Il capolavoro di John Carpenter compie quarant'anni e grazie a QMI Stardust torna nei cinema il 15, 16 e 17 ottobre in versione restaurata e rimasterizzata (dal direttore della fotografia Dean Cundey). Per l'occasione siamo andati a vedere cosa ne scrisse Cineforum nell'agosto del '79, quando Carpenter era ancora un giovane e promettente autore del nuovo cinema americano ed Ermanno Comuzio, trattandolo inevitabilmente come tale, ne analizzava i primi lavori (in particolare, Distretto 13 - Le brigate della morte e lo stesso Halloween). Clicca qui per acquistare il numero 186 della rivista.
Doppio biglietto da visita del giovane John Carpenter, regista, sceneggiatore, montatore, musicista. Uomo-orchestra nato nel Kentucky e laureato in cinema in California, premio Oscar per il miglior cortometraggio del 1970, sceneggiatore dell'interessante Gli occhi di Laura Mars (che la diceva lunga sulla predilezione del Nostro per l'Immagine), Carpenter ha licenziato finora tre film, Dark Star nel 1974 (storia di fantascienza dalle scenografie che rifanno a quelle di 2001: Odissea nello spazio), Distretto 13 - Le brigate della morte nel 1976 e Halloween nel 1978. Questi due sono arrivati sui nostri schermi a breve distanza l'uno dall'altro. Bastano a permettere una definizione o una valutazione del loro autore?
Forse no, ma bastano a dirci due o tre cose sul suo conto. Sulla sua formazione di cinéphile, per esempio, sulla sua attenzione ai classici del cinema americano, sul suo ossequio ai generi e allo stesso tempo sul loro smontaggio, sul suo penchant allegorico e soprattutto sul suo rifiuto di ogni alibi concettuale a favore dello spettacolo puro, fondato sulla visione come strumento del fantastico.
In Distretto 13 - Le brigate della morte assistiamo quasi in tempo reale (dal tramonto alla sera) all'agguato teso da una banda di teppisti assassini e fanatici a un isolato commissariato di polizia, alla periferia di Los Angeles. Dentro ci sono una tenente di colore, due funzionarie, tra malviventi in guardina, tra i quali un condannato a morte, e un “pacifico” signore al quale i teppisti han fatto fuori una figlia a sangue freddo e lui si è vendicato uccidendo uno di loro. Sia gli assediati che gli assedianti assottigliano le rispettive file nel corso di assalti violentissimi e sanguinosi, che verranno poi risolti grazie all' intervento, che pareva sempre più improbabile, di una forza esterna.
Una storia di violenza, quindi, tanto più inquietante, in apparenza, quanto più gratuita, non motivata, all'origine, da alcuna ragione. Gli assassini sono legati da un patto di sangue (fanno parte della banda Vodoo) e perseguono astrattamente il sangue e la morte, ma non sappiamo chi sono realmente e cosa vogliono. Nella loro delirante ferocia non sono personaggi umani né tanto meno dei problemi morali, somigliano piuttosto agli zombi. Dice bene Farassino: «È il loro mutismo, la loro mancanza di identità, la loro capacità di dileguarsi, riapparire, far sparire i cadaveri, il loro muoversi come guidati da una forza cieca, che trasforma l'intera vicenda in un incubo surreale».
Niente sociologia, quindi, solo la resa spettacolare di un'atmosfera d'incubo; e tutti quei morti che restano per terra, a mucchi, sono oggetti, materiale scenico. E nessuna dichiarativa per il fatto che il condannato a morte viene armato e scende a fianco dei poliziotti contro i pazzi scatenati di fuori: la cosa è imposta dalle circostanze. Salvarsi la pelle è un'esigenza che scavalca gli steccati delia legge, e li passaggio è compiuto senza che nessuno vi filosofeggi sopra.
Spirito allegorico? Si può vedere nel racconto quanto sia fragile la cosiddetta civiltà avanzata (che ha superato, per esempio, più o meno, la barriera del razzismo), vista l'incredibile situazione “selvaggia” che si può verificare in una metropoli d'oggi («Siamo a Los Angeles, non in una giungla», si fanno coraggio gli assediati. Eppure a Los Angeles accadono cose da giungla). Oppure si può riflettere sulla necessità che le canoniche divisioni della società organizzata (i buoni e i cattivi, i giusti e i reprobi, i liberi e i carcerati) vengano superate dal bisogno della sopravvivenza di fronte a forze altre (il terrorismo, non i marziani) che si pongono, queste sì, al di fuori non tanto del consorzio umano quanto dalla dialettica dell’esistenza.
Anche il protagonista di Halloween è out. È un ragazzino psicopatico che, la vigilia d'Ognissanti del 1963 (la notte di Halloween, quando le streghe vagano nella notte e i bambini mettono sul davanzale, per tenerle lontane, zucche scavate e Illuminate all'interno da una candela) uccide a coltellate la sorella, rea di fornicare con l'amichetto. Dopo quindici anni, il ragazzino diventato giovanotto evade dall'ospedale psichiatrico dov'è stato rinchiuso e ritorna ad Haddonfield , la cittadina dell'Illinois dov'è successo il fattaccio, e lo ripete, prendendo per vittime alcune ragazze disinvolte che si rendono colpevoli, agli occhi dell'assassino, dello stesso delitto della sorella, cioè di abbandonarsi ai piaceri dei sensi.
Un racconto dell'orrore, quindi, con il tipico psicopatico che uccide. Ma anche qualcos'altro, la sensazione che forse la dimensione non è soltanto quella scientifica, razionale, ma che le antiche credenze pagane della “notte delle streghe” c'erano per qualcosa. Anche qui, il dato “umano” è sottratto sotto il naso dello spettatore e sostituito con quello della suggestione astratta con l'allusione metafisica a creature (del regista, non di Domineddio) che sono mere pedine di un gioco della rappresentazione (dell'Immaginarlo, come è di moda dire).
Se l'assassino è uno psicopatico, non per questo è “personiflcato” (all'Inizio non ha volto: in una lunga soggettiva l'occhio dello spettatore si identifica col suo, e quando agisce in seguito ha il volto coperto da una maschera); il medico non pensa nemmeno lontanamente di riprenderlo per curarlo – era custodito come un fenomeno, uno scherzo della natura, un mostro – e pensa soltanto ad abbatterlo. Non-umano, appunto: del resto i ragazzi che si asserragliano in casa, la notte di Halloween, vedono in TV il film La cosa da un altro mondo…
Funziona dunque come spettacolo? Indubbiamente sì, ed è questo che importa, anche se a un certo punto Carpenter si lascia prendere dall'euforia del gioco, premendo a fondo il pedale dell'orrore (quell'assassino ripetutamente colpito, che si accascia apparentemente liquidato, e che sempre si risolleva minaccioso…). È un regista che fa soprattutto contenti i sostenitori del cinema del godimento; come Brian De Palma, di cui segue un po' le tracce.