La riedizione del Cacciatore di Michael Cimino

Un colpo solo

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Tra il 22 e il 24 gennaio scorsi ha fatto la sua ricomparsa nelle sale, in grande spolvero in 4k a cura di Lucky Red, Il cacciatore di Michael Cimino. All'epoca al centro di polemiche per la sua rappresentazione degli ultimi giorni della guerra in Vietnam (soprattutto per quanto riguarda la roulette russa), non passò fortunatamente molto tempo perché ci si rendesse conto che in realtà Cimino aveva realizzato un film estremamente poetico destinato a diventare un grande classico. Cinque anni dopo la sua uscita, «Cineforum» vi ritornò sopra, con un approfontiditissimo “Flashback” a firma di Gualtiero De Marinis (n. 221, gennaio/febbraio 1983). Avvertiamo che il testo qui riportato, per ragioni di spazio, è stato abbreviato di molto. Raccomandiamo quindi, qui più che mai, di recuperare l'originale nella sua interezza. Leggetelo tutto, in un colpo solo!

 

«Cineforum» n. 221, gennaio/febbraio 1983

Flashback

Il cacciatore

di Michael Cimino

 

Gualtiero De Marinis

 

[…] Il cacciatore è un dramma in tre atti, più un entr'acte sulla cui crucialità non anticiperemo nulla.

I Parte - La scommessa sul camion da sorpassare, la sequenza del bar, il biliardo e il sovracanto corale I Love You, Baby… Ciò che si costituisce qui è un “tessuto” che in virtù dell'amicizia, dei giri di birra offerti, del canto e del gioco ha l'effetto di mostrare un gruppo di persone come fortemente unito, per la semplicissima ragione che, proprio a partire da questa unità, si potranno rilevare le differenze successive. Resta comunque una solidarietà comune che non può essere sbrigativamente liquidata come falsa, bensì semplicemente come base per le prossime differenziazioni.

Soltanto tre fra costoro partiranno. Michael/Robert De Niro, Steven/John Savage e Nick/Christopher Walken. Stanley/John Cazale resta a casa e si guarda troppo spesso nello specchio (anche nei finestrini delle macchine, anche in quello della vettura di Mike che sinistramente è rotto), si occupa troppo di donne, è geloso della moglie (e fa bene, sembra) si porta sempre dietro una pistola (per difesa personale, dice): è il più debole probabilmente, il più vicino allo sguardo nello sguardo, alla vertigine dello specchio che non rimanda immagini. Per gli altri la pistola non serve, la solidità dell'immagine di sé li preserva da sguardi indiscreti. John Savage ha l'infelice idea di sposarsi due giorni prima di partire per il Vietnam, con una donna non più giovane, neppure russa; con un figlio in arrivo, neppure suo. Christopher Walken ama, senza ammetterlo subito, Linda/Meryl Streep, ama anche Michael presso il quale occupa la posizione simbolica del figlio. Michael è evidentemente il leader, è sua la macchina («Si sta bene nella macchina di Mike, ci si sente a casa», dirà un personaggio infilandosi nel portabagagli), possiede almeno un paio di stivali in più, una teoria (quella del colpo solo) e una convinzione ferma secondo cui «Questo è questo»; anche se poi, se non ci fosse Nick, lui a caccia ci andrebbe da solo. È a lui che Nick si rivolge per la promessa solenne di essere riportato a casa (la «Home, Sweet Home» del canto finale).

Perfettamente corazzato dall'illusione di unitarietà, di impenetrabilità, tanto da rischiare a esporre il proprio corpo nudo la sera del matrimonio, Mike è sorretto dall'irriducibile convinzione dell'evidenza secondo cui una cosa non può essere un'altra. Non è neppure questione di nominazione, sono le cose che non possono essere altro che loro stesse, è il procedimento di riconoscibilità che non può fallire, è l'interscambiabilità che viene definitivamente barrata. John Cazale, che di tali certezze non ne possiede neppure una, può benissimo dimenticare per l'ennesima volta gli scarponi da caccia: Mike no, per lui la questione è attaccarsi alla riconoscibilità e quindi alla sostanziale diversità delle cose, tanto da rifiutare con gli scarponi l'amicizia virile e la solidarietà di gruppo: ovvero il “tessuto” di cui sopra.

Il secondo puntello narcisistico a cui s'aggrappa è la teoria del “colpo solo” (quella che a Nick, poche ore prima del matrimonio e quindi della partenza, non piace già più). Teoria che appartiene pienamente al côté (presupposto) generoso e leale del popolo americano: giacché il cervo non ha fucile, bisogna sparare un colpo solo, altrimenti non sarebbe giusto. Che questa sia una finzione che rivela (sta per rivelare) ampiamente una verità ha poca importanza. Ciò che importa è che quel che preesiste alla concezione del “colpo solo” è che la distanza tra il cervo e il cacciatore rimane fissata, invalicata e misurabile. Nessuna confusione in questo campo, gli sguardi negli occhi andranno tutti rifiutati: un cervo è un cervo e non può in nessun caso diventare un cacciatore. Anche se poi a forzare un poco la traduzione, il titolo originale The Deer Hunter vuol dire alla lettera Il cacciatore di cervi, ma sembra suggerire anche il percorso inverso (il cervo cacciatore).

Nessuna confusione allora per Mike: «Un cervo è un cervo» così come «Mike è Mike» anche se le incrinature (simili a quelle del finestrino posteriore della sua macchina) iniziano già a rendersi visibili. Il gioco di sguardi tra Mike e Linda nella scena della festa (gioco ampiamente condito con l'interferenza della donna in rosa, piuttosto brutta, che si crede inutilmente oggetto degli sguardi di Mike) ne è comunque un sintomo. Qui, secondo un movimento duplice che conduce Mike a corteggiare goffamente Linda sia per gelosia di Nick, sia per totale identificazione in lui, Mike scopre qualcosa che non vorrebbe scoprire, si mette in gioco (quello degli sguardi), rischia, perde anche, visto che Linda gli preferisce Nick: scopre insomma il fascino della perdita tanto da doversi rifare con quella lunga corsa fin sotto il canestro da basket. […]

Termina il tutto con un preludio inquietante. Il cervo colpito, non è morto con un colpo solo e non è possibile spararne un altro (ne andrebbe dell'immagine di sé, dell'unità del soggetto), rimane così a guardare mentre pericolosamente la macchina con un lieve zoom si avvicina all'occhio dell'animale. Stacco: si parte per l'inferno.

II Parte - Ove si scopre che non solo il cervo possiede un fucile, ma ne fa anche un uso (buono o cattivo che sia) disperato. In realtà il problema non si pone: discutere di crudeltà in una guerra (ovvero su chi sia più o meno crudele) è pura follia. D'altra parte la questione non sta in un'eventuale verità o nella commensurabilità delle mosse rispetto alle antitesi buono/cattivo, giusto/sbagliato. Non si tratta cioè di chiedersi se nel film i vietnamiti siano i buoni o i cattivi: il loro errore evidente (condiviso dagli americani) sta nell'aver ceduto alla lusinga del gioco: la roulette russa. Errore per modo di dire. «Si tratta dunque di giochi la cui pertinenza non è il vero, né il giusto, né il bello eccetera, ma l'efficiente: una “mossa” tecnica è “buona” quando produce di più e/o quando spende meno di un'altra» (Jen-François Lyotard, La condizione postmoderna).

L'errore dei vietnamiti, allora, rispetto al criterio di efficienza (dovranno pur vincerla questa guerra e fare le “mosse buone” per vincerla) sta nel concedersi il lusso e l'arbitrio del gioco. Sta nel cedere a una seduzione tutta occidentale che ha diversi nomi come la perdita di sé, la perdita dei modelli narrativi, l'instabilità degli enunciati eccetera…

La roulette russa, cioè, è un detour di fronte all'oggetto principale (la guerra), è l'apertura di una sfida che contravviene alla logica della guerra (sia perché inefficace, sia perché in virtù delle regole i prigionieri dovrebbero suicidarsi). Una sfida rispetto alla quale i più deboli sono esattamente coloro che comandano il gioco o che s'illudono di farlo, proprio perché presumono di potersi tenere sull'orlo dell'abisso a osservare lo spettacolo senza alcun danno. E le decine di pistole e di mitra puntati contro i giocatori fanno ampiamente sintomo essendo chiaramente una difesa piuttosto che un'arma per convincere i giocatori a giocare.

La resistenza di Mike al gioco è encomiabile e quasi allucinante. La messa in gioco del soggetto (e qui la posta è propriamente la vita come in Quintet) è operazione che non manca di lasciare tracce come sanno tutti coloro che non s'illudono di poter padroneggiare il gioco, consci che è invece il gioco stesso a giocarli, a essere il reale soggetto dell'intera operazione. Messa in questione del soggetto, suicidio che equivale alla salvezza dell'altro, propria salvezza che implica l'assassinio dell'altro, ma ciò che più conta, sguardo negli occhi che apre all'ambivalenza, alla perdita del criterio di riconoscibilità, di diversificazione: tutto questo costituisce la lusinga e l'orrore della roulette russa (che si chiami russa poi, concedetemelo, è un frutto perverso del caso che in quanto tale non si comporta mai a caso – Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso).

A questo, soltanto Mike risponde con la lucidità necessaria (scopriremo tra un attimo il perché) secondo cui alla sfida si risponde soltanto rialzando la posta (Baudrillard). Una su sei, ammetterete, è ben diverso da tre su sei (nel conto delle probabilità si passa dal 16,6% al 50%), ma è questa l'unica mossa capace di raggelare coloro che pretendono di padroneggiare il gioco. Rialzando la posta, offrendo cioé una morte più certa, un rischio più alto, Mike sfida costoro a rispondere con una posta superiore ovvero con la loro morte. […]

Mike, la cui lucidità (sembra) è rimasta intatta, cerca Nick dappertutto senza trovarlo (mancandolo anzi per un attimo e proprio nel momento in cui sta per cedere di nuovo al gioco: un attimo che fa certamente suspence, ma soprattutto riafferma la casualità come principale movente della causalità) e infine torna a casa carico di medaglie.

Entr'acte - Che per il soldato che torna a casa niente sia mai come prima è talmente evidente che giustamente Mike non si presenta ai festeggiamenti organizzati in suo onore. Ma ciò che più conta è che «quel corpo esibito la sera del matrimonio» eccetera (Silva), ora Mike se lo tiene stretto dentro un'uniforme carica di medaglie che s'ostina a indossare (se qualcuno scambia tutto questo con l'orgoglio di aver combattuto da eroe una guerra, può benissimo andare a farsi curare in un ospizio). Ma ciò che ancora più conta è che ora Mike sta zitto. […] La messa in gioco ne ha infranto la rispettabile unità narcisistica, l'ambivalenza lo ha sprofondato in un mondo non perfettamente riconoscibile, dominato dall'indecidibilità dei confini del soggetto. Con in più una promessa non mantenuta, un tradimento evidente nei confronti di Nick, tanto più che, sia pure controvoglia, finisce per andare a letto con Linda (ennesima simmetria del film: qui è Linda che è gelosa del legame tra Mike e Nick e in più intravvede in Mike una copia di Nick).

Andrà detto a suo onore (di Mike) e a onore della logica che, per quanto spaesato e sperduto, Mike non ha nessuna intenzione di ritornarsane in Vietnam. Provvederà di nuovo il cervo (a buon diritto padre della narrazione almeno quanto Mike) a ricordargli l'impegno preso, ma soprattutto a sfidarlo a mettere ancora in gioco la propria vita. Di nuovo a caccia, Mike insegue un cervo (quello che non ha il fucile e che può soltanto scappare), ma sul punto cruciale, quando lo ha fermato nel mirino e difficilmente potrebbe mancarlo, Mike alza il fucile e spara in aria per farlo fuggire. Il disgraziato però non fugge, rimane fermo, ricambia l'occhiata, lo sfida ad uccidere. A questo punto Mike si arrende, accetta la sfida e dichiara la resa con un «OK» (prima sussurrato, poi urlato) che dovrebbe strappare l'applauso alla platea, se solo questa non fosse mediamente industriata a decifrare le opinioni politiche di Cimino piuttosto che guardare il film.

III Parte - Che sia pura follia tornarsene in Vietnam proprio nel momento in cui tutti (visioni di elicotteri stracarichi che cadono al suolo) stanno cercando di fuggire è evidente. Ma che per salvarlo debba mettersi in gioco fino in fondo e pagare ancora per poter giocare alla roulette russa contro il “campione americano”, questo proprio non ce l'aspettavamo. Anche perché la logica ambivalente del gioco mal s'accorda con quella usuale (che è anche dello spettatore), quella che obbedisce al principio d'identità, di non contraddizione e a quello fatidico del tertium non datur. Secondo questa infatti A=A sempre e in ogni caso, così come «Questo è questo». Secondo questa logica A non può essere Non-A, proprio come un cervo non può essere un cacciatore. […]

Messo alle strette dal gioco, l'unica soluzione possibile sarebbe quella di interromperlo (pratica impossibile visto che è il gioco a comandare e non i giocatori) giacché se Nick si ammazza, lui si salva, ma allora il suo viaggio sarà stato inutile, visto che non potrà riportare in America altro che un corpo con un foro nella testa; se è lui a morire e Nick a salvarsi, allora nessuno riporterà mai Nick vivo a casa. C'è un colpo solo in gioco (come ricorda Nick proprio alla fine, nell'attimo in cui riconosce Michael), e comunque vada, va sempre a finire male ovvero con un nulla di fatto.

È Nick come tutti sanno (spero) a rimetterci la vita e a Mike non resterà altro che riportare a casa una bara. Il finale vede ciò che resta dei protagonisti, attorno alla tavola, cantare in mezzo alle lacrime God Bless America che, se qualcuno si fosse dato la pena di ascoltare oltre il primo verso, non è per nulla un inno ai grandi valori americani o un tacito acconsentire alla più sbalorditivamente infelice operazione bellica del secolo. Si tratta in realtà di un inno al “buon, vecchio” isolazionismo americano (opzione che è spesso comparsa anche nei movimenti contro la guerra in Vietnam). Ovvero ciò che tutti lì riuniti stanno cantando è Home, Sweet Home e non God Bless America (è appena il secondo verso e non si fa neppure troppa fatica a capire l'originale). Sono tornati a casa quindi anche se l'operazione non è perfettamente riuscita: Nick ci ha lasciato la vita (più un pezzo di cervello grosso quanto il foro di un proiettile), John Savage ci ha lasciato le gambe e Michael ha perduto l'ebrezza del corpo proprio, l'illusione narcisistica dell'unità del soggetto, la teoria del colpo solo, ma soprattutto la convinzione ferma secondo cui «Questo è questo». […]