Il prossimo Filmfestival del Garda (quattordicesima edizione, dal 27 maggio al 2 giugno) ospiterà un ampio omaggio all'attrice austriaca naturalizzata francese Romy Schneider, con proiezioni di film e vari incontri a tema che vedranno anche la presenza di Emanuela Martini, direttrice di «Cineforum». Celebre per la serie ispirata alla vita della principessa, poi imperatrice d'Austria Elisabetta detta Sissi, che rischiava di imprigionarla nella parte, Romy Schneider alla fine degli anni 50 sceglie di interpretare ruoli più complessi, dove la sua bellezza da cerbiatto, l'eleganza di portamento, la discreta incisività e versatilità interpretative delineano e scolpiscono personaggi dalla psicologia profonda che rimangono stampati nella memoria, sia nella commedia (Mi presti tuo marito?, riuscitissima chemistry con Jack Lemmon) che nel drammatico (il più famoso dei quali probabilmente è La piscina di Jacques Deray, al fianco di Alain Delon). Particolarmente felice è il sodalizio con il regista francese Claude Sautet, che darà vita a cinque film. Di Sautet è Una donna semplice (Une histoire simple, 1978), recensito da Ermanno Comuzio su «Cineforum» n. 184, maggio 1979, che qui riproponiamo.
Claude Sautet è un regista francese di cui si è parlato poco, finora. Abbiamo cominciato ad accorgerci di lui dopo L'amante, e poi a proposito di È simpatico, ma gli romperei il muso e di Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre.
Con Una donna semplice, mettendo tutti insieme, bisogna forse convenire che la vena di Sautet non è così flebile, cosi piccolo borghese come sembra a tutta prima. Bisogna dire forse, soprattutto, che il Nostro è un autore, sia pure in un ambito ben determinato (nel cantare le “piccole cose della vita”, per dirla con una definizione sospetta ma abbastanza puntuale).
Ho detto “forse”, è una verifica da fare. Anche perché «Cineforum» finora non ha trattato o quasi questo regista: ci sono stati due brevi “film-guida” in tutto, per È simpatico, ma gli romperei il muso e per Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre.
Marie ha 39 anni e lavora come disegnatrice in una grande industria. Ha un figlio di sedici anni ed è separata dal marito, dirigente nella stessa industria in cui lei lavora. Marie frequenta Serge, piccolo commerciante in proprio, o meglio procacciatore d'affari, ma tronca la relazione, interrompendo la gravidanza quando sa di aspettare un figlio da Serge.
Marie sta bene sola. Frequenta la madre e una coppia di cari amici e colleghi di lavoro, Gabrielle e Jérôme, tecnico quest'ultimo che le condizioni lavorative dell'azienda hanno disamorato della sua attività progettistica. Un giorno, nella sua villa di campagna dove amici e colleghi sono riuniti per il fine settimana, Jérôme tenta il suicidio perché gli è stato annunciato il licenziamento. Gabrielle e Marie lo salvano.
In un momento di solitudine, Marie cerca la compagnia dell'ex marito, ma tiene lontano Serge che pretenderebbe con la forza (l'attende, di notte, e la percuote rabbiosamente) di riallacciare il rapporto. Finiscono anche gli incontri con Georges, l'ex marito, quando Marie ne constata la debolezza: Georges non trova infatti il coraggio di parlare di Marie alla sua nuova giovanissima compagna, né sente l'imperativo morale di lottare per far riassumere il comune amico Jérôme. Costui, poco dopo, ripete il tentativo di suicidio, e stavolta nessuno è lì a salvarlo. La vedova accetta di vivere insieme a Marie. Quest'ultima aspetta un altro bambino. È di Georges. Si terrà il bambino e non dirà niente al padre.
Una storia semplice, come dice il titolo originale del film, ed anche una donna semplice. O no? Sautet lo vorrebbe, intendendo però nel senso di “comune, qualunque”, sia la storia che il personaggio. In una intervista ha dichiarato che chiede al cinema di aiutarlo a rappresentare in modo autentico la vita semplice della gente semplice, la sola che lo interessa. Ma la vita è complessa e contradditoria, altro che semplice.
L'ultimo film di Sautet è un mosaico, anzi un labirinto. I personaggi sono tanti, e tutti alle prese con problemi abbastanza complessi che mescolano fra di loro i rapporti, i sentimenti, i comportamenti, le accettazioni ed i rifiuti. La confusione e il disordine dominano, fatalmente, e non ci sono facili soluzioni a portata di mano. Anche la scelta è impossibile o comunque difficile: «Non si sa mai, nella vita», suonava l'ultima battuta di Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre, e si sa ormai che nel cinema di Sautet “tout se tien”.
Di certo, il personaggio di Marie è “diverso”. Nutre rispetto per sé, intende essere responsabile dei suoi atti, non vuole mai smarrire la sua lucidità di giudizio. Ha dei cedimenti e confessa di aver bisogno di tenerezza e di compagnia, ma vuol essere lei a decidere ed è pronta ad assumersi le conseguenze del suo agire. Se lascia qualcuno, non è necessariamente perché ci sia qualcun altro. Non può rinunciare a vivere come ha scelto di vivere per far piacere agli altri, siano anche il marito, l'amante, la madre o il figlio («Non puoi pretendere che io torni da Serge solo perché tu non sia più triste», dice alla madre). Il sentimento, benissimo, ma c'è anche dell'altro, ed è necessario saper vedere ed accettare.
Quando l'ex marito ricorda nostalgicamente: «Tutti ti volevano bene», lei ribatte, calma: «No, tutti no». È un dato di fatto, da assumere serenamente, e un ammonimento a non buttare tutto nel sentimento. «Quando io faccio una domanda voglio una risposta, non mi accontento di un sorriso», dice ancora. Non vuol essere la gattina di nessuno. Anche qui, Sautet considera il suo tipico universo di mogli, mariti, amanti, amici, dalla parte di lei. No, non è un film femminista, ma di sicuro la donna fa una figura migliore del maschio. Non ci sono le nevrosi della donna alla quale si rompe il guscio familiare, della “moglie” e della “donna tutta sola”, ma di sicuro, se gli altri personaggi femminili del film si adattano a compromessi, Marie vorrebbe gli uomini con le qualità che ha lei, e non ce le trova. Per questo sta sola, senza per questo rinunciare alla maternità e all'amicizia.
Non si può, credo, appiccicare in fondo alla “scheda” la notizia che Romy Schneider è l'interprete di questo personaggio. Marie vive sullo schermo in quel dato modo anche perché vive con l'essere di Romy Schneider. Il modo con cui dice «Sì», tranquilla, serena, dignitosa, il suo mezzo sorriso, la sua indulgenza, il suo sguardo limpido che accetta persone e cose anche quando è duro il farlo (ma a volte i suoi occhi lanciano terribili sguardi di giudice, come quando fissa, al funerale di Jérôme, l'ex marito, il quale tiene per contro gli occhi bassi), tutto questo non è solo sintonia di un'attrice con un personaggio, ma è quel personaggio. Sautet, per i suoi film di carattere psicologico, ha bisogno di appoggiarsi a professionisti scaltriti: la Schneider, come Claude Brasseur e Madeleine Robinson, come altrove Montand o Piccoli, non sono solo elementi di un cinema “ben fatto”, ma anche strumenti necessari per quel tipo di cinema fatto in buona parte di introspezioni, accenni, allusioni, trasalimenti.
La donna, l'amore, ma anche il vivere civile, l'amicizia, il lavoro. In Una donna semplice entra, molto più chiaramente che in precedenza, il tema del lavoro, la presenza della vita associativa; intimismo, ma anche commistione di pubblico e privato. Si vedono riunioni di lavoro, si sente parlare dell'apporto di capitali stranieri, si apprende che «licenziano gli impiegati, ma assumono nuovi direttori», si apprende che nell'azienda dove lavora Marie centoquattordici lavoratori sono in parte trasferiti, e separati così dalle loro famiglie, e in parte messi alla porta senza sussidio. Alla tv si vede una manifestazione contro la disoccupazione, e l'amica Francine, una del “giro” di Marie, è della commissione interna. Una copertura perché Sautet possa continuare a parlar d'altro? Non mi pare. C'è la faccenda del suicidio di Jérôme per motivi squisitamente occupazionali, ed è una faccenda determinante. Il lavoro non è sullo sfondo, è parte della vita di Marie e di tutti quelli che frequenta. Il lavoro influisce anzi, giustamente, anche sui rapporti umani.
La virilità dell'ex marito non è solo nelle prestazioni amorose, ma soprattutto nel modo in cui si comporta nei confronti dell'amico licenziato, e qui si dimostra scarso. Colui che lavora è considerato una pedina, non una persona, ma l'azienda è fatta di uomini e se questi disconoscono i valori umani non meritano amore. È qui che Marie giudica Georges, e quando si accomiata da lui definitivamente gli dice: «Me ne vado, non aver paura», «Paura di cosa?», risponde Georges, ma sa benissimo cosa intende Marie, che si è dimostrata ancora una volta di tanto superiore a lui, nutrito di convenienze, di paure, di tutto quell'equipaggiamento di piccole prudenze che appartengono al tipico piccolo borghese.
Ecco, appunto. È piccolo borghese il cinema di Sautet o sono piccolo borghesi i suoi personaggi? Anche il cinema di questo regista è “semplice” all'apparenza, ma difficile da enucleare nella sostanza. A me pare che Sautet parta da basi tipicamente borghesi e si rivolga a pubblici borghesi, ma non senza accogliere motivi di critica. Egli ama i suoi personaggi, li segue e li coltiva con evidente partecipazione, ma ha anche un po' delle virtù di Marie, credo. È indulgente con loro, ma li vorrebbe anche diversi. Li assiste, ma vede con chiarezza i loro limiti, e proprio nella sfera civile. È fuor di dubbio che il cinema di Sautet abbia un sostrato letterario di gusto ben francese, dove anzi il “buon gusto” si spreca (dando al termine anche un preciso significato negativo). Riesce a essere dolciastro e a dare valore alla banalità, con questa specie di superiore saggezza nella considerazione delle cose della vita, come provano alcune battute del suo ultimo film, pericolosamente inclini al fumettismo rosa o al cinema per signore («Non chiedere troppo. Anche questo è un modo d'amare»; «Si alza il giorno, e bisogna pur vivere»; «Tu sorridi ma io non so cosa fare di me. E mentre ti parlo tu sei già così lontana», e simili). E non è solo questione di battute: il modo con cui Romy Schneider è seguita e accarezzata dalla cinepresa è talvolta sospetto di compiacenza da rotocalco, sia pure per lettrici emancipate (la vediamo, ad esempio, una volta con i capelli raccolti sulla nuca, un'altra volta con i capelli a crocchia e con la riga in mezzo, poi sciolti a coda di cavallo, poi con la treccia, poi riccioluti, poi bagnati dopo il bagno e così via).
Però ci vedo sopra, o dentro, una adesione al vissuto. Quel mostrare le cose e i gesti, le tavolate di amici, le discussioni al bar, gli incontri nei corridoi sul posto di lavoro, la riunione dei parenti, con quel modo agile e sciolto di far vedere i personaggi, di seguirli con lievi movimenti di macchina, spesso con sole correzioni panoramiche, di passare da una all'altra situazione, quel modo di raggruppare insieme la gente, mi sembra un modo di guardarsi intorno con sostanziale curiosità e interesse per quel che accade. E, appunto, anche un modo di giudicare. D'accordo, quelli di Sautet non sono “contes moraux”, il suo non è il cinema di Rivette, né di Kast né di Rozier. Ma neppure quello di Vadim né di Lelouch, vivaddio. Elegante, cantore delle piccole cose, piccolo maestro del “dolceamaro”, del “dramma gaio”, fa sentire nondimeno l'afflizione che cuce insieme gli accadimenti. Capisco bene che soltanto a pronunciare frasi come «sorrisi e lacrime» si cade nell'insopportabile, ma Sautet è cosi, è in equilibrio su questo precipizio, ambiguamente sospeso fra i sospiri elzeviristici e le definizioni di una pena che ci intriga.