… una vita per la moto. Giovedì scorso John Holmes avrebbe compiuto ottant'anni. Nato ad Ashville, Ohio, l'8 agosto 1944, il giovane Holmes inizia a fare diversi lavori finché un giorno, nel bagno di un locale di Gardena, California, riceve i complimenti di un altro avventore che, notate le dimensioni non comuni del suo “apparato”, gli consiglia di darsi al cinema porno («Soffrivo le pene / per colpa del pene / ma più il problema non si pone / perché il pene mi dà il pane», canteranno poi in immortali versi Elio e le Storie Tese). Sono gli anni 70, il genere è in piena fioritura e la San Fernando Valley è una specie di Hollywood alternativa, descritta da Paul Thomas Anderson nel suo Boogie Nights del 1997, in cui Holmes è adombrato dal Dirk Diggler di Mark Wahlberg. Riproponiamo dunque la recensione del film, scritta da Emanuela Martini e pubblicata su «Cineforum» n. 372, marzo 1998.
Capodanno 1979, una festa in una villa della San Fernando Valley (succursale hard core di Hollywood). Personaggi si incontrano, si abbracciano, ballano; coppie si separano e si ricompongono; in una stanza, un signore azzimato spiega ad altri due che il cinema (soprattutto quello porno) sta andando verso il video, e un altro (il padrone di casa, regista hard core) ribatte seccato: «Se si sente di merda e si vede di merda deve essere di merda»; un giovanotto grasso e un po' impacciato si dichiara appassionatamente e maldestramente al suo amico, la giovane star Dirk Diggler, che gli sta mostrando la sua nuova Corvette rosso fiammante, e che imbarazzato respinge le sue avances. Pochi minuti prima della mezzanotte, Little Bill, il direttore della fotografia della compagnia, va in cerca della moglie e, come è più volte accaduto nel corso del film, la trova a far l'amore con qualcun altro, in una stanza della villa. Little Bill esce, la macchina da presa non lo molla un istante, in un piano sequenza che lo accompagna fino alla sua auto, dove dal cruscotto prende una pistola e le pallottole, poi mentre carica l'arma, ritorna sui suoi passi, rientra e, attraverso lo stesso percorso, ritorna alla stanza ed esplode tre colpi. Uno stacco e vengono inquadrati gli altri ospiti della festa, sorpresi nel bel mezzo del conto alla rovescia. Little Bill in primo piano li guarda, sorride, si mette la pistola in bocca e si spara.
Si chiudono così in Boogie Nights gli anni 70, decennio segnato da un kitsch tanto estremo e, alla sua maniera, naïf da apparire oggi quasi sublime, oltreché decennio mitico per il cinema hard core (che uscì per un momento dal ghetto del consumo sotterraneo per strutturarsi secondo linee narrative e scelte stilistiche precise) e per il cinema americano in generale. Come ha detto il regista Paul Thomas Anderson in un'intervista a «Sight and Sound»: «In termini strutturali ed emotivi, è chiaro: prima metà/seconda metà, 70/80». E, se la prima parte del film è contemporaneamente entusiastica e interrogativa, segnata dai “fad” del decennio (zampa d'elefante e febbre del sabato sera, Bruce Lee e serie televisive action, cultura pacifica della droga, libertà sessuale e famiglia allargata), la seconda parte, sugli anni '80, è invece all'insegna della decadenza dell'industria porno e di quella del divo Dirk Diggler, ritmata dalla velocità frammentata e nevrotica della cocaina e dalla tensione cupa della sofferenza e dell'incapacità di riconoscersi.
Molti, a proposito di Boogie Nights, hanno citato Quentin Tarantino. L'influenza di Tarantino evidentemente c'è, esplicita e consapevole; ma riguarda non a caso soltanto la seconda parte del film, e in particolare la sequenza “telegrafica” della rapina e la sparatoria nel drugstore e, soprattutto, quella, delirante e psicologicamente quasi insostenibile, della visita e della tentata rapina nella casa del mercante di droga. È il cinema di oggi (e quello degli anni 80 che l'ha generato) che accelera spasmodicamente i tempi dell'azione, azzera l'indagine psicologica per gettarsi in un accumulo oscillante tra ironia surreale e noncurante puntualità, suggerisce, visivamente e narrativamente, la dilatazione di un trip cocainomane. La sua percezione è contemporaneamente acuminata e amorfa. Ma, più indietro, negli anni 70, sono altre le influenze dichiarate da Boogie Nights. La prima parte, chiusa tra tre grandi party (ai quali vanno aggiunte le altre sequenze “collettive”, il rientro nelle rispettive case al termine della prima nottata, le riprese del film hard, la cerimonia degli Adult Film Awards), con i carrelli che vanno a scovare i diversi personaggi e gli zoom che vanno a scavare nei loro volti, con il movimento sinuoso di piani sequenza instancabili, denuncia un debito inequivocabile verso il cinema di Robert Altman. Nashville è una delle fonti citate esplicitamente da Anderson; ma in realtà è tutto l'Altman del “periodo d'oro” che traspare tra le righe di Boogie Nights, a partire dalla scelta narrativa esplicitamente corale per arrivare a dettagli narrativi quali i numerosi “doppi” (Dirk e il suo amico Reed, il colonnello James e Floyd Gondolli) e a evidenti rimandi stilistici.
Boogie Nights è il secondo film in molti anni che spezza la quasi univoca “eredità” di Scorsese nel cinema americano anni 80 e 90, per richiamarsi alla quasi dimenticata lezione di Altman. Il primo era Sydney, il lungometraggio ambientato a Las Vegas, a tre voci e bassissimo costo, con cui Paul Thomas Anderson ha esordito nel 1996 (film “da camera”, e perciò inevitabilmente non corale, tutto come ambientato, però, in quel “fuori scena” che è stato proprio la “scoperta” del cineasta degli anni 70). Si tratta di un cinema che non ha paura dello scorrere del tempo, dei vuoti che stanno tra i pieni narrativi, e della sofferenza e dello spiazzamento (per lo spettatore) che possono derivare da questa “ostinazione” della macchina da presa. Nella stessa intervista, Anderson ha sottolineato: «Ci sono sequenze per le quali mi era perfettamente chiaro che saremmo dovuti entrare dalla porta principale e restare là. Sono un grande sostenitore di quella regola drammatica che dice: “Arriva tardi e vattene presto”. Funziona la maggioranza delle volte. Ma ci sono momenti in cui bisogna fermarsi e soffrire e guardare quello che sta accadendo. Per me, la sequenza in cui Little Bill attraversa la casa è il risultato della mia incapacità di figurarmi il momento in cui decide di uccidere sua moglie. Perciò, l'unica cosa che potevo fare era restare attaccato a lui, quando arriva al party, e seguirlo quando la trova, ed essere sicuro che l'avrei seguito lungo tutto il percorso. Quand'è che gli scatta l'idea? Quando li vede? Quando chiude la porta della stanza? O quando Rollergirl gli spara in faccia il lampo della polaroid?». La percezione, in questo caso, diventa “impressionistica” e, nello stesso tempo, sottilmente inquisitiva. Una sofferenza sotterranea e ammaccata tesse la commedia, fino a sfrangiarla in paradossale tragedia.
Al centro, l'altro maestro degli anni 70, la cui influenza invece si è allungata attraverso i due decenni successivi, Boogie Nights si apre con una riconoscibilissima citazione da Quei bravi ragazzi di Scorsese: il lungo piano sequenza che accompagna Jack Horner all'interno del locale dove incontrerà per la prima volta Dirk (che si chiama ancora Eddie Adams) richiama apertamente l'ormai celeberrimo (e citatissimo) piano sequenza con il quale Scorsese sottolineava l'ingresso nel locale di Ray Liotta con la sua ragazza. Ma il debito di Anderson verso Scorsese è più complessivo. Come, ancora, ha detto il regista, tutta la seconda parte del film tenta di ricreare la concitazione forsennata e irragionevole che muove Ray Liotta immerso nel traffico (e nel consumo) della cocaina. E naturalmente ci sono gli abissi di disperazione e degradazione fisica e psichica nei quali a poco a poco affondano, come gli “eroi” di Scorsese, i personaggi di Boogie Nights. Il mondo, negli anni 80, si colora sempre più di nero, e la percezione si fa esasperata, nevrotica, autodistruttiva.
Notti in famiglia - Raccontato in questi termini, Boogie Nights potrebbe sembrare giusto un abile collage di citazioni e omaggi al cinema del passato prossimo. In realtà, il lavoro di Anderson è del tutto nuovo e autentico, e tanto coraggioso da non sottrarsi alla consapevolezza delle proprie fonti. Addirittura, con i suoi centocinquantacinque minuti, i suoi piani sequenza, la sua ambientazione hard core (che, si sa, lo emarginerà dalle emissioni televisive), è uno dei film americani più coraggiosi e inventivi degli ultimi anni (probabilmente, dell'intero decennio 90). È un film che sa parlare di sesso e di droga con leggerezza ironica, rifuggendo sia il paternalismo che il trionfalismo, che sa gettare uno sguardo lucido e problematico sull'ascesa e caduta di una vita americana “esemplare”, senza per questo crogiolarsi nell'autocommiserazione. Ama i suoi personaggi (che sono tutti veri “personaggi” e non semplici figure sullo sfondo dell'azione), al punto da consegnarli a un amarognolo lieto fine («Ho cercato di arrivare al lieto fine più triste che potessi immaginare. Sarebbe forse stato più facile punire questi personaggi, farli morire, per esempio. Ma non era il finale che sentivo, e in ogni modo non è quello che succede di solito nella vita reale. Alla fine, Dirk e tutti gli altri si preparano a fare un altro film porno. Ma, alla fine di questo viaggio, cos'hanno imparato?»). Quello che succede nelle vite vere è un continuum, disseminato di alti e bassi e soprattutto di “momenti piatti”. Attraverso il suo stile puntuale e una strutturata commistione di generi e toni, Anderson riesce a offrire proprio questa immagine, affollata e continua. E va in questo senso l'ultima delle influenze cinematografiche, forse la più forte dal punto di vista emotivo, anche se la meno percettibile da quello propriamente cinematografico: Jonathan Demme, un maestro delle sterzate tra un genere e l'altro, capace di legare momenti emotivi e narrativi quasi opposti con l'ironia, con l'affetto per i suoi personaggi e con un folgorante acume psicologico e ritmico. Citatissimo da Anderson in tutte le interviste (soprattutto per Qualcosa di travolgente e Melvin and Howard), Demme ha anche sempre avuto quel senso del “clan” (familiare, cinematografico e culturale) che pesa tanto su entrambi i film di Anderson (che cominciano tutti e due in maniera molto simile a Melvin and Howard).
Sydney e Boogie Nights non sono solo due meticolose descrizioni di famiglia allargata, di scelte elettive, di sbalestrati parenti “acquisiti” (un killer, una porno diva, una “rollergirl” che non si toglie i pattini neppure quando fa l'amore) che pure sono migliori di quelli veri, di ambigue figure paterne che si presentano con fattezze decisamente minacciose per rivelarsi poi sinceramente affezionati ai “figli” prescelti (sia il gangster Philip Baker Hall in Sydney che, qui, il regista Burt Reynolds vengono scambiati per maturi omosessuali nel loro primo approccio con i giovani protagonisti dei due film). Sono anche due film che trasudano confidenza e affetto familiari. Non solo per la bizzarra connotazione “familistica” dei due ambienti nei quali si svolgono (quello degli habitué del gioco d'azzardo e quello del cinema hard core), ma anche per la ricchezza dei riferimenti culturali sotterranei, che riflettono una vera e propria “aria di famiglia”, in senso letterale e nel senso più ampio della famiglia dell'immaginario mid-cult (e mass-cult) americano (dietro le quinte della grande Hollywood, tra la serie B, il porno, la televisione, i Midnight Movies e il cinema indipendente che fioriva in ogni sperduta provincia), che tanta parte ha avuto nel cinema degli ultimi tre decenni, da Demme a Tarantino. Ma, mentre Tarantino (per esempio nella sequenza del colosso imbragato in pelle nera nella cantina della ferramenta in Pulp Fiction) gioca questi elementi in termini paradossali, con isterica ilarità, Demme li rielabora in quanto tessuto della narrazione, codice di riferimento comune tra i personaggi, il cineasta, gli spettatori.
La stessa armonica disinvoltura sembra caratterizzare il cinema di Paul Thomas Anderson, figlio di Ernie Anderson, un famoso doppiatore e intrattenitore notturno di Cleveland che, con il nome di Ghoulardi (come la compagnia che sigla la produzione di Boogie Nights), introduceva vecchi film dell'orrore, e figlioccio di Robert Ridgely (il colonnello di Boogie Nights è un volto ricorrente nei film di Demme, che nel video che Anderson girò a diciassette anni, intitolato The Dirk Diggler Story, interpretava la parte di Jack Horner), morto alla fine delle riprese e al quale il film è dedicato. In un articolo sul numero di settembre-ottobre di «Film Comment», Chuck Stephens individua decine di riferimenti di questo genere, che collegano i film di Anderson con questa diffusa cultura americana. Alla sua maniera “figlio d'arte”, con la sua capacità di riallacciarsi “positivamente” (cioè in termini di “ricostruzione” narrativa e ideale) alle esperienze cinematografiche e culturali dell'ultimo grande momento del cinema americano (gli anni 70, da cui tutto il resto, nel bene e nel male, deriva), Paul Thomas Anderson potrebbe interrompere la “deriva” del senso cui (nel bene e nel male) il cinema americano degli ultimi due decenni sembra essersi votato.