Il cadavere di un uomo giace nel bagno mentre David Bowie canta Heroes/Helden alla radio. Suo fratello Robert arriva con una vecchia Rover da un'altra città. Nel suo viaggio lo accompagnano brani dei Kraftwerk, di Ian Dury, di Wreckless Eric e ancora di David Bowie. Un meccanico, lungo la strada, è ossessionato da Eddie Cochran: il meccanico è Sting. Il viaggio prosegue con i Rumour, Lene Lovich e i Devo. Alla fine Robert sale su un treno, sulle note di Ohm, Sweet Ohm dei Kraftwerk. Questa è la formidabile colonna musicale di una piccola, preziosissima opera prima diretta da Christopher Petit nel 1979 e prodotta da Wim Wenders assieme al British Film Intitute. Uscito a suo tempo in Italia grazie a Lab80 Film, Radio On sarà ripresentato in copia restaurata al prossimo Bergamo Film Meeting, per essere poi redistribuito dalla stessa Lab 80 film con la partecipazione di FIC – Federazione Italiana Cineforum. Davide Ferrario e Adriano Piccardi recensirono il film sul n. 200, dicembre 1980, di «Cineforum». Riproniamo qui un ampio stralcio dell'intervista all'Autore.
Cineforum – So che non ti piace che per Radio On ci si continui a riferire a Wenders. Eppure è da qui che bisogna partire, credo, non fosse altro che per evidenziarne le differenze. Innanzi tutto, come è nata l'avventura produttiva di Radio On?
Christopher Petit – Ho fatto il critico cinematografico a Londra sei anni per «Time Out» e ho sempre avuto l'intenzione di scrivere una sceneggiatura, prima o poi. Ma il problema in Inghilterra è: su cosa fare un film? La tradizione inglese, per me, è essenzialmente non visiva né cinematica; è in gran parte teatrale, dipende dalla parola scritta: non abbiamo una tradizione di attori cinematografici, per esempio. Bisogna andare indietro vent'anni per trovare un vero movimento, gente come Schlesinger, Reisz, Anderson. D'altra parte c'è una linea tradizionale del cinema inglese che va da Michael Powell e Ken Russell a Derek Jarman, ma non c'è alcun modo in cui senta di potermi ricollegare a questa linea. Fu vedendo i film di Wenders che giunsi a intuire il modo (almeno un modo) di poter realizzare un film in Inghilterra. Wenders ha un background simile al mio, si è educato col cinema. E ha mostrato un modo di dire le cose. Se fossi stato dieci anni più vecchio probabilmente sarei stato attratto molto di più da Godard. Nondimeno devo ammettere che Radio On è influenzato da Godard quanto è influenzato da Wenders.
C – E da Antonioni…
CP – Antonioni, certo. Radio On è un film pieno di riferimenti perché, come ti ho detto, uno del problemi è su cosa si può fare oggi un film In Inghilterra: è una nazione piccola, molto provinciale, molto statica, quasi immobile. Ho incontrato Wenders nel 1977 per un'intervista. Lui era molto stanco, stava girando L'amico americano. Avevo appena cominciato a pensare a Radio On e avevo bisogno di un incoraggiamento, e durante tutta l'intervista continuavo a chiedermi se parlargliene o no. Alla fine mi sono detto: perché no? […] Wenders poi non dico mi “prestò”, ma fece sì che a Radio On lavorassero Martin Müller (tecnico del suono), l'operatore Martin Schäfer e Lisa Kreuzer, rinforzando l'incrocio culturale tra Germania e Inghilterra. All'inizio della lavorazione ero nervoso perché non volevo fare solo un omaggio o un pastiche di Wenders. Dissi a Martin Schäfer: «Non voglio che tu faccia il Robbie Müller; se faccio troppo come Wenders, avvertimi». Era davvero importante per me che il film fosse in qualche modo “contro” di lui. D'altra parte è ovvio che abbiamo dei temi in comune: uno è il senso di spietatezza, l'altro il senso della dominazione americana, e l'attrazione per un genere, il road movie. E Radio On è per me una critica di questo genere. Ma i film di Wenders ruotano sempre intorno a delle relazioni tra un certo numero di persone, a parte Prima del calcio di rigore, che è tanto di Handke quanto è di Wenders. Radio On non è affatto intorno a delle relazioni e la ragione sta nella domanda che mi ponevo all'inizio: su cosa fare un film inglese? Avevo scartato diverse ipotesi, e anche l'idea di fare un film su un rapporto. E questo è una differenza cruciale tra me e Wenders ed è anche una delle ragioni per cui Radio On è un film freddo. Ma c'è anche un continuo humour, credo, un humour inglese che non so se tutti apprezzano. Anche l'utilizzazione del rock in Radio On è molto più strutturata che in Wenders.
C – Wenders fa riferimento a tutto il cinema e lo rielabora; tu, invece, fai riferimento a Wenders come modello singolo. È una questione diversa. In generale, quale è il tuo atteggiamento nel confronti del linguaggio cinematografico?
CP – È una questione difficile, ma si può rispondere. Prima di tutto devo dire che ci sono altre citazioni in Radio On: Fritz Lang, Antoniani, Godard. Ma in qualche modo mi sento più influenzato da Peter Handke che da Wenders. Credo che Wenders, per quanto stranamente, abbia sempre operato attraverso un senso della tradizione: e Lang è un punto focale nel problema di queste relazioni tra Wenders e il cinema. Per me non c'era nessuna possibilità di sentirmi parte di qualcosa, niente a cui riferirmi. Non ho il genio eclettico di Godard, che gli permette di mettere tutto nel cinema. Il punto interessante in Handke è, credo, che scrive dallo stesso stato di depressione in cui·mi trovo io. Mi ci vuole molto per trovare il giusto modo di dire le cose, anzi, di trovare qualcosa da dire. I film di Wenders sono in un certo modo più fiduciosi; io mi sento un outsider. I film che mi piacciono non hanno niente in comune con Radio On. Mi piacciono i film neri, i film americani di serie b, Clint Eastwood, John Milius. Radio On è l'assenza di tutto questo. Così, con tutte le discussioni che si fanno sul cinema inglese, ero certo che il mio film sarebbe stato preso e visto in un certo modo: se vuoi, dimostra l'impossibilità di fare Easy Rider in Inghilterra.
C – La presenza dei mass media in Wenders è in qualche modo “gentile”; in Radio On è solo ossessiva…
CP – Penso che uno dei temi principali del film sia epitomizzato da quella citazione dei Kraftwerk all'inizio del film: «La nostra è una realtà elettronica». Questa è una delle chiavi del film: differenti forme di comunicazione, radio, televisori, telefoni, il che significa una progressiva scomparsa della comunicazione personale. E come se nel film avessi fatto una lista delle varie forme di comunicazione e avessi lasciato fuori la gente.
[…]
C – C'è anche un'ossessione dello spazio, sia che si viaggi sia che si stia fermi. Come se i personaggi fossero tutti fuori sintonia con la realtà.
CP – Molta gente parla di alienazione a proposito di Radio On. Non credo che sia così. Credo piuttosto che si tratti di vedere qualcosa come se fosse leggermente fuori centro, la sensazione di non essere nel posto giusto, mentre l'alienazione ha più a che fare con un senso di “angst”. Ho girato il film in bianco e nero perché pensavo che il colore sarebbe stato una distrazione; e una delle cose che più ho curato con Martin Schaefer sono state le inquadrature, cercando di fare ogni volta inquadrature o cornici dentro l'inquadratura. Martin ha capito benissimo e ogni volta che vedevo i provini era esattamente quello che volevo, anzi meglio. Per quanto riguarda il problema della dislocazione è importante che il film sia stato fatto da stranieri così che la reazione del pubblico inglese è: «Sì, è l'Inghilterra, ma non l'ho mai vista così».
C – Sei d'accordo che Radio On è un film sulla paura?
CP – Sì… la paura del calcio di rigore. [ride]
C – E qual'è la specificazione britannica della “paura” occidentale?
CP – La paura al cinema è un'emozione che di solito viene trasformata in terrore o in suspense. Ma c'è una cosa che Handke riesce a fare molto bene ed è catalogare tutte le volte che si ha paura ogni giorno, come quando scendi dal marciapiede e una macchina ti sfiora e cinque minuti dopo hai già dimenticato tutto. Credo che molta gente abbia paura di più di quanto ammette proprio per piccole cose generalizzate. Ovviamente non avevo intenzione di fare un film con dentro terrore o suspense, ma ho lavorato molto sulla colonna sonora per renderla scomoda al pubblico. In termini nazionali è una paura che si traduce in una specie di depressione. L'Inghilterra è una nazione in declino, l'abbiamo visto negli ultimi vent'anni: c'è un senso di perdita dell'identità, anche se non articolato. È qualcosa che si vede, anche se la gente non ne parla.
[…]
C – Uno del motivi che più sembrano avvicinare Radio On a Wenders è l'uso della musica. Ma a ben guardare è uno dei punti in cui vai oltre Wenders. Innanzitutto per la scelta di una musica elettronica molto diversa dal rock di Nel corso del tempo o di Alice nelle città. Non è un caso credo che nel film si celebri Eddie Cochran, una star che è morta. Inoltre questa è una musica alienata, artificiale, che non farebbe mai dire «Il rock'n'roll ha salvato la mia vita».
CP – La scelta della musica è dovuta in parte a ragioni tattiche, poiché non avevamo abbastanza soldi per mettere nel film canzoni americane. E poi, dato che era una coproduzione anglotedesca, mi pareva molto più giusto usare della musica europea. Era proprio quello il momento in cui cominciavo di nuovo a interessarmi di musica dopo quattro-cinque anni. Quando ho sentito Heroes per la prima volta è stato come quando si scopriva qualche pezzo negli anni 60: «È la cosa migliore che abbia mal sentito». Andava a pennello col mio film perché era tutto un gioco ironico, come volevo fosse Radio On: quindi andava benissimo per l'inizio o per la fine. Per quanto riguarda i gruppi inglesi abbiamo fatto un contratto con la Stiff Records, che è una delle poche case attive in questi anni e che aveva quattro o cinque nomi che mi piacevano molto. La musica dei Kraftwerk mi interessava perché è musica meccanica ma è anche molto emotiva, e Ohm, Sweet Ohm alla fine mi pareva una musica molto potente.
C – Ma non credi che posta nella situazione in cui si trova alla fine il protagonista, la canzone sia soprattutto ironica?
CP – Sì, c'era un'altra cosa che mi piaceva. A parte il titolo che è un gioco di parole, avevamo un grosso problema nel trovare un modo per chiudere il film ed è giusto che l'unica cosa positiva che questo personaggio che non ha fatto niente per tutto il film fa alla fine è “suonarsi via” [è una traduzione approssimativa dell'espressione inglese che Petit usa nell'intervista, e che suona “play himself out”]. È anche l'unica volta che la musica sia in fuoricampo. Ho pensato che potevamo renderlo un po' più divertente, ma era importante che il finale sfumasse via lentamente. Ho detto a David Beames: «Non ti chiedo di fare nulla, ma è un gesto positivo che tu suoni questo pezzo e che lentamente scompari». Tutti quelli che partono in treno si sentono un po' ottimisti e un po' tristi.
C – Ti ricordi che in un 'intervista Wenders ha detto «il rock'n'roll ha salvato la mia vita»? Penso che nessuno potrebbe dire lo stesso dopo aver visto Radio On.
CP – Sono molto più dubbioso riguardo all'uso del rock. Per me è certamente uno stimolo ma è anche un palliativo. C'era altro dialogo nel film riguardo a questo, ma 1'ho eliminato perché era troppo pesante. La musica che si sente alla radio di Radio On non è realistica. Non si sente niente del genere in Inghilterra: si sente country e rock'n'roll; piuttosto. Quello che volevo chiarire nella scena della fabbrica è che questa musica è musica studiata per programmare i lavoratori, allo stesso modo di quella che si sente nei pollai industriali per far ingrassare i polli da ammazzare. Le stazioni rock In Inghilterra non fanno altro che aiutare a mantenere lo status quo. La musica rock è controllata da conglomerate multinazionali ed è un avamposto del capitalismo. Forse solo il movimento dal 1975 in poi è sfuggito a questo processo. Ma ora anche The Clash sono un gruppo innocuo.
C – Che senso ha l'utilizzazione di gruppi tedeschi, in particolare per un inglese, dato che è l'Inghilterra la patria di questo tipo di musica?
CP – In un certo senso Radio On è un film del Mercato Comune. Ma è anche vero che l'Inghilterra non si è mai sentita parte della Cee. I Kraftwerk li ho usati perché quando ho sentito la loro musica mi è sembrata la colonna sonora di un film che non era mai stato fatto. E poi Heroes è perfetta perché è cantata metà in inglese e metà in tedesco. Come se fosse stata scritta per una coproduzione. [ride]
C – Il circolo Inghilterra-Germania che si crea in Radio On da una parte va verso una integrazione delle due culture (a livello musicale ad esempio), dall'altra conferma una separazione schizoide (il personaggio di Lisa Kreuzer). Forse perchè l'unificazione culturale del Continente lascia gli individui ancora più confusi. La presenza di due lingue nel film è molto importante. C'è una battuta di Lisa Kreuzer che suona «Parlare in una lingua straniera ti fa sentire la nostalgia di casa, ma se parli nella tua lingua non è sempre possibile farsi capire». Anche la comunicazione verbale, con la sua incapacità di afferrare la realtà, fa parte di quel disperato spiazzamento che è il sentimento generale del film.
CP – Il linguaggio è solo un'approssimazione dei sentimenti, è come un codice e non è quasi mai possibile trovare le parole giuste. Il cinema usa ossessivamente il linguaggio, ma io, forse anche perché scrivo lentamente, preferisco che siano le immagini a esporre il loro significato. E il linguaggio in Radio On diviene sempre più inutile. Era essenziale che fosse Lisa Kreuzer a pronunciare quella frase, perché è straniera: e anche qui devo ammettere l'influenza di Handke più che quella di Wenders.
(Cannes, maggio 1980)