una storia, e questo è tanto fondamentale quanto difficile; il pubblico ama le storie, il produttore vuole le storie “giuste”. Le storie, prima di raccontarle, bisogna viverle: è ancora possibile? Ognuno di noi è la sua storia: ma non tutti se la sanno portare addosso, renderla visibile.
C’è l'impresa della scelta da affrontare: scelta di corpi e di volti, non meno che di scenografie, costumi, inquadrature, movimenti di macchina. La troupe a volte è proprio un grosso animale che, sperduto, non sa dove andare, se il regista non trova una via d’uscita ai propri vicoli ciechi. Gli spettatori sono altrove, attendono. C’è un film da fare.
Al di là del testo
“Passione” è una condizione umana che partecipa di sfere differenti, ma con-fuse, dell’esistenza, spirituali e materiali: profondamente inerente allo scatenamento della dinamica degli affetti, spesso così imprevedibile e “irragionevole”. Amore, partigianeria, sofferenza morale, secondo quanto ci dice il dizionario rientrano nello spettro dei significati inerenti a questa parola fragile, sempre sul punto di degenerare e trascinare con sé ogni passaggio di sfumatura in una sola, sacrilega, tumultuosa confluenza di parentele. Il teatro in cui questa crisi prende corpo è il set di un film che, a sua volta, tiene lo stesso titolo: quando l’immagine si sgretola e vanifica, insieme alle parole, all’individuazione dell’attore/attrice quale oggetto di desiderio, di dominio, corpo e volto da espropriare e consegnare al “racconto” – al desiderio sovrapposto dello spettatore in attesa. Si tratta di una crisi capace, da una parte, di immobilizzare praticamente le risorse e il lavoro di un’intera équipe di realizzazione, ma di liberare, contemporaneamente, nell’impasse produttiva raggiunta, tutti quegli elementi che collocano proprio il “fare cinema” sotto il segno visibile e meraviglioso della passione: se è vero che «il lavoro ha gli stessi gesti dell’amore ma vissuti con minore intensità», il cinema allora si colloca in una condizione intermedia, che alternativamente può condurre i due poli a integrarsi l’uno nell’altro, impegnato in un equilibrio assolutamente non affidabile, ma appunto per questo capace di sprigionare illuminazioni e incomparabili assaggi di ciò che normalmente si definisce con il termine di “sublime”.
Questo “sublime” prende corpo nell’attimo in cui l’immagine o il raccordo tra due immagini successive si libera irresistibilmente del protagonismo latente che il testo tende sempre ad imporre al film come insieme complesso e finito: Godard lavora sulla fluttuazione degli elementi eterogenei provenienti dalla condizione di stallo del film di Jerzy, per impedire al proprio film di cristallizzarsi in qualsiasi schematicità testuale, e per favorire, al contrario, l’irruzione della rivelazione incontrollabile dalle pieghe meno evidenti del soggetto preso in carico. Che non è altro che quello di un film bloccato per i dubbi del regista intorno alla qualità della luce, alla scelta della protagonista, all’individuazione di una storia che il produttore vuole invece a tutti i costi. Non si tratta di un soggetto “forte”; ampiamente, e anche recentemente, visitato, trova però qui, a differenza che altrove, la strada per distogliere programmaticamente l’attenzione da sé, agganciandola invece direttamente alle implicazioni estetiche cinematografiche che ne scaturiscono. Ci troviamo accompagnati in un’affascinante avventura intellettuale (dove l’intelligenza può essere anche un sentimento) all’interno del corpo-cinema, nel corso della quale nulla è impossibile, neppure l’individuazione di una storia, che naturalmente saprà interrompersi con una piroetta nel momento stesso in cui avrà avuto inizio. E quali sono le stazioni rivelatrici di questo itinerario? Le meno appariscenti, per l’appunto, le più spiazzate rispetto a quello che si direbbe il cuore della vicenda in corso di svolgimento. Isabelle che modifica la composizione dell’inquadratura, variando l’angolazione della fonte di luce che la determina; Jerzy, che facendosi largo tra le comparse, “lotta” biblicamente contro l’angelo; Isabelle braccata tra i macchinari della fabbrica come in un labirinto che non prevede uscite; una mdp che sfora in campo, tra le teste delle comparse e gli elementi scenografici della finzione; Hanna, che non riesce a guardare il proprio volto riprodotto nello schermo del monitor; Jerzy e Isabelle che parlano mentre Lazlo cerca di interromperli battendo ripetutamente alla finestra; Sophie che ricompone periodicamente la perfezione del cerchio, come una cifra intraducibile, facendo la ruota con il proprio corpo; un movimento di macchina che riconduce alla “tridimensionalità” il soggetto pittorico ricostruito da Jerzy per il suo film. In momenti come questi Godard si conferma ancora l’unico cineasta capace di strappare alla realtà più apparentemente inessenziale, attraverso il suo raddoppiamento in immagine e la ricomposizione in elemento del discorso filmico, tutta la capacità di fascinazione rintracciabile nello statuto stesso di immagine; e, contemporaneamente, di riproporne lucidamente tutta la complessità di significante in cui si stratificano (e si armonizzano con tutte le restanti “inessenzialità”) livelli di approccio e di interpretazione molteplici: dalla riflessione sull’estetica cinematografica all’intervento sulle coordinate del rapporto spettatore/film, dall’indicazione epistemologica sul cinema come strumento di un sapere contemporaneamente distaccato e mimetico, alla sollecitazione “religiosa” (anche se, come ha detto l'autore, «Non si tratta di un film religioso, assolutamente, ma ci siamo detti alla fine... che avevamo raggiunto il peccato»).
Tre donne
Hanna è la persona dai cui tratti trapela una storia vissuta, è la persona che ha un passato e che si muove in una prospettiva di conclusione; ma l’esperienza che l’ha maturata e resa sicura di sé non le basta a sopportare la visione dell’immagine del proprio volto registrata durante un provino. Lo schermo è lo specchio di Narciso, ma la differenza fondamentale tra i due è che il primo non può rimandare l’immagine del corpo dello spettatore; quest’ultimo ne è, paradossalmente, ma – tutto sommato – fortunatamente per lui, escluso. La fortuna consiste nel fatto che l’esclusione comporta l’abolizione dell’enigma fondamentale, costituito proprio dal rispecchiamento nella propria immagine. Il turbamento di Hanna è uno di quei momenti assolutamente unici del film, in cui le porte si aprono su questa esperienza vertiginosa della presenza dell’enigma, del rispecchiamento perturbante in esso.
L’attore deve essere persona dai nervi saldi, e dalle difese sempre pronte a proteggerlo nel confronto continuo con l’altro se stesso che ogni volta lo attende al varco nell’immagine-specchio. L’abitudine finisce poi per fare il resto, normalmente. La Schygulla sicuramente offre in questo breve frammento uno dei momenti più alti di tutta la sua storia cinematografica, nella simulazione della reazione primaria, che a sua volta si raddoppia in immagine.
Isabelle è la donna che vive l'inizio della storia: le possibilità sono tutte davanti a lei, come i sogni e l’oscurità di un caos in cui ancora non sa dare corpo definito alla propria voce, e balbetta. Non si trova: il labirinto la imprigiona, come i rami degli alberi nell’inquadratura di lei vicino al torrente. Ma una prigione può essere a volte anche il rifugio necessario dove misurarsi con l’inconosciuto, senza subire la prematura irruzione di un esterno ancora troppo minaccioso: nell’oscurità si muovono allora i fasci di luce a delimitare e a rimodellare di volta in volta i volumi dei corpi, dei volti.
Isabelle può sopportare ancora tutto: ha dalla sua la forza smisurata di chi ha ancora tutto da perdere. Chi se non lei, la piccola operaia dalla reticente testardaggine e dall’humour sotterraneo, poteva sostenere l’acida bellezza di quel montaggio parallelo tra l’incontro erotico con Jerzy e l’esplorazione “tridimensionale” della Vergine di El Greco? Sophie, infine, la ragazza che fa la ruota: l’angelo (custode) probabilmente...
Si salvi chi può (il cinema)
La luce crea l’immagine in rapporto al buio che la nutre. La macchina da presa lavora sull’ambiguità di questo rapporto fisico per trasformarlo, mediante la chimica, in emozioni e sentimenti. Commistione di ambiti tradizionalmente separati, contaminazione di procedimenti artistici diversi: il cinema si muove a dispetto di qualsiasi aspirazione alla purezza, e trae la sua forza dalla capacità di “sporcarsi” nel corso del proprio tragitto realizzativo e distributivo, misurandosi continuamente con le istanze più diverse, con il disordine oscuro della materia (economica, sociale, “culturale”), solamente in rapporto al quale può fare scaturire la luce delle proprie immagini, il magico dispositivo della narrazione (anche il lirico Passion è comunque e finalmente un film narrativo a pieno diritto).
Si tratta di un lavoro a volte sovrumano, a volte risibile nella sua presunzione di voler fare quadrare il cerchio, sembra dire Godard, ma comunque capace di far balenare nei momenti più impensati il raggio abbagliante del sublime: la poesia di Passion si libera dall’oscurità e dall’imperfezione delle luci che determina l’impasse del film nel film. Godard sceglie di ricreare questa inadeguatezza, valendosi della preziosa collaborazione di Raoul Coutard, per farne la condizione necessaria alla compiutezza del proprio film. Il suo discorso vuole saggiare, in questo senso, anche potenzialità nascoste nelle zone d’ombra che l’uso limitante del patrimonio tecnico e “linguistico” elaborato dal cinema nel corso della sua storia contribuisce, all’opposto, a infittire. Si tratta di una disposizione rintracciata anche nel film precedente, Si salvi chi può (la vita). Passion è direttamente mirato al nocciolo del problema concernente il cinema come autoconsapevole processo di creazione e di riproduzione di sé, macchina celibe in moto perpetuo di sopravvivenza: il discorso di Godard si fa allora più distanziato rispetto alle aspettative di riconoscimento messe in moto dallo spettatore, ma questo ostacolo è più fragile di quanto non si pensi. Poiché sullo schermo si viene mostrando la più ipnotica delle operazioni: una lezione di anatomia condotta su quella fabbrica di immagini che è il cinema, là dove prende corpo il mito più antico e universale, come dice Edgar Morin, ossia quello del doppio, nella cui rassicurante proiezione allucinatoria sconfiggiamo – ogni volta che si spengono le luci in sala – la paura della morte.
«I film sono sempre più insignificanti, e il mito del cinema è sempre più grande. Un giorno il cinema sparirà, resterà come mito, un mito più forte che mai».