Un autunno di 60 anni fa, parte 2 – Davide contro le Sette Sorelle

I 60 anni de "Il caso Mattei"

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Il 27 ottobre di sessant'anni fa, proprio mentre la crisi dei missili di Cuba volgeva per fortuna positivamente al termine, nelle campagne attorno al comune di Bascapè, nella Bassa lombarda, precipitava l'aereo di Enrico Mattei, presidente dell'Eni. L'incidente, che poi risultò non esser tale, poneva fine, assieme all'esistenza dell'imprenditore, anche alla sua lotta contro le cosiddette “Sette Sorelle”, le grandi compagnie petrolifere angloamericane che detenevano il monopolio dell'estrazione e commercio mondiale del petrolio. La vicenda interesserà profondamente, fra gli altri, anche Pier Paolo Pasolini, che sull'argomento scriverà il romanzo Petrolio, rimasto incompiuto. Il futuro direttore di «Cineforum» Sandro Zambetti, l'indomani della sciagura era presente sul luogo in qualità di cronista d'agenzia. Sulla morte di Mattei vi ritornò dieci anni dopo, recensendo per il n. 117, settembre 1972 della rivista il film di Francesco Rosi Il caso Mattei. Riproponiamo qui un ampio stralcio del suo articolo, pubblicato in uno speciale comprendente anche un saggio di Italo Moscati.


Il caso Mattei
di Francesco Rosi

Se confrontiamo Il caso Mattei con Salvatore Giuliano – che è senz'altro, fra tutti i film di Rosi, quello che più gli si avvicina in quanto a struttura narrativa – possiamo renderci conto di una cosa: qui, l'introduzione di dati informativi tra gli elementi di pathos che il regista ritiene necessari per coinvolgere lo spettatore, è molto più fitta e incalzante. La vicenda del “personaggio” Mattei, infatti, devia continuamente dal filo biografico, per aprirsi alle più varie notazioni sul contesto in cui si è svolta, così come la struttura narrativa si spezza a ogni pie' sospinto per far posto all'inserto televisivo, alla ricostruzione documentaristica, all'intervento diretto ed esplicito del regista in chiave di inchiesta giornalistica.

Più che di interpolazioni informative nel tessuto drammatico della “storia” proposta allo spettatore, si può parlare di una vera e propria frantumazione del momento emozionale a opera degli stimoli alla riflessione. Si direbbe, cioè, che al pubblico non venga neanche dato il tempo di appassionarsi al tema spettacolare del film – una specie di “ascesa e caduta degli dei” adattata all'Oiimpo tecnocratico del nostro tempo – per spingerlo invece a porsi i dovuti interrogativi sugli aridi quanto inquietanti retroscena dell'impresa “eroica” affrontata dal protagonista e conclusa tragicamente fra i lampi e i tuoni della notte di Bascapè. Le soluzioni linguistiche adottate per Salvatore Giuliano, insomma, sembrano qui portate alle estreme conseguenze, per cui il film dovrebbe stabilire con il pubblico un rapporto razionale dominante rispetto al coinvolgimento emotivo. Viceversa, se si analizza attentamente il funzionamento di questa impostazione, rapportandolo al tipo di informazioni via via fornite e al collegamento logico che viene a stabilirsi tra i diversi piani della rappresentazione, si deve constatare che il film spinge più ad appassionarsi che a riflettere, più a concentrarsi sulle spiegazioni offerte (e ad appagarsene) in merito alla morte di Mattei che a porsi interrogativi su quel che ha significato la sua esperienza e su quel che ne è uscito.

Perché un'opera a struttura apparentemente così “aperta” finisce in realtà con lo svolgersi “a circuito chiuso”, cioè senza lasciar spazio alla partecipazione attiva dello spettatore, senza rimandare ad altro che non sia già detto dal regista? Perché, insomma, finisce col chiudere il discorso, circoscrivendolo ai fatti rappresentati, anziché avviarlo sull'unica strada adatta a tenerlo aperto, cioè quella delle prospettive e delle linee di sviluppo insite nell'opera di Mattei, dei suoi riflessi attuali?

A nostro avviso, per tre ragioni di fondo, abbastanza evidenti a prima vista, anche se meno facilmente afferrabili nello stretto collegamento che c'è fra l'una e l'altra e nel presupposto ideologico che ne costituisce la matrice comune. Primo: perché questo diversamente da Salvatore Giuliano, che riusciva a non essere un film sul “Re di Montelepre”, è essenzialmente un film su Enrico Mattei. Secondo: perché il filo narrativo (l'inchiesta sulla morte di Mattei), pur continuamente spezzato, si riannoda con altrettanta continuità, senza lasciar tregua agli interrogativi sul “mistero” da cui prende spunto. Terzo: perché lo stesso materiale informativo introdotto a piene mani finisce coll'essere funzionale più alla costruzione del personaggio Mattei che all'analisi dei problemi ai quali Mattei dovrebbe rimandare, così come gli interrogativi riguardanti la sua morte prevalgono quantitativamente e qualitativamente (in quanto a capacità di presa sul pubblico) su quelli che dovrebbero sorgere in merito alla sua politica.

Nell'osservare che questo è soprattutto un film su Enrico Mattei, non si fa certo una grande scoperta. Rosi stesso dice di aver puntato volutamente sul personaggio come sul “tramite” necessario per far accettare dal pubblico discorsi “difficili” come quelli sul fifty-fifty, sul petrolio e sui fatti politici connessi. E conclude ammettendo che, in questo modo, il personaggio finisce coll'essere “tecnicamente eroicizzato”.

Ma il fatto è che il personaggio risulta un “tramite” tanto corposo e avvincente da lasciar parecchio in secondo piano la realtà verso la quale dovrebbe far convergere l'interesse dello spettatore. Già l'attore scelto per impersonarlo costituisce una pesante ipoteca al riguardo. Gian Maria Volonté, infatti, non è certo un interprete che possa annullarsi nei personaggi affidatigli, ai quali dà anzi un'impronta inconfondibile, che gioca un ruolo decisivo nei confronti dello spettatore, abituato ormai a “godersi” ogni sua prestazione come una prova di virtuosismo che fa capitolo a sè, qualunque sia il contesto in cui è collocata. La cosa dipende in buona parte dall'alone divistico che, volente o nolente, gli è stato creato attorno, ma anche dall'effetto controproducente dello sforzo ammirevole che egli compie per non ridursi a cliché. Trovandosi di volta in volta alle prese con personaggi professionalmente diversissimi (un poliziotto, un operaio, un giornalista, eccetera), Volonté tende a coglierne e ad accentuarne al massimo le caratteristiche tipiche, non solo per renderli immediatamente credibili, ma anche e soprattutto per distinguerli l'uno dall'altro, per evitare il rischio che il pubblico ritrovi in ognuno di essi la sua immagine. A questo fine, riesce addirittura a cambiare fisionomia da film a film, mettendo a frutto un'osservazione vasta e meticolosa nell'ambito delle categorie interessate e riassumendola quindi in una sorta di copia campione, costruita sulla base statistica, diremmo, delle espressioni, delle acconciature, degli atteggiamenti, dei modi di parlare prevalenti.

Resta da stabilire, ovviamente, se in questo modo ci si possa avvicinare maggiormente alla autenticità del personaggio o non si arrivi piuttosto a riprodurre l'idea media (con tutti i luoghi comuni connessi) che si fanno di una determinata categoria tutti quelli che non vi appartengono. Ma, anche senza entrare ora nel merito di questo problema, non si può non rilevare come sia proprio il lavoro di tipizzazione ad assumere un peso determinante e a porsi al centro dell'attenzione, facendo passare in secondarissimo piano le distinzioni tra un personaggio e l'altro: a far colpo sullo spettatore, in altre parole, è la “bravura” di Volonté, che soverchia l'interesse per il personaggio e fa sì che, da film a film, sia sempre lo stesso tipo di “emozione” che si trasmette dallo schermo alla platea, indipendentemente dalle situazioni affrontate nel film.

Ne Il caso Mattei la regia si adatta abbastanza passivamente a questo procedimento, limitandosi a frenarne le accentuazioni istrioniche, ma lasciando che l'interprete faccia proprio il personaggio, desumendolo dalle idee correnti sulla categoria dei managers, dei moderni capitani d'industria. La cosa, fra l'altro, porta a un notevole travisamento della reale personalità di Mattei (che non era affatto un manager tipico, ma un uomo piuttosto chiuso, grigio, quasi impacciato, ben lontano dal Mattei estroverso e baldanzoso di Volonté). Ma, soprattutto, porta in primo piano scatti d'umore, venature passionali, reminiscenze private, impulsi sentimentali, peculiarità di comportamento, che servono a tracciare un colorito ritratto psicologico, finendo coll'apparire più importanti dei dati oggettivi e delle scelte politiche che determinarono l'azione di Mattei.

È così che, come dice Rosi stesso, Mattei risulta “tecnicamente eroicizzato”, nel senso che assume un peso e un rilievo dominanti, per l'accuratezza stessa con cui è costruito: col che – e qui i risultati contraddicono i propositi del regista – diventa ben più che un “tramite” alle altre informazioni fornite dal film, prevaricando sulle medesime e accentrando su di sè la maggior attenzione. Il risultato tecnico, d'altra parte, non è casuale e non dipende solo dalla preoccupazione (in sè ragionevole e realistica, anche se poi esorbita dai limiti strumentali entro cui dovrebbe restare) di agganciare l'interesse del pubblico, ma riflette sostanzialmente una concezione politica già inaccettabile o, quantomeno, molto discutibile in partenza: quella, appunto, dell'“eroe” che svolge individualmente un ruolo decisivo.

Nessuno, evidentemente, nega che in ogni avvenimento storico possano agire dei leaders che diventano tali per la propria capacità di interpretare e di orientare, anche, le forze in gioco. Ma è altrettanto innegabile che faccia parte di un processo di mitizzazione della storia (quale si riscontra comunemente nell'insegnamento scolastico, ad esempio) la tendenza a far giganteggiare questi leaders, presentando gli avvenimenti come una semplice proiezione della loro personalità ed elevando la loro volontà ad autentico motore della storia. È chiaro, cioè, che l'esatta individuazione del ruolo storico giocato da determinati personaggi, utile e necessaria alla miglior comprensione dei fatti, può travalicare in una più o meno volontaria mistificazione, nella misura in cui l'individualità dei personaggi stessi offusca il disegno delle forze e degli interessi che stanno alle loro spalle.

In Rosi questa tendenza a far giganteggiare i protagonisti è un dato costante (solo Salvatore Giuliano, si può dire, sfugge alla regola, mentre ne Le mani sulla città la figura dell'imprenditore edile, pur essendo fra le più eroicizzate, trova un certo contrappeso negli altri personaggi, e ne Il momento della verità, film ingiustamente sottovalutato, a nostro parere quella del matador è equilibrata dal prevalere della documentazione ambientale sulla costruzione psicologica; il generale Leone di Uomini contro, invece, rappresenta il caso limite del personaggio portato tanto in primo piano da scompaginare ogni prospettiva), tendenza regolarmente spiegata con le influenze esercitate sul regista dal cinema gangsteristico americano e fatta quindi rientrare nella logica dell'eroicizzazione come frutto di una scelta tecnica. A questo punto, però, una spiegazione del genere, benché indubbiamente fondata, non può essere considerata del tutto esauriente, anche perché farebbe torto all'originalità linguistica di Rosi e alla sua maturazione, più che sufficienti a decantare un'influenza ormai lontana nel tempo (intendendosi, con ciò, il tempo di formazione dell'autore e non la datazione dei film che possono averlo influenzato, in quanto è ovvio che la lettura o la rilettura di un testo conta nel momento in cui viene effettuata, qualunque sia l'arco di tempo trascorso dal momento in cui il testo stesso ha visto la luce). Si deve osservare, cioè, che se Rosi sente (ed esprime) così prepotentemente il “fascino dell'eroe”, positivo o negativo che sia, non è solo per il suo modo d'intendere e di fare il cinema, ma anche per il suo atteggiamento di fronte alla storia e alla politica.

Qualcuno dirà che si tratta dell'atteggiamento tipico dell'intellettuale distaccato dalle masse e perciò incapace di vederle protagoniste della storia. A noi sembra, meno schematicamente, che molto dipenda, piuttosto, da una cultura di matrice illuministica, che affonda le sue radici nel Settecento napoletano e che, pur senza arrivare al disprezzo di Voltaire per il “popolaccio”, induce a vedere le masse come oggetto di illuminazione, appunto, anziché come soggetto storico, riducendo la stessa crescita della coscienza di classe quando intervenga, come nel caso di Rosi, anche una matrice culturale marxista adun effetto di tale illuminazione invece di intenderla come un processo determinato dalle condizioni oggettive del proletariato, nel quadro dei rapporti di produzione.

Da qui la propensione, da un lato, a considerare fondamentale ed esauriente il ruolo svolto da singoli individui e, dall'altro lato, a trasferire in questi individui, quando vengano riprodotti nei personaggi di una qualsiasi opera, la funzione illuminatrice che l'intellettuale ritiene di dover svolgere. In questo senso, Il caso Mattei è un film chiarificatore nel complesso dell'opera di Rosi, per l'estrema consequenzialità che ne lega i risultati ai presupposti ideologici.