Continua il nostro viaggio dylaniano nelle memorie di Cineforum. Nel numero 190 del dicembre 1979, di cui abbiamo già pubblicato l'estratto a firma di Alessandro Carrera, compare anche la recensione dell'unico film da regista del nuovo Nobel per la letteratura. Davide Ferrario scrive di Renaldo and Clara, il film che racconta il tour della Rolling Thunder Revue svoltosi fra l'autunno del '75 e la primavera del '76 attraverso tutti gli Stati Uniti. Una pellicola fluviale e imperfetta piena zeppa di ricordi, citazioni, sogni e reminescenze musicali. Scritta con Sam Shepard, girata con Jacques Levy e ispirata ad Amanti perduti (Les enfants du paradis, 1945) di Marcel Carné.
«I've been ten thousand miles
In the mouth of a graveyard»
Bob Dylan
Renaldo e Clara muove da un’idea decisamente brillante: Bob Dylan fa un film su Bob Dylan come star, ma il personaggio di Dylan, nel film, è interpretato da un altro. Dylan non è Dylan, è Renaldo. E per completare il paradosso il titolo non fa riferimento a Dylan, ma a Renaldo. Dunque chi è veramente Dylan? Non sono le quattro ore del film a chiarircelo. L’uomo che risponde a questo nome (uno pseudonimo, oltretutto) riesce a mantenere intorno a sé un’ambiguità che alla fine si rivela l’unica garanzia della sua autonomia. Perché, per il resto, Dylan sa benissimo di essere comunque un personaggio. Che, come ogni altra star dell’entertainment industry, tende a essere espropriato della sua personalità. Sdoppiandosi, triplicandosi, mascherandosi (come il «falso» Bob Dylan dei titoli di testa che canta con una maschera di materiale trasparente che gli deforma il viso) Dylan, pur non potendo affermare una identità, riesce perlomeno a eludere le trappole della starship.
Non per niente quando era apparso in Pat Garrett di Peckinpah si era scelto per il suo personaggio il nome più indicativo: Alias. Come Alias anche Renaldo si aggira per le scene del suo film quasi senza dire una parola, rifiutandosi di rispondere, muto testimone di se stesso. C’è da sospettare che Dylan si sia sempre sentito «qualcun altro»: non era l’eroe della canzone di protesta, non era il menestrello nashviiliano, non è - oggi- il poeta. Tutti questi attributi (sigle e slogan che consegnavano e consegnano il nome di Dylan al consumo di massa) si rovesciano in Renaldo e Clara componendo immagini che sovrappongono ironicamente il presente e il passato, un amore riflesso di quella dimensione senza tempo che si addice al mito. Come quando si vede Renaldo incupito che cammina lungo una strada del Village in una inquadratura che è malinconica citazione della copertina del leggendario Freewheelin’, il disco di Blowin’in the Wind (ma il vero Bob Dylan, se esiste, stava in altre canzoni: Don't think twice o I shall be free, per esempio). Oppure quando Bob Dylan-cantante distrugge A hard rain (la troppo famosa canzone degli anni ‘60 sul fall-out atomico) riducendola a canzonetta. Lo strumento utilizzato per realizzare questa idea di fondo è la casualità delle riprese.
Non esiste una vera e propria «storia» del film, ma varie sequenze sono smontate e rimontate più o meno arbitrariamente (il montaggio è stato curato da Dylan in persona) o associate per analogia, il procedimento non è piattamente gratuito: risponde alla necessità di frammentare l’immagine «privata» di Dylan, creando un labirinto di motivi e di fili conduttori che la preservino dalla temuta monoliticità – in alternanza con le scene sul palcoscenico, ordinate e accuratamente filmate, dove la star Dylan recita e interpreta il suo show (nella fattispecie, la Rolling Thunder Revue). Rimane il fatto che, anche se l’occasionalità e l’imprecisione delle riprese hanno una giustificazione, non si spiegano comunque le quattro e più ore di durata. Probabilmente Dylan è rimasto ammaliato dalle suggestioni dell’opus magnum, scambiando il «grande» per il «buono». È stato punito dal pubblico e ha dovuto approntare anche una versione di due ore, distribuita in Italia all'ultimo momento.
In Renaldo e Clara è assente quella capacità di sintesi geniale che era la forza del Dylan degli anni ‘60, quando gli enigmatici e fulminanti versi delle sue canzoni riuscivano a cogliere e a tradurre poeticamente le sensazioni dell’individuo in una società in crisi. Ma forse proprio questa è una delle chiavi per accostarsi a Renaldo e Clara. Chiunque abbia seguito (e amato) Dylan fin dal suo primo disco – chiunque abbia sentito e condiviso il «tono» delle sue canzoni, non può sfuggire l’impressione di ritrovare in alcune scene dei film lo stesso spirito e la stessa atmosfera che attraversavano altrettante canzoni come se la scena ne fosse il passato o la continuazione: i medesimi ambienti, i medesimi personaggi, la medesima ironica irrazionalità. Ovviamente comunicare con le immagini è profondamente diverso che comunicare con le parole. L’illuminata visionarietà di una scena, reiterata in una serie, si appesantisce e perde pregnanza. Talvolta, poi, l’idea è semplicemente infelice. Roney Blakley che pensa al suo maschio baloccandosi un asciugacapelli con sguardo voglioso, per esempio. Certe volte questa ispirazione funziona e le scene «recitate» si riflettono nel pezzo cantato: a questo proposito si tenga presente che, In maniera abbastanza agghiacciante, il pubblico dei concerti lo si vede una volta sola nel film – e mai durante l’esecuzione di un pezzo. Anzi, i brani suonati da Dylan & C. hanno tutta l’aria di non essere «live», ma eseguiti per il film: il che significa che Dylan ha deliberatamente scelto le «falsità» nella messa in scena di una buona metà di Renaldo e Clara perché considera questo gruppo di sequenze un elemento interno al film, che non dev’essere disturbato da agenti estranei.
La dialettica tra vero e falso, tra fittizio e reale è un tema affascinante. Il wellesiano F for Fake, ad esempio, è tutto impostato sulle false identità, sull’esistenza supposta del personaggi. Ma mentre Welles sviluppa genialmente e in modo complesso la sua ricerca investigando la natura stessa del cinema, Dylan, che non ha certo la profondità del vecchio maledetto, non va al di là di una brillante ma unidimensionale intuizione; e il cinema, in Renaldo e Clara, rimane uno strumento, buono per creare la suggestione del doppio, ma incapace di riflettere su se stesso. Così anche la didascalia finale (quella classica in cui si dice che «i personaggi e i fatti sono immaginari») è deliziosamente e «dyianianamente» ironica, ma rimane un’arguzia. È comprensibiie – è il primo (e forse rimarrà l’unico) film di Dylan; ma vaie la pena ristabilire le distanze, perché talvolta Dylan sembra puntare in alto, prendendosi troppo sul serio.
Seguendo questa direzione, comunque, egli evita la banalità del pessimo Ultimo Valzer di Scorsese, dove l’evento «concerto» viene appiattito a celebrazione e, in tal modo consacrato, è reso immobile e muto nella sua qualità di fenomeno di massa – nel bene e nel male. Renaldo e Clara, seppur molto spesso velleitariamente, aspira ad essere più aperto; e Dylan dimostra onestà intellettuale e ironia. Nel film non c’è solo Dylan ma si incontra un ampio campionario della controcultura americana degli ultimi quindici anni: Alien Ginsberg, Joan Baez, varie stelle rock e, naturalmente, Jack Kerouac (sotto forma di pietra tombale). Dylan, come esponente volontario o involontario di questo movimento, ha l’occasione di darne una rappresentazione dal di dentro; e, attraverso questi personaggi, di descrivere una serie di ambienti eterogenei, un mosaico americano non molto pensato ma suggestivo. Renaldo percorre le strade del Village, entra nei club dove una volta suonava Dylan (!), finisce a una festa indiana, suona in un concerto di protesta per un pubblico di neri. Osserva un predicatore a Whitehall, passa attraverso situazioni che sono pezzi di cinema trapiantato, segue il suo spettacolo e, ovviamente, viaggia su camion e treni attraverso la sterminata America con addosso l’highway blues.
Non poche di queste sequenze meritano attenzione, ma fermiamoci su un paio di nuclei: le scene con Ginsberg e tutta la parte su «Hurricane». Ginsberg è stato talmente letto e consumato che, ormai, è probabile che il suo nome non sia ignoto nemmeno alle madri di famiglia più perbene. Ed è proprio in simile compagnia che Dylan introduce Ginsberg nel film. Lo fa sedere in un locale da incubo (ricorda certi ambienti dei film di Kluge) in mezzo a un pubblico di signore attempate, in un’atmosfera da festa del caseggiato – e gli fa recitare Kaddish, la poesia scritta per la morte della madre Naomi. La scena si apre in tono ironico, ma alia fine rivela forse di più di quello che vorrebbe: dice quanto abusata e appassita sia la figura di questo poeta che, ormai, non scandalizza più. Così è goffo il taglio che Dylan fa sul verso della poesia in cui Ginsberg parla della vagina della madre, quasi fosse un apice dissacratorio mentre l’impressione che tutta la sequenza trasmette è solo di stanchezza. Certo, anche a Ginberg è successa la stessa cosa che a Dylan: l’uomo è stato intrappolato dalla sua immagine pubblica. Nessuno può mettere in dubbio la sincerità di Ginsberg – ma è il suo ruolo di simbolo che ha perso significato.
Tutti gli interventi di Ginsberg in Renaldo e Clara sono filmati da Dylan in una terra di nessuno che sta tra il luogo comune più trito e il rispetto per la persona. Non par vero di vedere Ginsberg e Dylan (Renaldo?) filosofeggiare in pellegrinaggio alla tomba di Kerouac, parlando della morte in questi termini: Ginsberg: È cosi che finirai anche tu. Dylan: No, io voglio una tomba senza nome. Viene subito da pensare che è cattiva letteratura (cattivo cinema), ma poi subentra il dubbio che Dylan (evidentemente ossessionato dalle identità e dal nomi) la pensi davvero così. In fin dei conti, anche l’uomo che sta dietro al mito ha diritto ai suoi luoghi comuni. Anche se questi poi finiscono per diventare, a loro volta, delle leggende. Cosi gli amori di Dylan (perla moglie Sarah e per Joan Baez) o la rasatura della barba di Ginsberg: un gesto che, nella sua banalità, assume l’importanza di un rito, di un avvenimento.
Questa natura «infelice» del mito (la nemesi del successo) viene osservata, sull’altra sponda, dal tizio che gioca a flipper. È uno del personaggi fondamentali del film: riappare diverse volte e non fa niente se non giocare a flipper chiacchierando dei tempi che furono e della sua giovinezza a New York – e, di conseguenza, anche della giovinezza di Dylan. «Tutti parlavano di Ginsberg – dice – ma nessuno lo conosceva. Ogni tanto si incontrava qualuno: Ah, tu conosci Ginsberg? Bene». E più avanti, nell’ultima sua apparizione, parla espressamente della trasformazione di Dylan in mito, sostenendo che la realtà era diversa dalla fama: «C’era sua moglie, i bambini...» Questo personaggio è l’intermediario tra il pubblico e le star; così come ricorda che una volta c’erano gli «amici di Ginsberg». Dylan tende a farlo diventare il portavoce della sua propria disillusione e del suo proprio scetticismo. Delegando a un altro questa funzione Dylan evita di riciclarla come parte dei proprio mito: il profeta deluso. Queste scene sono infatti tra le migliori del film – ironiche senza essere pretenziose, perché si appoggiano su un elemento indiretto della finzione, garantendo il giusto calibro della distanza, dell’astrazione.
Quando gli idoli ricompaiono la misura della rappresentazione si sfuoca: e non è tanto ambigua, quanto semplicemente confusa, la scena californiana in cui Dylan, Ginsberg e amici danzano salmodiando intorno a un tavolo mentre il sole, gloriosamente, tramonta. Ovvio, recitare requiem per gli idoli è sciocco, oltre che triste – è sciocco perché fa parte dello stesso meccanismo per mezzo dei quale il divo nasce e diventa famoso. È la legge della moda, accettazione di uno stereotipo di massa. Oggi lo stereotipo è probabilmente quello di distruggere il divo (se ne è accorto Ginsberg nei suo tour italiano); ma questo ribaltamento offre anche la possibilità di riconsiderare quelle figure in una luce più obiettiva, come proeizioni delia nostra storia. Un prezioso attimo di transizione, prima che divengano dominio dell’archeologia – e l’archeologia corre a una velocità impressionante e crudele, oggi: gli anni ‘60 non sono più nemmeno memoria, sono già semplicemente passato.
Personaggi come Dylan e Ginsberg, sopravvisuti al consumo accelerato di cui quel periodo è stato oggetto, si pongono all’incrocio di una serie di problemi. Perché, ad esempio, in Europa le rivolte di quegli anni sono generalmente considerate come «speranze deluse», mentre in America l’opinione media è che hanno portato un cambiamento positivo nella vita quotidiana? Proprio secondo questo movimento Dylan è stato riciclato dopo anni di silenzio, diventando, da folksinger, «poeta» in musica. Riguardo a queste interazioni tra cultura di massa, personaggi e politica è particolarmente istruttiva la parte di Renaldo e Clara su Ruben «Hurricane» Carter. Costui era, dieci anni fa, un pugile famoso che si trovò implicato in una rapina. Anche se completamente innocente, fu inchiodato dalla testimonianza di due bianchi, ricattati dalla polizia perché si potesse condannare un imputato nero.
Nel ‘76 Dylan aveva fatto di questa storia un canzone (Hurricane, appunto, in Desire) che, ovviamente, aveva reso famosissimo il caso di Carter. Dopo nove anni di galera, «Hurricane» era stato rimesso in libertà con la prospettiva di avere un nuovo e più equo processo. Le sequenze del film sono un montaggio delle immagini registrate alla conferenza stampa rilasciata da Carter dopo la liberazione e di interviste fatte a passanti neri per la strada riguardo a tutta questa vicenda. Così, mentre Carter riafferma la sua fondamentale fedeltà alla giustizia americana, altri neri per la strada gridano nel microfono che tutta la storia è un esempio del razzismo della società. Un uomo afferma tranquillamente che in tribunale non si aspetterebbe mai un giudizio equo, perché – prima di essere colpevole o innocente – sa di essere negro. Una signora imbambolata dice cose senza senso, ipnotizzata dalla telecamera. Un attempato signore bianco male in arnese suggerisce che è meglio che non dica quello che pensa – perché faceva il poliziotto.
Questi interventi, composti in maniera apparentemente disorganica, tratteggiano un quadro amaro di alcune delle contraddizioni della società americana. È difficile chiarire analiticamente i diversi elementi che interagiscono: un sistema che è capace di ammettere la propria ingiustizia nei confronti di un nero solo se è un bianco (democratico e di successo) a intercedere; il contrasto tra storia personale e significato politico della stessa: Carter che ha fiducia nel sistema nel momento stesso in cui per gli altri neri è la vittima dell’ingiustizia; l’irrazionale contrapposizione tra il nero povero e il bianco povero, che si consola considerandosi superiore; soprattutto, l’onnipotenza dei media. Erano stati gli organi di informazione ad assecondare la tesi della colpevolezza di Carter, avventandosi sulla romantica storia del pugile di successo rovinato dall’intermperanza. È Dylan che, di nuovo, romanza la storia di Carter dal punto di vista opposto. L’esperienza – umana e politica – del pugile subisce una trasformazione e una mistificazione tale che, alla fine, tra la realtà e la sua immagine c’è un abisso. Che il medium sia «cattivo» o che operi per riparare un torto, la concretezza delia verità viene stravolta. Dylan lo sa bene: anche Carter entra a far parte del mondo di fantasmi dal falso nome che popolano Renaldo e Clara.
Dignitosamente, Dylan non è presente nella scena della liberazione di Carter; compaiono invece i due bambini che, quando vedono la telecamera, vogliono solo sapere se «Metteranno questo in tv». Riuscendo in qualche modo a mantenersi distante da questo tipo di rapporti e da questo tipo di consumo, Dylan non è stato completamente stritolato dalla macchina di cui è un ingranaggio. Paradossalmente il suo successo ha resistito agli anni. Il prezzo? Essere un altro, diventare costantemente «Alias» ai tempi che cambiano. Come un perfetto sconosciuto, come una pietra che rotola.