Lavorare sul territorio: sono più di 100 le produzioni sostenute dalla Trentino Film Commission

La felicità è un sistema complesso di Gianni Zanasi

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Continua la nostra panoramica tra i film realizzati con il prezioso contributo della Trentino Film Commission, fondata nel 2010  e  attivissima nella promozione e nel sostegno di produzioni cinematografiche e televisive italiane e internazionali che valorizzano il territorio e la cultura della regione (fra i titoli principali, La sedia della felicità di Carlo Mazzacurati, che abbiamo riproposto quattro settimane fa, La prima neve di Andrea SegrePiccola patria di Alessandro RossettoRestiamo amici di Antonello Grimaldi e un centinaio di altri titoli).

Vi riproponiamo qui la recensione di Tullio Masoni e Paolo Vecchi, pubblicata sul n. 551 di «Cineforum», gennaio/febbraio 2016, di una delle più note produzioni della Trentino Film Commission: La felicità è un sistema complesso di Gianni Zanasi, girata fra Trento, Riva del Garda e Valsugana.


Elogio del disequilibrio

Enrico Giusti (Valerio Mastandrea) fa un lavoro strano: avvicina, fraternizza, segue, indirizza dirigenti incompetenti di grandi aziende – eredi scansafatiche, rampolli sognatori e inconcludenti, manager bolliti ed egotisti – per convincerli a lasciare il loro posto di responsabilità e godersi una vita agiata. Cerca di evitare, mettendosi a servizio di misteriosi faccendieri senza scrupoli al servizio del capitale, che il tracollo delle varie società si trasformi in fallimenti e licenziamenti: fa in modo che il sistema sopravviva per limitare le vittime collaterali, per proteggere – crede – gli anelli deboli della catena produttiva. Un lavoro schizofrenico (Enrico odia l’implacabile e asettica piramide economica al cui servizio si dedica con zelo) che lo porta a indossare una superficiale corazza in grado di proteggerlo dai fantasmi personali dovuti alla fuga del padre, anche lui imprenditore in difficoltà costretto a sparire dai debiti e dalla crisi. Enrico sembra imperturbabile fino a quando una misteriosa ragazza israeliana e un nuovo incarico da affrontare lo mettono sotto scacco. La giovane Achinoam (HadasYaron) gli piomba a casa come un sasso scagliato dal fratello minore Nicola, in fuga da responsabilità sentimentali, mentre i due nuovi soggetti da controllare, gli adolescenti Filippo e Camilla, orfani di una coppia vittima di un incidente stradale, dimostrano una sensibilità impermeabile al solipsismo viziato cui Enrico è abituato.

La felicità è un sistema complesso di Gianni Zanasi racconta il rapsodico punto di rottura di un uomo che si è nascosto dietro una maschera, asettica e anaffettiva, e la vede frantumarsi. Sin dalla prima scena il racconto procede per bizzarrie, mantenendo un tono lieve e sghembo per raccontare una storia serissima: la crisi esistenziale di Enrico è quella del mondo in cui è calato e con cui non sa trovare una relazione se non attraverso le regole meccaniche del proprio mestiere. Enrico costruisce per interesse amicizie posticce con persone che non stima, che rappresentano il lato spensierato e marcio di una società implacabile che genera le rovine di cui lui stesso paga le conseguenze. Il metronomo della sua esistenza è regolato da leggi precise, da un’insonnia congenita, da una casa che abita senza coinvolgimento e da vestiti che indossa come uniformi. Achinoam rappresenta un imprevisto da scacciare come un moscone; Filippo e Camilla sono due giovani da manipolare per arrivare allo scopo prefissato, bambini da sedurre e convincere alla resa con un gioco di bolle di sapone.

Ma se il cuore del film è nel personaggio di Mastandrea (come sempre bravissimo a recitare per sottrazione), è proprio nei ragazzi che si cela il suo motore principale. Già dal loro ingresso in campo Zanasi ribalta programmaticamente l’equilibrio del film: dopo aver mantenuto nella prima parte uno stile orizzontale e asciutto, all’apparire di Filippo e Camilla il suono invade lo schermo – Victim dei Win Win, gruppo electro-pop della hipsterissima Brooklyn, recita non a caso: «Can somebody tell me how did I become a victim of society?» – e la macchina da presa abbandona la gravità lasciandosi andare a rotazioni che letteralmente ribaltano i protagonisti e mettono il mondo a testa in giù. Il film assume un andamento musicale – l’insistita colonna sonora è il controcanto ideale della storia: canzoni che accompagnano e puntellano la narrazione come una playlist – con strofe e ritornelli e, forse, qualche assolo di troppo, qualche nota stonata, qualche digressione non sempre centrata.

Quando il mondo, anche interiore, dei ragazzi inizia a svelarsi risaltano stridenti le ingessature degli adulti. Ma se i potenti sono personaggi bidimensionali – vestiti tutti uguali, con voci monocordi e atteggiamenti precotti – i giovani sono imprevedibili e creativi, nelle decisioni come negli affetti. È in questa frizione che Enrico mostra le sue crepe mentre l’aliena Achinoam, che beve dalla doccia e ama dormire per terra, fa della sua anormalità un pacato stile di vita. «Noi non siamo persone che scappano» ripete Enrico al fratello in fuga ma parla, inconsciamente, soprattutto a se stesso. E se la storia è scandita come un metronomo dalla compresenza di musica e azione – il funerale dei genitori sulle note di Just a Habit dei Low Roar, la scena in ospedale dopo il goffo tentato suicidio di Achinoam accompagnato da In a Manner of Speaking dei Tuxedomoon nella versione morbida e confidenziale dei Nouvelle Vague – l’evolversi sotterraneo degli eventi porta dritto alla disintegrazione delle certezze e degli equilibri di Enrico, al concretizzarsi di un’anomalia.

Mastandrea riesce a trasmettere lo smarrimento del suo personaggio con poche e controllate espressioni: uno sbigottimento sempre in agguato, un sorriso sempre più irrigidito, uno sguardo che tende a perdersi nel vuoto. Gli spazi in cui si consuma la sua esistenza pubblica – ché quella privata è del tutto inesistente – sono quinte ripetute: ville, ospedali, aeroporti, piscine, ristoranti. Una litania di non luoghi che fanno da sfondo all’alienazione mascherata a fatica dal protagonista. A metterlo in crisi è quindi il fattore emotivo messo in campo da Filippo e Camilla: una partita di rugby – sport per antonomasia basato su contatto fisico e lealtà, due cose scomparse dall’orizzonte di Enrico – con il sottofondo euforico e colorato della She’s a Rainbow dei Rolling Stones o la gelosia improvvisa per la preparazione di una torta da cui Camilla e Achinoam – immediatamente amiche perché creature emotivamente senzienti – lo escludono.

Zanasi manipola impercettibilmente il film squilibrando l’inquadratura e lavorando sulla distonia. Achinoam è quasi sempre a terra e costringe letteralmente Enrico ad abbassarsi, i ragazzi si muovono per scarti, il nervosismo sotterraneo diventa febbre stilistica, a volte ai limiti della ridondanza (il fellinismo di un dialogo filosofico tra i fumi di una grotta; improvvise frammentazioni da videoclip; qualche vezzo démodé; un uso non sempre centrato del ralenti). Mentre Enrico osserva sgomento il baratro in cui precipita il suo quotidiano in cui si era artificiosamente rifugiato, il modo diverso di vedere le cose di Filippo e Camilla, la loro gestione del lutto, il senso di responsabilità che non scansano ma piuttosto adattano ai loro pensieri, disegna scenari imprevedibili.

In un mondo adulto che si disinteressa del prossimo e delle generazioni future, ridotto a monade votata all’arricchimento, i due ragazzi rappresentano la maturità di uno sguardo rivolto all’esterno, disposto verso gli altri, a suo modo ribelle. Loro sono i Children of the Sun cantati dai Dead Can Dance in una delle scene in cui silenziosamente Filippo e Camilla prendono coscienza e ipotizzano una disubbidienza, perché la fede e la speranza sono il loro volontariato mentre l’avarizia e l’accidia sono i nemici da combattere («Faith, hope, our charities. Greed, sloth, our enemies»).

Più la storia procede e più l’anima profonda del film si svela: è uno scontro generazionale, un corpo a corpo tra la gabbia di una società adulta schematica e vile e la libertà tattile, naturale, emotiva di un mondo giovane che sceglie di smettere di tacere. Una lotta liquida tra i vivi e i morti in cui Enrico si trova schiacciato, costretto dalle libere scelte di Achinoam a invertire i ruoli per trovarsi infine sconfitto e libero. I giovani rappresentano per il protagonista elementi non riconducibili a un’equazione – quella su cui aveva giustificato le sue scelte difensive – e infine un giubbotto di salvataggio, un’ancora di salvezza. Gli mostrano qualcosa di diverso: You Showed Me, cantano i Turtles. In questo elogio del disequilibrio ondeggia tutto il film che assume, procedendo verso la conclusione, i toni sfocati di una dolce allucinazione, accompagnata da stralunati nonsense (la Torta di noi biascicata al karaoke da Mastandrea) e dalla sensazione che l’universo si stia per rovesciare, come nel moonwalk di Michael Jackson in cui si finge di avanzare e invece si va indietro, in cui l’asincronia si trasforma in creatività, in cui il contatto può significare una levitazione, una perdita, finalmente, della zavorra gravitazionale che ci schiaccia.

Ed è come una liberazione che alla fine Enrico accetta il suo fallimento, come un esorcismo riuscito verso i suoi fantasmi, lo scardinamento di un blocco esistenziale. Così il film scivola nei suoi molti finali, tra balletti muti in stazione che sanno di Blow-Up antonioniani virati in commedia, uscite da tunnel verso una luce bianchissima e sonni su un pavimento finalmente morbido: quello di Zanasi si rivela un film quasi orgoglioso delle proprie imperfezioni, discontinuo e sovraccarico ma ricco di un’energia atipica per il cinema italiano, privo di paternalismo e felice di gettare uno sguardo dritto e fermo nel futuro, pieno di amore e di fiducia verso quei giovani abitualmente ridotti a specchi impersonali del nostro narcisismo.