In occasione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia che inaugura domani la sua 73esima edizione, abbiamo deciso di tornare nell'archivio di Cineforum e di andare a rileggere cosa si scriveva dal Lido in due annate specifiche, il 1981 e il 1982, quando a portarsi a casa il Leone d'oro furono due registi il cui ritorno in concorso quest'anno è, a dir poco, atteso: Wim Wenders e Emir Kusturica.
Da Cineforum 218, ottobre 1981 in Berlino a Venezia, passando per Hollywood di Lodovico Stefanoni.
Un Leone d'oro a Wenders e uno morale a Fassbinder, attribuitogli da una dichiarazione fuori etichetta di Marcel Carné, presidente della giuria: il cinema tedesco torna trionfatore da Venezia (aggiungiamo, per inciso, che anche Imperativ, premiato con la Menzione speciale, è targato Germania). Ed è giusto che sia cosi, perché questa produzione, a fronte di quella italiana, sempre più in capace di trasmettere un'idea di cinema che faccia quadro al di là dei singoli film (che poi spesso sono mal riusciti anche come isolati «cammei» d'autore), ha sviluppato un'immagine di sé che travalica l'identità nazionale e si afferma come la coscienza più avanzata di un cinema europeo in grado di dialogare intelligentemente — cioè senza ostracismi e senza maldestre imitazioni — con Hollywood, ovvero con il grande dispositivo perfettamente autosufficiente, che non ha bisogno, per sorreggersi, di vetrine festivaliere o di sovvenzioni statali, di mitologie prese in prestito, vuoi dalla letteratura o da quell'al tra finzione che è il «sociale» e di «ismi» in varia foggia. La questione del referente ha senso per l'opera aperta all'europea, che nasce sul terreno delle stratificazioni culturali e di un'evoluzione dei mezzi di riproduzione, dove il film è fra gli ultimi arrivati e ha presente, inevitabilmente, tutti gli altri; la questione non si pone per il cinema - cinema hollywoodiano, che ha elaborato il proprio sistema di simboli e di produzione in tempo reale con la crescita di un'identità culturale, così da rendere in scindibile la realtà e il mito, l'oggetto e la sua immagine.
Ciò è stato colto da Highway 40 West, un film fluviale presentato nelle sezioni Officinae Mezzogiorno - Mezzanotte, realizzato guarda caso da un tedesco lungo il tracciato di una grande arteria statunitense coast to coast, da Atlantic City a San Francisco. Il regista Hartmut Bitomsky, pur attenendosi a una registrazione sommessa di occasioni di viaggio, si ritrova a percorrere quasi automaticamente vie dell'immaginario più che della geografia, o meglio entrambi i livelli, ormai confusi in un paesaggio che è trasposizione iperrealistica di se stesso, un gigantesco set steso fra oceano e oceano e a cavallo di due secoli.
Il film di Bitomsky, dove la fiction s'impadronisce inesorabilmente del documentario, rispecchia a livello latente ciò che Wenders rende invece esplicito nel suo decimo lungometraggio, ossia il prosciugamento della storia-esistenza nella storia-racconto, l'impossibilità di vivere senza il cinema — hollywoodiano naturalmente, visto che «l'America ci ha colonizzato il subconscio» — ma parallela l'impossibilità per il cinema di continuare a vivere.
«La vita scorre nel corso del tempo – dice Friedrich, il regista protagonista de Lo stato delle cose – tanto per autocitarmi... Le storie esistono solo nelle storie». Friedrich / Wenders contrappone all’esigenza di chiudere la parabola narrativa di un film, la cui lavorazione comunque si è troncata per mancanza di denaro e di pellicola, il bisogno di filtrarvi le oscillazioni, le contro spinte, i falsi movimenti, le potenzialità plurime e il senso angoscioso ed eccitante di futuro imploso, che sono oggi parte consapevole e irrinunciabile e della nostra condizione di uomini. Le difficoltà incontrate da Wenders durante la realizzazione di Hammet, anch’esso bloccato a metà per conflitti tra il regista e il produttore Coppola, si sono trasformate in un film che si fa forza della propria collocazione di interregno, crescendo negli interstizi di un quotidiano dominato dall’attesa e nelle interazioni imprevedibili fra i componenti di una troupe rimasti senza ruolo. «Non conosco che i dettagli – ha dichiarato l’autore in un’intervista – non posso pensare in termini di azione, posso solo pensare in termini di situazioni: forse diventeranno una storia».
Incorniciata fra due «saggi» di cinema americano – l’inizio con le riprese su un tratto di costa portoghese di un remake del film di fantascienza The Most Dangerous Man Alive di Allan Dwan, la fine con il viaggio di Friedrich a Los Angeles alla ricerca del produttore scomparso, che diventa un giallo alla Lang, pieno di luci e di ombre – la parentesi europea della troupe si carica di incipit nevrotici all’azione e di simulazioni del lavoro cinematografico. Lo sceneggiatore tenta di riagguantare un soggetto ormai squagliato; c’è chi ripassa, quasi a invocare un’illumina zione, The Seachers di Alan Le May, testo che già ispirò John Ford. Serpeggiano foto Polaroid, magnetofoni-diario, un minicomputer con terminale video che dovrebbe visualizzare i costi di produzione e ora serve come videogame. Il tempo è scandito dalla voce metallica di un orologio elettronico parlante. Qualcuno studia il mappamondo: l’illusione del mondo in una stanza; la misurazione dello spazio però si perde di fronte all’immensità muta e spaventosa dell’Oceano. Inutile interrogare – come già succedeva in Alice nelle città – quella massa oscura, lanciare messaggi da sponda a sponda.
Il film è fuggito col produttore, in un al di là che è l’America come fantasma, il residuo mitico fra realtà e rappresentazione che è necessario per continuare a fabbricare storie. L’al di qua è il senza-storia (o forse il dopo-storia) di un albergo abbandonato e fatiscente sulla riva del mare, dove tutto potrebbe succedere ma nulla accade, perché il corso del tempo non è la presuntuosa trasparenza che la troupe crede di aver trovato in assenza di finalità. Ma il fantasma, cioè lo scarto immaginario, cioè il cinema, rispunta a sorpresa, inafferrabile nel finale, a siglare, sul filo teso di realtà e allucinazione, due perfette morti da film noir. Il rincontro tra Friedrich (ma a questo punto il suo nome si è già perso nelle successive distorsioni: Fritz, Fred, l’ironico Fried Rice) e il produttore, che si dichiara braccato da misteriosi sicari e si è rifugiato su una roulotte in perenne fuga per Los Angeles, dissolve ogni inerte fenomenologia del quotidiano.
«La morte è la più grande storia del mondo», afferma il perseguitato tra deliranti canzoncine su Hollywood e sfottò all’intellettualismo europeo del regista, e su quel li mite oscuro, che è il momento strutturante del mito, rinasce la fiction. Come in L’amico americano, come in Nick’s Movie.
Lo stato delle cose non è semplicemente un omaggio al cinema americano in sé, ma uno sguardo nostalgico a un atteggiamento verso il cinema che non esiste più, e che si configura ad esempio nei film di fantascienza di serie B, dove gli autori creavano veramente un «altro mondo», assumendo come condizione provocatoria la povertà dei mezzi impiegati.
In omaggio a tale filosofia, Wenders affida la fotografia in bianco e nero al vecchio Henry Alekan, che coglie luce e ombra «non sotto il loro aspetto fisico, ma partendo dalla loro tensione interna e i loro effetti drammatici»; il regista inoltre raccoglie nel suo film alcuni fra i più tipici rappresentanti dell’«artigianato» hollywoodiano, come Sam Fuller e Roger Corman, qui attori, nonché l’outsider Robert Kramer, coautore della sceneggiatura. È un modo implicito di affermare che la possibilità di immaginare l’America non sta nel falso realismo di Dallas o nel falso onirismo di Guerre stellari.
Con questo messaggio fra le righe riemerge tuttavia anche l’idealismo europeo di Wenders, quello che lo porta a cercare nella produzione hollywoodiana un referente («quel» cinema invece che un altro, l’artigianato invece che l’industria) e a non afferrare l’essenza del cinema – cinema in evoluzione costante e organica con l’immaginario collettivo, che è da sempre Hollywood, oggi come ieri. È proprio nelle autolimitazioni di un «discorso su» che risiede quanto di forzoso e asfittico caratterizza Lo stato delle cose, nonostante i colpi di genio.
Per contro non si può che apprezzare la grandezza di Querelle de Brest, che è nuovo cinema europeo: una risposta all'America non in termini di argomentazione, ma di perentoria affermazione; un film che dai pochi che l'han capito è stato definito compatto, moderno, spregiudicato.
Era chiaro da anni che Fassbinder era fra i registi tedeschi quello maggiormente in grado di concepire il cinema come complesso dispositivo di seduzione, e il più lontano dai trabocchetti del film d'autore povero, antispettacolare; ma le sue recenti divagazioni sul divismo, che si chiamano Lili Marleen, Lola, Veronika Voss, non sono mai apparse cosi motivate e in progress come dopo la visione di Querelle. Erano tappe d'avvicina mento a un cinema di fantasmi, quelli della coscienza tedesca, come è stato detto da più parti, ma più ancora quelli di un immagina rio collettivo che si avvia all'entropia, a una saturazione di segni-feticcio che sfuggono al sistema «classico» della proiezione (attiva zione di uno scambio) per proporsi come og getti assoluti, statici, di pura contemplazione.