Alice Munro purtroppo ci ha lasciato un paio di settimane fa. La scrittrice canadese, raffinata e sensibile indagatrice dell'animo e delle relazioni umane, si è sempre servita prevalentemente del racconto, spesso riorganizzandone sapientemente le strutture e utilizzando in maniera suggestiva lo sfondo della sua provincia natale, l'Ontario sudoccidentale. Nonostante le sue raccolte di racconti siano una potenziale miniera, al cinema non ha finora incontrato granché fortuna. Giusto due film: Julieta di Pedro Almodóvar (che però perde lo sfondo canadese) e il più riuscito Away from Her – Lontano da lei di Sarah Polley. Nell'attesa che anche Alice Munro trovi un regista che renda giustizia cinematografica al ricco universo dei suoi racconti, come fece Robert Altman con quelli di Raymond Carver, riproponiamo la recensione del film di Sarah Polley a cura di Michele Marangi, pubblicata su «Cineforum» n. 473, aprile 2008.
Al suo esordio come regista – pur avendo già firmato alcuni corti e un episodio televisivo della serie The Shields Stories – Sarah Polley conferma la forte personalità e l’anticonformismo che hanno sempre caratterizzato le sue scelte artistiche e personali, sia in riferimento ai film interpretati che alle varie cause sociali per cui si è sempre impegnata fin da adolescente. Nata nel 1979, può già vantare una lunga serie di interpretazioni di grande impatto, che denotano la capacità di dare vita a personaggi sempre sfaccettati, come accade per eXistenZ (David Cronenberg, 1999), Il peso dell’acqua (Kathryn Bigelow, 2001) L’alba dei morti viventi (Gary Snyder, 2004), Non bussare alla mia porta (Wim Wenders, 2005). Ma le collaborazioni più significative, anche in relazione alla scelta dei temi affrontati e delle atmosfere narrative che caratterizzano questa sua opera prima appaiono quelle con Atom Egoyan, in Exotica (1994) e Il dolce domani (1997), e quelle con Isabel Coixet, in La mia vita senza me (2003) e La vita segreta delle parole (2005): in questi film dà vita a personaggi non semplici, la cui identità non appare facilmente catalogabile, caratterizzati dal senso della crisi e dal contatto con il male, pur in forme e contesti differenti.
Non appare quindi un caso che Egoyan figuri qui come produttore esecutivo, né che l’attrice principale sia Julie Christie, sua compagna di set nell’ultimo film della Coixet. Ma questa rete di riferimenti non significa che la giovane autrice manchi di personalità o si rifaccia ad esperienze già rodate. Al contrario, attesta una sua ricerca poetica e un’attenzione tematica molto particolare, che denota forte personalità e il gusto del rischio. In questo senso, il confronto con un adattamento letterario da un racconto di Alice Munro – considerata la scrittrice canadese contemporanea più importante o, tout court, una delle migliori specialiste delle narrazioni brevi nell’intero panorama mondiale – appariva particolarmente impegnativo sia in riferimento al soggetto trattato che allo stile narrativo utilizzato. Il racconto scelto è The Bear Came Over the Mountain, scritto per il «New Yorker» originariamente nel 1999 e poi apparso nella raccolta di racconti Hateship, Friendship, Courtship, Loveship, Marriage, edita in originale nel 2001 e pubblicata in Italia con il titolo Nemico, amico, amante… (Einaudi, Torino 2003).
Il testo della Munro colpisce per la sua capacità di unire la scorrevolezza narrativa e l’apparente semplicità stilistica alla trattazione di temi complessi e a forte rischio di ovvietà: la condizione anziana, la riflessione sulle proprie scelte di vita, le dinamiche di coppia tra sentimenti contrastanti e routine quotidiana, la malattia e il degrado fisico e psicologico, la fedeltà e il tradimento. Di fronte a questa ricchezza tematica e a uno stile perfettamente calibrato, che utilizza al meglio le potenzialità evocative tipiche del linguaggio letterario e scava in profondità nelle psicologie dei personaggi, i problemi maggiori che si presentano a chi traspone la pagina scritta sullo schermo sono essenzialmente due. In primo luogo c’è il rischio di semplificare troppo o, peggio, banalizzare la complessità delle evocazioni psicologiche e soggettive, traducendo in dialoghi ridondanti e gesti emblematici ciò che nelle pagine è spesso flusso di pensiero e di memoria. Strettamente connesso a questo primo rischio, c’è quello di intrecciare in modo meccanico l’insieme dei temi proposti dal racconto, puntando semmai su quelli più riconoscibili e “vendibili” a livello cinematografico: si pensi a quanti film sulla condizione anziana si riducono a una serie di macchiette in bilico tra tenerezza e i buoni sentimenti, con la compassione lacrimevole in agguato dietro l’angolo, in particolare se fa capolino anche il tema della malattia. Sarah Polley dimostra invece di avere idee molto chiare e propone un film che non solo evita entrambe le trappole, ma si permette anche di interpretare in modo personale il testo della Munro senza limitarsi a un adattamento illustrativo, pur senza tradirne lo spirito di fondo.
Per non perdere l’aderenza con il tono evocativo del romanzo e non appiattirsi sull’illustrazione calligrafica, la regista elabora molto sia la scansione narrativa che le scelte estetiche e linguistiche. In particolare nella prima metà del film, il montaggio lavora moltissimo su una scansione temporale non cronologica, che inframezza all’avanzamento della malattia sia rapidi flash-back sul passato che flash-forward sul futuro, inserendo come incorniciatura narrativa il tentativo di Grant di riportare Aubrey in clinica. Ma anche questo espediente sortirà nel finale tutt’altre dinamiche tra lui e Marian, proponendo un’ulteriore complessità narrativa sulla dialettica tra l’apparenza e la sostanza delle cose, ma anche sulle progressive trasformazioni delle persone e dei sentimenti (non solo dei corpi) nel corso del tempo: tutti temi centrali dell’opera.
Sul piano figurativo, il mantenimento dell’evocazione e la ricchezza delle molteplici sfumature di significato provengono dal ricorso sistematico ad immagini riferite al paesaggio, sia che si tratti delle distese innevate o dei dettagli naturalistici della prima parte, sia che ci si soffermi sui luoghi di ritrovo o sulle singole camere della casa di cura. Nella contemplazione dell’universo fisico, Polley invita lo spettatore ad immedesimarsi ora nella ricchezza ora nell’apparente assenza di nessi di significazione, giocando peraltro non solo con il punto di vista di Grant, che è l’architrave narrativa del testo, ma anche con quello di Fiona, che mai è trattata come un corpo oggettivamente malato, ma sempre come un soggetto ricchissimo di sfumature, che vanno oltre i deficit di memoria. Straordinaria, in questo senso, è la scena in cui Fiona non ritrova la via di casa, dopo essersi però gustata la fisicità della neve, sdraiata nel bosco innevato a guardare la luna pallida che però balugina nel cielo ancora illuminato. Una scena a forte rischio retorico, in cui però la semplice alternanza tra la visione apicale sul corpo di Fiona nella radura e la sua soggettiva dal basso, rende perfettamente l’impossibilità della sintesi quando si riflette su dimensioni ad un tempo cosi personali e universali, che oltre la malattia riflettono sul senso stesso dell’esistenza e sui percorsi di ogni essere umano nella propria vita, spunto che viene anche suggerito dalle inquadrature sulle tracce degli sci, che inizialmente sono in coppia poi diventano solitarie.
Aiutata anche dalle ottime performance degli attori, Polley lavora quindi molto sull’inespresso (e sull’inesprimibile), con silenzi, sguardi nel vuoto, occhiate fuori campo, che tocca allo spettatore tentare di riempire di senso. Semmai evitando di ispirarsi alla geniale figura del folle telecronista ricoverato in clinica – che la regista ha inserito di suo, non esistendo nel racconto originario – che fa la telecronaca di ogni suo attimo quotidiano, descrivendo tutto minuziosamente, ma di fatto non cogliendo più le differenze tra una persona e un oggetto, un sentimento e un ambiente.
La capacità di guardare oltre le apparenze, la necessità di saper e voler cogliere la specificità di ogni cosa, la disponibilità ad impegnarsi nell’esercizio del vivere e non solo in quello del ricordare, diventano così temi trasversali del film, che a partire dalla specificità degli anziani protagonisti assumono valenze molto più ampie e universali. In modo esplicito, il film teorizza questa dichiarazione di poetica a partire dalla lettura che Grant fa a Fiona, apparentemente assente, del celebre Lettere dall’Islanda, memorie di viaggio scritte da Wystan Hugh Auden nel 1937. Non casualmente, i versi estrapolati sono un vero manifesto degli obiettivi del film e della visione del mondo della regista, che si sovrappone a quanto afferma l’artista letterario: «Fa’ che io trovi purezza in tutto ciò che accade perché l’unicità è il vero successo. Fa’ che io percepisca le immagini della storia, tutto ciò che io allontano dubitando e andando via. Il presente e il passato sono leggeri come piume».
Ben oltre il semplice legame tra l’Islanda letteraria e la terra degli avi di Fiona, queste invocazioni suonano come una precisa opzione estetica e culturale, che sintetizza bene sia le modalità contemplative che caratterizzano la narrazione, come già ricordato, sia le inquietudini della coppia di protagonisti, in cui l’apparente leggerezza e svampitezza di Fiona si ribalta e appare piuttosto come lo sforzo di cogliere l’essenza delle cose, non solo le semplici superfici: si pensi alla scena nel parco naturale, con il tentativo di sentire il calore tra i petali del fiore appena sbocciato, sotto lo sguardo perplesso di Grant.
In questa prospettiva che vede nel malato colui che è capace di produrre illuminazioni per comprendere meglio il mondo, non c’è solo l’omaggio della Polley alla memoria della nonna che soffrì di Alzheimer, ma si coglie anche la complessità tematica che permette al film di non ridursi al discorso sulla malattia o sulla condizione anziana, ma di attivare nessi con dimensioni molto più ampie. In chiave non solo ideologica, ma anche culturale è perfetta la battuta di Fiona, che proprio dopo la lettura di Auden prima citata, si ritrova a vedere in tv le immagini dei telegiornali sulla guerra in Iraq e commenta così la visione di soldati americani in tenuta bellica: «Come hanno potuto dimenticare il Vietnam?». Non è semplice pacifismo fuori luogo, né orgoglio canadese, ma lucida riflessione sui meccanismi della rimozione e del ricordo in chiave non solo personale, ma anche storica, sociale e culturale. Lo stesso approccio inquadra la figura di Grant in modo sempre più sfaccettato, approfondendo ancora più che nel testo della Munro l’ipotesi della relazione con Marian, soluzione che in teoria dovrebbe accontentare tutti. Ma il sorprendente finale che ripropone Fiona in perfetta forma e desiderosa di sentire vicino a sé il marito, proprio mentre questi sta per accomiatarsi da lei, rende perfettamente l’ambiguità del personaggio maschile, e getta nuova luce sui precedenti cenni riferiti a tradimenti nel passato, sulla sua costitutiva incapacità a gestirsi da sé, sulla sua cura amorevole ma forse anche un po’ strumentale della moglie malata.
Nell’impossibilità di definire e di cogliere dove finisca la malattia e dove inizi la rimozione del passato come possibilità di perdono, ma anche nella difficoltà di capire quali siano realmente i legami profondi in una coppia lungo tanti anni di convivenza contraddittoria, ben oltre le quiete apparenze dell’inizio, il film riflette così su temi quali la coerenza e il senso di responsabilità, sul peso della memoria e sull’inafferrabilità dei sentimenti più profondi, invitando a riconsiderare le formule più trite o le osservazioni più ovvie su ciò che viceversa è complesso per definizione, si tratti di una malattia come l’Alzheimer o di una dinamica complessa come quella dell’invecchiamento. Ma anche, oltre le categorie più riconoscibili, ci invita a riflettere sulla sottile linea che separa l’amore dalla sopportazione, l’armonia dalla routine, la complicità dalla strumentalizzazione, la razionalità dall’istinto.
Non a caso, con una scelta tutta cinematografica, audiovisiva per definizione, la sospensione finale dello sguardo di Grant, che ha ritrovato la moglie proprio nel momento in cui sta per abbandonarla, si sublima in Helpless, uno dei classici di Neil Young, altro canadese doc, qui nella versione di k.d. lang, personaggio che sfugge a ogni etichetta e definizione. Una canzone simbolo dello sguardo poetico, in cui una semplice parola può significare molte cose, non sempre coerenti tra loro: indifeso e inerme, ma anche debole e impotente; oppure disorientato e confuso, ma anche inetto e incapace. Dove si situa Grant, dove Fiona? Ma è realmente importante saperlo, oppure è sufficiente registrare l’ennesimo slittamento ed ambiguità di un film che sa unire al rigore narrativo la libertà dell’interpretazione, cogliendo qui l’essenza reale del racconto di Alice Munro?