Sono passati quarant'anni dall'esplosione di The Blues Brothers, che la Universal Pictures Home Entertainment celebra con la nuova edizione speciale in formato Steelbook 2 dischi, contenente il film in versione 4k Ultra HD e in versione Blu-Ray standard, più ricca sezione di contenuti speciali. Per l'occasione, e per il settantesimo compleanno di John Landis che nasceva proprio il 3 agosto del 1950, vi proponiamo i due articoli di Emanuela Martini sul "Catacomico" e su John "Schifezza" Belushi, usciti su Cineforum n. 202, a marzo del 1981. Acquista il numero della rivista in pdf cliccando qui.
L’irridente dissidenza del “catacomico”
The Blues Brothers e L’aereo più pazzo del mondo appartengono alla stessa famiglia: umorismo sopra le righe e, spesso, volgare, sovrabbondanza di citazioni, situazioni paradossali e farsesche, una miriade di personaggi e comparse, gag a distanza ravvicinata, rumore, colore, casino. Da noi, chi lo chiama umorismo “goliardico”, chi lo chiama “demenziale”. Sommariamente, il genere ha già un nome, “catacomico”, e va incontro, senza celarsi dietro nessun alibi, alle nuove richieste di spettacolo tutto da consumare sul posto, assordante e catalizzante, in una specie di immersione totale in un universo paradossale e ridicolo. Certo, va a rimorchio del riflusso e della caduta dell’impegno, ma non rassicura, non offre modelli di riferimento, non mistifica. Il paradosso e il nonsense sono i suoi strumenti, che usa tranquillamente anche verso se stesso, la citazione burlesca il suo codice linguistico, la superficialità esasperata la sua apparenza.
Ma il suo biglietto da visita più pertinente, dispiegato ed esibito con noncuranza, è lo spreco: film da milioni di dollari, con migliaia di comparse, scenari distrutti, sovrabbondanza di situazioni narrative, molteplicità di gag e battute che si sovrappongono a una tale velocità da andare spesso perdute. l tempi del gag sono irrispettosamente accelerati e ogni nuova trovata è contenuta e costretta in uno spazio filmico limitato per far posto a tutte le altre che urgono e si ammassano fino a gonfiare il film in un accumulo rumoroso e caotico. Non sono, questi, errori di regia; l’effetto frastornante non nasce da una calibratura inesatta, ma da un’inequivocabile volontà di elaborazione di uno spettacolo cinematografico che deve essere “super”: o aggiungendo film a film, o facendo lievitare i singoli film, riempiendoli di topoi fino a farli strabordare; dopo che la gigantografia della catastrofe ha caratterizzato gli anni ’70, chiudendoli all’insegna della più cupa, ineluttabile apocalisse, ecco gli anni ’80 aprirsi all'insegna del superspettacolo comico, che non è disteso e felice, ma esasperatamente Iudico, cinicamente autoconsapevole.
E, totalmente immersi in una macchina per far spettacolo, in una macchina senza sogni, constatiamo la fine di una delle stagioni più belle del cinema americano. C’è chi ritorna al privato, chi si rifugia nel sogno di altri mondi infantilmente avventurosi, chi continua a confrontarsi con la propria inadeguatezza, e chi, come i casinisti di questi film, decide di giocare con la propria vitalità e i propri ricordi, svillaneggiando tutto, ma tenendo accortamente le distanze dalle proprie emozioni. Ben vengano la buffoneria e la lucida frenesia di questi autori che sembrano aver deciso che un film è un film, e non un confessionale, e che, se gli anni ’80 devono procedere, come si dice, all'insegna della restaurazione benpensante, tanto vale divertirsi andando a ripescare nel calderone apparentemente innocuo della volgarità goliardica. Nonostante tutto, ballo, musica, sesso, risata rimangono, con la loro istintualità immediata, sacche di libertà, aree di irridente dissidenza. In un organismo sociale che, per riaffermare la propria validità, rintraccia i propri simboli di sicurezza e benessere nella continuità con anni antecedenti all’esplosione del dissenso, può essere una scelta dinamica quella di andare a recuperare atteggiamenti e tendenze che, in quei medesimi anni, connotavano le sole eccezioni tollerate alle regole: vita di college, scherzacci, sberleffi, volgarità, oltraggi alla pruderie benpensante.
Naturalmente questi film, che all'apparenza si impongono per la loro naïveté, coltivano sotto le scorie biologiche e gli stracci una lista interminabile di riferimenti cinematografici: i modelli obbligati per la strada del paradosso (i fratelli Marx e, soprattutto, quell’inesauribile fonte di trovate che è Helzapoppin’ di H.C. Potter e certe vertiginose commedie anni ’60 come Questo pazzo, pazzo, pazzo, pazzo mondo di Stanley Kramer), il film bellico o comunque “eroico” (come quello Zero Hour di Hall Bartlett del 1957, di cui L’aereo più pazzo del mondo ricalca pari pari il soggetto), le commedie “studentesche” dei tardi anni ’50, con le loro Sandra Dee e Troy Donahue, il musical, il film carcerario alla Peckinpah e alla Siegel, i recenti megafilm fantascientifici accanto alle suggestioni dell’horror di serie B (entrambi, con molti altri ancora, in 1941), fino ad arrivare disinvoltamente a citazioni ovvie proprio perché ormai diffuse soprattutto in forma di rielaborazione satirica (come Travolta e la spiaggia di Da qui all’eternità in L’aereo più pazzo del mondo). Su tutte, la comune costruzione in chiave “catastrofica” e, come naturale sbocco della deformazione di quest’ultima, il riaffiorare dello slapstick. Come dire che Airport e Lo squalo si stemperano nella comica finale.
Allora, questi film non sono altro che piacevoli collage di brani “à la manière de”? Certo, sono anche questo, ma in termini molto più meditati di quanto non appaia a prima vista. A parte il fatto che gran parte del comico cinematografico è rifacimento di precedenti modelli filmici, va ancora sottolineato che questi film arrivano a chiusura degli anni ’70, il che significa dopo Bogdanovich, dopo Allen, dopo American Graffiti; dopo, in pratica, che tutte le strade della rivisitazione ironica sono state ampiamente battute. Spinti dall’accelerazione massima dell’obsolescenza del prodotto, questi film rileggono “quello che avrebbero potuto essere” se fossero nati in tempo nel decennio scorso. In questo senso è esemplare The Blues Brothers, la cui atmosfera tutto sommato rarefatta è in larga misura indotta dalla accurata pignoleria con cui Landis costruisce un doppio registro di rimandi; infatti il film non solo ripercorre, con la diversa impostazione dei numeri musicali, l’intera storia del genere (dal classico bianco e nero dell’esibizione di Cab Calloway, attraverso gli all-negroes film e i dialoghi cantati della commedia musicale, fino alle animazioni collettive stile Hair), ma ammette - e forse rimpiange - di non poter essere Getaway, Carrie, Taxi Driver, Ma papà ti manda sola?, Nashville, Sugarland Express e chissà quanti altri ancora. In un trascinante finale che non può non far venire in mente l dimenticati di Preston Sturges, ride amaro della propria impotenza e si consacra a buffone di corte.
Sono passati più di dieci anni; nostalgia, demistificazione, rilettura sono diventate perle supplementari della collana dei falsi miti di cui la Nazione americana si adorna; forse - ma è solo un’ipotesi - la fissità e l’assenza iperrealiste, già serpeggianti nel vecchio “nuovo cinema americano”, si avviano a diventare le dominanti di parte del futuro cinema, americano; forse questa è la sola maniera di prendere un poco le distanze dall’utilizzo comunque falsificante cui l’industria sottopone l’oggetto e la sua riproduzione. Questa è, in ogni modo, la strada indicata dall’ex giovane autore che con più rapida determinazione ha precorso e percorso le tappe, Steven Spielberg, il primo a riprodurre con freddezza matematica il grande anacronistico bordello che oggi ricuce tutto all’insegna del “come eravamo” e, non a caso, il più citato dai più giovani registi (tra l’altro Spielberg, nel ruolo dell’impiegato della contea Cook, sigla la sequenza alla Sugarland Express di The Blues Brothers). Divenuta ormai anacronistica la riproduzione della minacciosa incombenza dell’autocisterna, chissà che il segno dell’inquietudine non passi attraverso la riproduzione della straripante materialità di Belushi.
John “Schifezza” Berlushi
Grasso, sporco, maleodorante, con la faccia unta e larga da mercante di salsicce del ghetto ebraico, occhi brutti e inespressivi, labbra enormi, mani tozze e larghe; e ancora, sgarbato, stizzoso, presuntuoso, totalmente incolto, intento solo alle funzioni biologiche minimali. Non parla, sbraita; non cammina, irrompe dondolando; non sa stare a tavola, neppure tra le compagnie meno esigenti; sputa, rutta e sbava; certamente non si lava molto e altrettanto certamente si mette le dita nel naso. Bene, dovendo scegliere tra i soprassalti esistenziali di Martin Sheen, le nevrosi ciniche di Christopher Walken e quelle più morbide di Richard Gere, l’aristocratico humour della schiatta Carradine e l'oggettiva schifezza di John Belushi, non avrei dubbi ad attribuire a quest'ultimo il più dirompente potenziale divistico apparso nel cinema americano degli ultimi anni.
Al di là, infalli, delle rispettive doti professionali, Belushi è il solo che abbia avuto il coraggio di portare la propria maschera oltre gli anni ’70, magari aiutato in questo da una serie di congenite storture. È vero, cioè, che Belushi l’adipe, una certa cialtroneria e quella faccia se li ritrova in natura; ma è altrettanto vero che sceglie, come è stato scritto, di assomigliare a King Kong piuttosto che a Marlon Brando, che cioè forza ed esalta tutte le proprie caratteristiche più spiacevoli. Ripulito, un po’ smagrito e sottoposto a qualche rovello esistenziale, diventerebbe un tipo torvo, se vogliamo un po’ rozzo, ma affascinante. Invece, attribuire oggi “fascino” al personaggio Belushi provoca le stesse risatine che provocava dieci anni fa lo stesso apprezzamento rivolto a Woody Allen; almeno, a vantaggio di quest'ultimo andavano la propensione intellettuale e la maldestra timidezza. Belushi, dal canto suo, è assolutamente privo di qualsiasi attrattiva fisica e morale: trasforma la goffaggine un po’ petulante dei grassi in un'energia devastatrice e del tutto priva di imbarazzi, la spontaneità dei disadattati in innata e consapevole maleducazione, la snobistica scioltezza degli abiti in atavica e irrimediabile sporcizia; sembra che gli si sia attaccata addosso, come al Pig Pen di Schulz, la povere dei secoli.
Balzato fuori come il più osceno animale della Delta House, John Belushi ha continuato imperterrito a inalberare la propria impudica volgarità; in questo, oltre che in un vitalismo esasperato, a tutto tondo, sta la forza del suo impatto. È l’unico che sia riuscito a “fisicizzare”, senza imbarazzi o alibi, le nevrosi degli anni ’70; l’unico simbolo attuale dello svacco.
Tutti gli altri, in fondo, quando non siano tornati a essere sani giovanottoni con i capelli a spazzola, non fanno che proseguire lungo la strada tracciata dalla grande generazione (anti)divistica degli anni ’70, senza riuscire, tra l’altro, ad andare sopra le righe, come fanno invece oggi i vari Nicholson, De Niro, Gould, Hoffmann, Dreyfuss, istrioni ironici che gigioneggiano con i propri tic interpretativi. Ormai, la bruttezza non esiste più (e una faccia, due piedi e un’andatura come quelle di Walter Matthau possono essere di un irresistibile seduttore), il comportamento manifestamente nevrotico affascina e la trasandatezza, divenuta di moda e tramontata, è tollerata come appannaggio di inguaribili snob. Non ci sono più frustrazioni, noie e ansie da portare sullo schermo che lo schermo non possa reingoiare dietro il proprio smagliante candore. L’unica cosa che possa, su questo schermo, ancora rimbalzare è l’urlo o la materialità più esibita; falsa, naturalmente, come quella della faccia tutta rosa e gommosa di Christopher Reeves in Superman II e come quella tutta sudore e pori dilatati di Bluto/Wild Bill Kelson/Jake Blues. John Belushi è più vero del vero; salta fuori dallo schermo come il treno dei fratelli Lumière o come il cowboy di The Great Train Robbery; e, come quelli, spaventa gli spettatori.