A 23 anni dalla prima uscita, è arrivata sul grande schermo (da ieri, e sarà in sala ancora oggi) la versione restaurata di L’amore molesto di Mario Martone, tratto dall’omonimo romanzo di Elena Ferrante. Il film è distribuito da Lucky Red e a partire dal 20 novembre prossimo uscirà in Bluray per CG Entertainment.
Per l'occasione abbiamo recuperato la recensione di Demetrio Salvi che comparve sul n. 344 di Cineforum, acquistabile qui.
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Nel film di Martone esistono riferimenti, riflessioni e presenze appena accennate, rimandi sotterranei che è piacevole scoprire: sono percorsi alternativi che non vanno ignorati. Senza penetrare nel centro storico come aveva fatto con Morte d'un matematico napoletano, ma sfiorandone il perimetro con personaggi che si muovono da piazza Ottocalli a via Foria a piazza Cavour fino alla periferia di Gianturco e del Rione Luzzatti, Martone tasta e sfrutta altre presenze della città, protagonista indiscussa. Delia (la bravissima Anna Buonaiuto) ha appena lasciato Antonio Polledro, il suo antico compagno di giochi, amico che non vedrà più, che Daniele Sepe, con la sua musica, recuperando un'antichissima tarantella, ne accompagna l'uscita dalla cumana, il rituffarsi nella città che l'attende per rimpossessarsi dell'anima e, soprattutto, del corpo.
[…] Martone va avanti per la sua strada, accetta il ritmo alternato che il testo di Elena Ferrante gli impone: avanti e dietro, un eterno fluttuare di mare che copre e che scopre, di schiaffi che colpiscono di diritto e di rovescio, di realtà passate e presenti, un passato che copre gli errori dell'anima e un presente che ne scopre le ferite profonde. Certo, in questo gioco la letteratura ha partita vinta, i meccanismi che le permettono di viaggiare nel tempo sono più raffinati, mostrano meno fratture. Il cinema fa quello che può: il passato è simbolicamente rappresentato dal bianco e nero, il ricordo pasticcia con i colori e le figure risultano meno chiare, alterate nei contorni. I mezzi sono quelli che sono ma Martone fa bene ad accettare il rischio d'una semplificazione magari eccessiva perché, in questi momenti, è bene essere chiari, gli si perdonano volentieri certe ripetizioni, certi "salti" forse incomprensibili per chi non ha letto il libro. La forza di questo film è, per fortuna, altrove.
I volti che gli attori donano ai vari personaggi permeano il film di una presenza che racconta, che dice a sua volta. Sono facce che non conce- dono nulla, che non si addolciscono tanto facilmente. Sono visi scavati, nervosi, irregolari oppure tondi e laidi, volgari, veraci. Sono bocche che baciano e colpiscono di lingua, che urlano volgarità e accuse infamanti, che spingono alla rivoluzione. Che testimoniano una realtà barocca tanto forte e violenta da far male.
[…] Anche Elena Ferrante fa la sua parte. Il suo è un romanzo bellissimo, un bellissimo giallo, un ottimo testo di genere. L'amore molesto mantiene fede a tutti i dettami del genere: articola i capitoli quasi come se fosse un romanzo d'appendice, utilizza situazioni, ambienti, personaggi nel modo opportuno e tiene vincolato il lettore, lo affascina, lo tira dentro. Usa la pioggia, il caldo, gli abiti inzuppati e la pelle madida di sudore, i cazzotti ed Il sesso come Chandler. Gioca con la psicologia dei personaggi, li riempie di vita, cala tutto in un denso sentimento violentemente realistico e ci fa correre dietro un senso, la risoluzione del mistero doppio che avvolge la storia, quasi come se amasse ripetere certe formule care ad Agatha Christie.
Infine avvolge tutto in una calda confezione pregna di umori, odori forti e fa aprire i suoi personaggi all'interno di un mondo che è quello napoletano, lasciato lievitare al di fuori di ogni rappresenta zione estrema. E, poi, soprattutto, non teme di mettere in gioco sentimenti e violenze che vivono all'interno della famiglia: le dinamiche forti ed allucinanti di chi coabita sotto lo stesso cognome, sono messe allo scoperto senza che alcuna banalizzazione infastidisca il lettore (potenza del genere letterario).
Anche la lingua viene sconvolta e messa sotto accusa: nel romanzo è particolarmente evidente l'uso simbolico del napoletano (mai utilizzato realmente lungo tutto il corso del racconto), quasi come se fosse l'unico vettore capace di trasmettere volgarità e violenza verbale – in netta contrapposizione con ciò che, questo dialetto, veicola attraverso certe mielose canzoni.
Un'altra Napoli, quindi. Ancora diversa da quella dei Quartieri spagnoli, del centro storico, della 167 di Secondigliano, di Bacoli e di Pozzuoli, di Pompei e di via Caracciolo. Vive un'anonimità che, ancora, perversamente, incuriosisce, che fa stare lì a guardare anche chi, in questa città, giorno per giorno, continua a vivere, continua a lottare.