Inizialmente, lo sbarco delle truppe alleate in Normandia (di cui oggi ricorre il settantottesimo anniversario) avrebbe dovuto chiamarsi “Operazione Naftalina”. Allora era prassi che, nel dar nome alle operazioni militari, si attingesse a caso da una lista stilata in precedenza; al D-Day capitò questo nome. Come lo seppe, Winston Churchill masticò il sigaro, mugugnò qualcosa, poi sbottò: «Ma siamo matti? Vogliamo che i nostri posteri, ricordando questa impresa, la accostino all'idea di una guerra contro le tarme?». Così, si ripiegò sul meno bizzarro Overlord. Il D-Day era stato già portato sullo schermo nel 1962 in Il giorno più lungo, in cui si ricostruivano gli avvenimenti fra scrupolosa ricostruzione storica e gusto per l'aneddoto, facendone una specie di Arazzo di Bayeux in bianco e nero. Trentasei anni dopo sarebbe arrivato il turno di Steven Spielberg, che ad un'accuratezza mai così realistica nella ricostruzione delle battaglie aggiunse un afflato di ispirazione fordiana, come bene ha spiegato Bruno Fornara nel suo articolo apparso su «Cineforum» n. 379, novembre 1998, che qui riproponiamo.
Prima di salvare il private James Francis Ryan, il soldato semplice che viene dall'Iowa ed è stato paracadutato sulla Normandia oltre le linee nemiche, bisogna sbarcare a Omaha Beach il 6 giugno del 1944. Poi, Ryan bisogna cercarlo. E una volta che lo si è trovato, bisogna restare con lui, perché lui non vuole tornare: e tocca combattere e morire. Il vecchio che all'inizio visita il cimitero di guerra e si raccoglie davanti a una croce bianca è Ryan, non il capitano Miller che l'ha salvato. Miller, che veniva dalla Pennsylvania, è morto a Ramelle, un paesino francese, per salvare Ryan e tenere un ponte fino all'arrivo dei P51, «angeli sulle nostre spalle».
La guerra che Spielberg ci mostra e ci fa sentire come nessun altro regista prima di lui è la guerra in cui migliaia di uomini muoiono per conquistare una spiaggia e un varco. Non la guerra pulita di oggi, con aerei e missili che colpiscono da lontano, con i morti tutti e solo dall'altra parte, invisibili, censurati dalle televisioni, quindi di nessun peso. È la guerra di morte e fuoco di chi è chiamato dall'Iowa o dalla Pennsylvania a sbarcare e morire su una spiaggia oltre la quale c'è una Francia vuota, dove non c'è nessuno che non sia americano da salvare, dove neanche una bambina francese vuole essere salvata. Nella tragedia in tre atti e una cornice che è Salvate il soldato Ryan, prima si muore a migliaia per arrivare in un paese vuoto; poi, chi non è morto sulla spiaggia continua la guerra per rimandare a casa un semplice soldato semplice americano. Nelle tre parti, molto scandite, il film di Spielberg è prima la guerra come carneficina, caos e morte falciatrice, poi è ricerca di un soldato, infine è scontro faccia a faccia, corpo a corpo, coltello contro cuore, e incontro con la propria morte. C'è nel film quello che dicono le recensioni, la pubblicità, gli articoli scritti eccezionalmente da chi non scrive solitamente di cinema: c'è il massacro in quella mezz'ora iniziale. Ma poi, e pochi sembrano essersene accorti, ci sono altre due ore e mezzo in cui otto uomini, il capitano John Miller, il sergente Horvath, il caporale Upham, i soldati Reiben, Jackson, Mellish, Caparzo, Wade cercano Ryan e, cercandolo, cercano di salvare se stessi, si trovano confrontati con se stessi: più precisamente, cercano di salvare (Miller soprattutto) almeno qualcosa di se stessi. A vedere il film la prima volta è la mezz'ora sulla spiaggia che toglie il fiato. A vederlo di nuovo, sono le due ore e passa che vengono dopo a fare problema.
All'inizio, dopo il prologo, siamo sotto il fuoco e dentro il caos. Senza scampo né riparo. Si apre il portellone di un mezzo da sbarco e tutti i soldati, tutti dal primo all'ultimo, vengono uccisi. Corpi bucati dalle pallottole, corpi a pezzi, chi ha perso un braccio e torna a raccoglierlo, un soldato trascina il corpo dimezzato di un compagno, il sangue sporca l'obiettivo della macchina da presa. Nell'inferno di rumori, cadaveri e mare rosso sangue, non esistono uomini singoli con una storia e protagonisti di storia, non c'è più niente di privato, non si conserva nulla di personale: c'è solo l'uccidere e il morire.
Dopo essere stati niente nell'informità del caos dove la morte falcia a caso, fa a pezzi i corpi, suona tutti i suoi suoni, è possibile tornare a essere qualcuno, riprendere ad essere persone con una interiorità propria e segreta? Diventa un altro il fulcro di Salvate il soldato Ryan dopo lo sbarco ad Omaha Beach, e altra diventa la narrazione, distesa, apparentemente convenzionale e debitrice al genere del film di guerra. In realtà obliqua e ambigua, troppo piena di domande, il più delle volte senza risposta. Dopo aver attraversato la morte, come si può conservare un proprio se stesso, essere ancora qualcuno, private nel senso di soldato semplice e di uomo semplice che ha una vita dentro e una storia lontana, nell'Iowa o in Pennsylvania? Come tornare qualcuno dopo che si è passati attraverso il caos dell'indistinzione, dove tutti si è stati scollati da se stessi, letteralmente storditi dentro la tempesta, come succede al capitano Miller? Come si può, altra domanda, conservare un'idea di America che non sia quella di una nazione i cui padri, da Lincoln al generale Marshall, strappano i loro figli alle madri per mandarli a morire su una spiaggia e poi a cercare un soldato sacrificando altri uomini per riportare a casa un Ryan dell'Iowa la cui madre ha già perso tre figli? Perché e per chi la patria di cui sei figlio ti può chiedere tutto questo? (Perché non c'è dubbio che Spielberg creda fermamente nella patria americana: ma è altrettanto indubbio che qui si sta interrogando sul perché la patria chieda tutto questo ai suoi figli. Su che patria sia mai questa.)
Quando il capitano Miller compone la pattuglia che deve cercare il private Ryan, comincia, quasi a lato della guerra, un'altra ricerca, durante la quale ci si confronta con interrogativi che restano senza risposte, con questioni cui non danno risposta le risposte ufficiali. Domanda dei soldati semplici: che senso ha rischiare la vita di otto persone per salvare la vita di un solo uomo? Risposta, facile, del capitano Miller: abbiamo degli ordini e questo chiude ogni questione. Altre domande, più difficili. Perché l'unico francese che vive nella Francia vuota è un padre che vuole affidare ai soldati la propria bambina terrorizzata a tal punto (dalla guerra? dai soldati americani? dal padre?) da schiaffeggiarlo quando ritorna da lui? Perché Upham, l'interprete, l'unico che può parlare al nemico, assiste da lontano, guardando dentro al visore del proprio fucile, allo scontro durante il quale Wade viene ferito a morte da un tedesco che viene lasciato libero e ucciderà ancora? E domande, senza risposta, nella sosta notturna dentro la chiesa: se Dio è con noi chi sarà con loro? se Dio è con noi chi sarà contro di noi? Altra domanda su cui persino si scommette: chi è il capitano Miller?, domanda cui Miller non vorrebbe rispondere e alla quale invece è costretto dalle circostanze a dare una risposta. E alla fine, vicino al ponte di Ramelle, la domanda cui volontariamente non dare risposta perché rispondere vorrebbe dire rivelare qualcosa di ciò che ci costituisce e che sta in fondo a tutto, nel semplice spazio privato dove si custodiscono i segreti, sia pur minimi, che quella vita rendono singolare. È Ryan a chiedere a Miller: «Mi dica di sua moglie e dei cespugli di rose». Risposta netta: «No, quelli li riservo solo per me». Al di là di tutto, passati dentro la morte, portata a termine la missione di trovare Ryan, vicini a morire, questo è importante: riservare qualcosa per sé. Salvato Ryan, salvare qualcosa di sé, l'immagine di una donna e di un cespuglio di rose.
La patria chiede a Miller e ai suoi uomini di cercare Ryan per salvare un'idea di patria e di famiglia, di patria come famiglia, per ridare un figlio, uno su quattro, a una madre, e poter così continuare a proporre l'identificazione tra nazione e casa: per riportare simbolicamente alla pari un bilancio squilibrato e ineguale in cui i militari, padri simbolici e cattivi, strappano i figli alle madri per mandarli a morire in massa su una spiaggia e, atto di parziale (e ipocrita?) riparazione, ne restituiscono uno. La cosa si ripete da sempre, da Lincoln fino al D-Day (e oltre? farà mai Spielberg un film sul Vietnam?). Nella prima e nell'ultima immagine del film, prima che lo schermo si faccia completamente nero, la bandiera americana, senza più colori, grigiastra, scura, quasi non sventola più. La partita simbolica sembra giocarsi, in Salvate il soldato Ryan, esclusivamente dentro i confini dell'America, della famiglia americana. Solo l'America conta, i tedeschi sono nemici e la Francia è vuota. Se i francesi non ci sono, i tedeschi sono nemici e basta, invisibili dentro un bunker sopra la spiaggia, torce da lasciar bruciare, prigionieri anonimi cui mostrare la stella di Davide, anonimi soldati nella battaglia finale per il possesso del ponte. Gruppo che urla parole incomprensibili quando cade un muro: in quel momento, quando in modo del tutto inattendibile ma fortemente significativo ce li si trova di fronte, si oppongono urla a urla, poi li si uccide tutti. Non si deve entrare in contatto con loro. Non ci sono parole da dire, soltanto urla e spari. C'è un solo tedesco identificato con precisione, quello salvato dopo l'attacco alla postazione radar, quello con cui Upham parla, quello che alla fine si trova, ancora in modo inattendibile ma fortemente significativo, a Ramelle per affondare un coltello nel cuore di Mellish e sparare a Miller. Con questo soldato salvato che torna per uccidere (e che riassume tutti i soldati tedeschi?) è il caporale Upham a parlare.
Upham è interprete, conosce il francese e il tedesco, potrebbe entrare in contatto con i rari abitanti del deserto francese e col nemico. Upham ha il compito di parlare con i pochi altri che si incontrano e si riserva un compito, quello di stare lontano, di non prendere parte: osserva con il visore del fucile l'attacco al bunker, non interviene per salvare Mellish, si mantiene fino all'ultimo fuori dalla mischia. Anzi, parla col nemico, con un soldato nemico, prende le sue difese, vuole che sia lasciato libero: lo salva. Solo quando la partita è finita, quando gli aerei sorvolano il ponte e i tedeschi si sono arresi, lui spara al tedesco e, inutilmente, lo uccide (per dimostrare di essere anche lui, nonostante tutto, un buon americano?).
All'inizio, un uomo che non sappiamo chi sia ricorda la guerra e lo sbarco. La macchina da presa si avvicina ai suoi occhi chiari ed è con i suoi occhi che torniamo a Omaha Beaeh. Per questo pensiamo, per tutto il film, che quell'uomo che ci riporta indietro nei suoi ricordi sia il capitano Miller. Lui è sbarcato sulla spiaggia, non Ryan, paracadutato nell'interno. Non è così: Miller muore per salvare Ryan i cui ricordi sono quelli di Miller. Per Spielberg, Miller e Ryan sono la stessa persona.
Ryan ha meritato di diventare Miller, ne ha continuato l'esistenza. C'è una linea ideale tra i due soldati: uno ha salvato l'altro, l'altro ha meritato di esser stato salvato. Poteva salvarsi Miller, si è salvato Ryan. Non importa, importa che uno valga l'altro, che chi è stato salvato si sia poi meritato d'essere tornato a casa. Ma c'è un'altra linea, sotterranea, pericolosa e oscura che prende il via vicino a quel ponte: insieme a Ryan e a Reiben, il terzo sopravvissuto è Upham. Di lui, figlio di un'altra America, non sappiamo più nulla.
Ad Omaha Beach, dentro lo sbarco, a riprendere lo sbarco, c'erano anche John Ford e i suoi uomini con le macchine da presa. Nel film di Spielberg, dopo l'attacco al radar, quando Miller seppellisce il soldato Wade, morto dissanguato invocando il nome della madre, le immagini d'un tratto si scolorano, passano al bianco e nero, riducono la figura di Miller a ombra. Il capitano Miller sta, silhouette nera contro il cielo, tra i rami di un albero e del filo spinato. Miller, appena prima, ha dovuto rivelare la propria identità per superare un momento difficile, quello in cui un americano, il sergente Horvath, minacciava di ucciderne un altro, il soldato Reiben. Miller rivela di essere un insegnante di letteratura, di insegnare nel liceo Thomas Alva Edison, di allenare la squadra di baseball della scuola. Più americano di così. Miller parla ancora, crede di essere cambiato, si chiede se sua moglie lo riconoscerà, se saprà raccontarle giorni come quelli. Aggiunge che trovare e salvare Ryan gli fa guadagnare il diritto di tornare a casa: «Più uomini uccido e più mi sento lontano da casa». Miller lascia libero il tedesco che lo ucciderà: non tornerà a casa. Miller consegna la sua identità ai suoi compagni. Quell'immagine che perde i colori e si fa soltanto bianca e nera con Miller, pura ombra, che seppellisce Wade, è anticipazione della sua morte. Ed è un'immagine puramente fordiana, che potrebbe venire da un grande film come Young Mr. Lincoln (Alba di gloria, 1939), se solo prendessimo qualcuna delle sue immagini e ne riducessimo le componenti, Lincoln e gli alberi, a puro profilo. È con le parole di Lincoln che sarà comunicata alla moglie la morte di Miller.
Spielberg, nel suo film più ambiguo e triste, ricorda Ford, racconta una storia tutta americana nel verde deserto di Francia, fa muovere stancamente la bandiera del suo paese, scolorita e nerastra. Tornerà di sicuro ai suoi dinosauri e ad altre creature da spettacolo. Per intanto, qui, in Salvate il soldato Ryan, dimostra di esser diventato grande.